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Come io vedo il counseling


L’altro giorno si parlava di apprendimento con mia figlia, studentessa al liceo.

Le facevo notare che un metodo affidabile per verificare di aver appreso una nozione è quello di spiegarla a qualcuno che non ne sa nulla, perché probabilmente inizierà a fare domande imprevedibili, portando il tracciato della spiegazione su un percorso a noi nuovo e costringendoci a vedere quella nozione da un’altra angolazione; o più semplicemente non riuscirà a seguire il nostro filone narrativo, e ci spingerà ad adottarne un altro.

Quale che sia la dinamica, ci stimolerà a formulare risposte che possediamo solo se, nel nostro processo di apprendimento, siamo scesi in profondità, ossia abbiamo abbandonato la superficie descrittiva della nozione per andare alla radice, facendo nostra quest’ultima.

La conoscenza si trova su un livello più profondo rispetto alla sua descrizione verbale e intellettuale, tuttavia per accedervi con gli strumenti tradizionali di apprendimento bisogna passare da quest’ultima, che non sarà mai unica, ma una fra tante.

Nel momento in cui si ha avuto accesso al concetto profondo, da lì è poi possibile risalire al livello descrittivo, magari utilizzando una verbalizzazione diversa da quella di partenza.

Il counseling a mio avviso funziona allo stesso modo: il counselor fa del suo meglio per raggiungere la tabula rasa di ogni sua conoscenza pregressa sugli esseri umani (facile a scriversi, impossibile da mettere compiutamente in atto) e si pone di fronte al cliente come uno studente del primo anno desideroso di apprendere, mentre il cliente spiega (oh, quanto mi affascina l’ambivalenza di questo termine) sé stesso.

Non serve altro, se non un genuino desiderio di apprendere il mondo dell’altro, che per spiegarsi è stimolato a conoscersi, vedersi da diverse angolazioni, comprendersi. Perché troppo spesso siamo convinti di essere limitati alle descrizioni superficiali che ci hanno arbitrariamente appioppato.

Tutto questo è magia, la magia dell’ascolto empatico e non giudicante. La magia del counseling.

Sulla superficie


Non so se capita pure a te: ci sono giorni in cui tutto va a gonfie vele, e mi sento su di giri; altri in cui la giornata inizia male e finisce peggio, e tutto sembra difficile ed i problemi da affrontare troppo grandi per le mie forze. Giorni in cui ho piacere a stare con gli altri, altri in cui il prossimo mi irrita anche solo nel farmi una domanda.

Per spiegarti come mi sento, ti propongo il disegno seguente.

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Quella che raffiguro è la superficie (terrestre?) interamente coperta dalle acque; ogni punto di essa rappresenta un diverso stato d’animo: ci sono zone soleggiate caratterizzate da calma piatta, zone in cui il mare è agitato, zone in cui imperversano i venti, zone di alta marea illuminate dalla luna.

Se mi incontri quando espongo il versante coi marosi, meglio prendermi con le pinze; se devi chiedermi un favore, meglio se mi approcci dal lato soleggiato; se devi propormi un’impresa, auspica di incontrarmi quando c’è alta marea.

Il punto è che, non sentendomi per nulla speciale, sono convinto che pure tu sia fatto in questo modo e, per estensione, che ognuno di noi lo sia; e nelle mie interazioni col prossimo trovo parecchie conferme di questa convinzione.

Perché uso la metafora del mare? Fondamentalmente per due motivi; da un lato perché la sua superficie è molto sensibile a ciò che accade all’esterno: ora c’è calma piatta, ma lascia che si sollevi il vento e subito le acque si agitano. Dall’altro, perché ogni superficie, in quanto tale, nasconde delle profondità.

Come ogni sommozzatore potrà confermare, queste ultime non risentono poi tanto di quanto accade sopra. Là sotto, lo stato è mediamente sempre lo stesso. E questo è fantastico!

Fantastico perché se, rapportandomi col prossimo, riesco a non fermarmi alla facciata, ma mi sforzo di vedere in profondità, allora forse riesco a non farmi influenzare dallo stato temporaneo in cui i fatti contingenti l’anno costretto; forse riesco ad essere comprensivo anche se ha un diavolo per capello, magari perché ha appena affrontato una sventura, e mi risponde sgarbatamente.

Ma l’aspetto più importante riguarda me: se riuscissi a capire che io non sono quello volubile che sta in superficie, plasmato da esperienze fortuite e casuali, ma mi calassi introspettivamente nel profondo della mia essenza, forse avrei una migliore comprensione di ciò che mi accade, di chi sono e di ciò che effettivamente voglio…

Fantastico, sì, ma quanto è difficile da mettere in pratica!