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Due pillole di teatro prima dei pasti


Credo che fare teatro sia profondamente terapeutico, e vorrei spiegarti in che senso lo è stato e lo è tuttora per me, con la precisazione che me ne occupo a livello amatoriale e che quanto vado ora a raccontare sono considerazioni legate alla mia esperienza ed in quanto tali limitate alla mia persona.

Partiamo da un fatto piuttosto evidente: i condizionamenti sociali ci hanno fin dalla più tenera età educati a non esprimere molte delle nostre emozioni, o a manifestarle in modo blando: è vietato piangere, è vietato mostrare rabbia, è vietato farci vedere spaventati.

Anche esprimere gioia, in molti contesti, è considerata un’attività deprecabile: talvolta è più tollerata la compagnia di una persona triste, che magari ci fa sentire utili nei suoi confronti mentre ci prodighiamo in attività consolatorie, di quella di una persona felice, che ci mette involontariamente di fronte alle nostre presunte inadeguatezze.

Ma reprimere le emozioni è un po’ come trattenere uno starnuto: è parecchio dannoso; perché quello che non esplode, implode: l’energia deve in qualche modo trovare una via di sfogo.

Da qui tutta una serie di manifestazioni psicosomatiche più o meno correlate alla nostra condizione di animali repressi.

Torniamo dunque al teatro: recitare non è ripetere a memoria un copione. Se devi mettere in scena una parte triste, devi essere triste. Se la parte è rabbiosa, devi essere incazzato. Se non sei, dentro, ciò che vuoi esprimere, il pubblico lo avvertirà, e per quanto tecnicamente tu sia bravo, non riuscirai a trasmettere nulla. Questo è quanto mi hanno insegnato nei pochi anni di corso, questo è quello che ho verificato sul campo nel mio piccolo.

Quale miglior ambiente protetto, dunque, per esprimere le emozioni represse senza sentirsi per questo giudicati? Finalmente posso essere libero di incazzarmi, e quanto più lo farò in modo realistico, tanto meglio verrò giudicato; non è fantastico? E non si tratta semplicemente di fingere, perché il lavoro va fatto bene: bisogna proprio trovarsi in quello stato.

Certo, talvolta può far male: una attore professionista mi raccontava che quando deve recitare parti tristi attinge al suo archivio di ricordi dolorosi, per portarsi nel giusto stato d’animo.

Ma il nostro corpo ha bisogno anche di questo: ha bisogno di soffrire, gioire, deprimersi o esaltarsi liberamente, e il teatro offre un contesto protetto in cui si può (anzi, si deve) finalmente fare senza controindicazioni.

Accidenti! Ma dovevo proprio arrivare a recitare per essere finalmente me stesso?

Sally: quello che non…


Credo che imboccare un percorso di crescita e sviluppo personale finalizzato a vivere pienamente la propria vita significhi innanzitutto abbandonare i nostri preconcetti su chi pensiamo di essere, o su chi pensiamo di dover sembrare per venire accettati dalla società.

Per farlo le chiacchiere non servono a nulla, bisogna agire; compiere azioni che smantellino le nostre maschere, di fronte al mondo e di fronte a noi stessi, correndo talvolta il rischio di essere presi per sciocchi se non addirittura pazzi, come accadde al Moscarda di pirandelliana memoria.

Si tratta semplicemente di scegliere fra vivere e fingere.

Credo, nel mio piccolo, di avere iniziato a percorrere questa strada, e questo articolo vuole rappresentare un altro passettino del lungo cammino che ho davanti.

Devi sapere che a me piace molto cantare, oltre che suonare la chitarra; fino a poco tempo fa l’ho sempre fatto per me, nell’ambiente protetto delle quattro mura domestiche; per paura del giudizio altrui, fondamentalmente.

Poi mi sono detto: ma se questo ti dà piacere, a prescindere dal risultato della performance, perché non farlo liberamente anche in pubblico? Perché non condividere col mondo questo aspetto di te?

Se sei timido come me allora saprai che, pur sembrando una cosa semplice, in realtà non lo è affatto… e infatti per me non lo è stata; ci sono riuscito facendo leva su un’altra delle mie debolezze: l’egocentrismo. Ed ecco che mi sono esibito nei primi karaoke: non saprei dire con che risultati esterni, ma sono certo che quelli interni ci sono stati. Perché ho liberato una parte di me che era imprigionata.

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Sotto questo punto di vista, potrò dire di essere veramente maturo quando riuscirò ad esibirmi per le strade cittadine, magari con un cappello per le offerte di chi avrà provato qualche emozione grazie a me (sperando che non si tratti di pena); ma per arrivare a questo punto la strada è ancora lunga.

Ti domandi il perché di un obiettivo tanto eccentrico? Perché sarebbe un modo per abbandonare l’attaccamento all’immagine che ho di me e che sto ostentando al mondo. Che direbbero quelli che mi conoscono? Che sono caduto in disgrazia? Che sono patetico? Che sono impazzito? Solo riuscendo ad essere indifferente a tutto questo potrei veramente dire di avere raggiunto un distacco sostanziale. In fondo, a ben pensarci, che reale differenza passa fra il cantare in casa propria o per i vicoli di Genova?

Ma andiamo per gradi. Per ora, un obiettivo sicuramente più abbordabile è quello di condividere le stonature mie e della mia chitarra col pubblico della rete. Ed ecco il motivo di questo articolo, in calce al quale troverai due fra i più cliccati video di YouTube. Ti confesso che rivedermi e riascoltarmi non è per nulla piacevole, perché sono il più spietato giudice di me stesso: ma è soprattutto quel parassita che devo far fuori.

Le canzoni che ho scelto sono fra le mie preferite, ed a mio avviso molto in tema con questo blog; al di là di questo mio giochetto, ti prego di ascoltarne le versioni originali, perché i loro testi sono molto profondi.

Chiudo con un estratto di uno di questi, la canzone Sally di Vasco Rossi.

Forse alla fine di questa triste storia
qualcuno troverà il coraggio
per affrontare i sensi di colpa
e cancellarli da questo viaggio
per vivere davvero ogni momento
con ogni suo turbamento
e come se fosse l’ultimo.

Questo mio sforzo lo dedico a te, Sally, con l’augurio che anche tu riesca a trovare la forza di uscire dal solco. Perché l’importante è essere veri, non perfetti.

La recita della propria vita


Ieri sera ho concluso un corso di recitazione tenuto dal bravissimo Mauro Pirovano, ineccepibile professionista ma soprattutto persona umanamente squisita e dalla sensibilità fuori dall’ordinario.

E’ stata un’esperienza che mi ha arricchito enormemente, ma voglio qui parlare di quello che a mio avviso è stato per me il principale valore aggiunto del corso.

In queste serate Mauro ci ha ripetuto più volte che, per essere naturali quando si recita una parte, occorre cercare di vivere realmente la situazione che si sta portando in scena; il suo consiglio ricorrente è stato: visualizza la scena, perché al pubblico trasmetti l’immagine che stai creando nella tua mente; pensa a come ti sentiresti realmente se fossi in quel frangente, se vuoi essere credibile.

Tutti noi partecipanti ci siamo impegnati in questo ottenendo discreti risultati: a sua detta eravamo molto naturali, in particolare nelle scene improvvisate. Lo penso immodestamente anche io, ma altrettanto immodestamente aggiungo: perfino troppo.

Intendo dire che, almeno per quanto mi riguarda, sfruttando l’alibi della recitazione davo libero sfogo alle mie emozioni, pur se artificialmente costruite, lasciando che fluissero prive di inibizioni e descrivessero fedelmente come sarei stato qualora mi fossi trovato nella situazione portata in scena.

La differenza fondamentale è che nella finzione di queste serate di corso mi sono sentito libero di mostrarmi in pubblico, mentre se il fatto fosse accaduto realmente questo non sarebbe successo: avrei mascherato ciò che provavo per paura di mettermi a nudo di fronte al prossimo, paura che invece non aveva ragione di essere nel momento in cui sapevo trattarsi di palese simulazione.

Capisci cosa voglio dire? Pur nella finzione della recitazione, mi sono mostrato molto più genuinamente al prossimo di quanto lo faccia solitamente nella realtà! Il corso mi ha fatto capire di avere paradossalmente recitato molto più nella vita reale che non su quel temporaneo palcoscenico. Nella vita reale sono finto, sul palcoscenico ero vero!

teatro

Questa considerazione mi ha aperto un mondo: dove sta la realtà, e dove sta la finzione? Chi sono veramente io dunque? Quanto conosce di me – il vero me – chi mi circonda?

La triste verità è che la maggior parte della mia vita è una recita, perché ho troppa paura di scoprire le carte col prossimo; dovevo iniziare un’attività di recitazione, per comprendere che interpreto da sempre un ruolo che non è mio, ma tarato su quelle che giudico essere le aspettative altrui nei miei confronti.

Paradossale, cervellotico, illusorio ma tremendamente reale!

E tu? Come sei messo tu?