L’entropia è la misura, al negativo, della quantità di informazione: maggiore l’entropia, minore l’informazione.
Un’idea è una sorta di avvallamento nella superficie mnesica, un solco; se abbandono l’idea senza sostituirla con un’altra il solco si appiana e l’informazione si riduce, l’entropia aumenta.
E’ come cancellare dei segni da un foglio fino a tornare alla superficie bianca, in cui l’entropia è massima e l’informazione nulla, è quella che definirei la via yin all’illuminazione.
Ma a ben vedere esiste una seconda via altrettanto valida, che definirei yang, e consiste nell’aggiungere informazione.
Via via che si maturano nuove idee la superficie mnesica si arricchisce di solchi, il foglio si riempie di tratti fino ad arrivare a una superficie uniformemente scavata, a un foglio senza più spazi bianchi.
Il massimo dell’informazione equivale a nessuna informazione. L’infinito collassa nello zero. Il cerchio si chiude.
Non importa che strada scegli, l’entropia, per un ben noto fenomeno fisico, è destinata ad aumentare, e alla fine la verità avrà il sopravvento.
E’ solo questione di tempo. The best is yet to come!
Ringrazio Corrado Malanga per i suoi preziosi spunti sull’entropia.
Ti stai addentrando nel bosco incantato, una selva immensa ricca di ogni forma di vegetazione, solcata da una miriade di sentieri che si intrecciano, si biforcano e si ricongiungono in una ipnotica, statica danza.
Non sai dove portano tutte quelle tracce, ma quella che stai percorrendo è parecchio battuta e la conosci piuttosto bene. Attorno a te la boscaglia è fitta, un intrico di rovi e di ramaglie spezzate dalle intemperie.
Avanzi deciso, con passo svelto e sicuro.
Improvvisamente un fatto inatteso: due grossi alberi si sono abbattuti lungo la via rendendo impossibile il passaggio. Sono lì, di fronte a te, che ti sfidano irrispettosi: di qui non si passa.
Resti attonito, fermo a guardare l’ostacolo insormontabile. Senti le forze venir meno, quasi stessi per svenire: non conosci altro percorso che ti conduca là dove volevi arrivare.
Magari c’è, ma tu non lo sai.
Lo smarrimento inizia a pervadere ogni tua cellula, lo scoramento si fa strada; cosa farai adesso? Dove andrai?
Tornare indietro e imboccare un nuovo sentiero: non ci sono alternative. Questa soluzione non ti piace, non ti piace per nulla: sei attaccato all’idea di raggiungere il luogo rimasto al di là dell’inaspettata barriera, e fai fatica a metterla da parte.
Apparentemente non hai altre possibilità, eppure resti lì, testardo, come se da un momento all’altro potesse accadere qualcosa, una magia che possa riaprire la via.
E proprio quando stai per toccare il fondo, immerso nella disperazione più nera, ecco che la magia si manifesta: non nella forma che ti aspettavi, ma per fortuna riesci a riconoscerla e accogli il messaggio del Destino, facendolo tuo.
è un pensiero che emerge dal profondo: quel sentiero, tutti quei sentieri, non esistono da sempre: anni addietro la selva occupava ogni angolo del territorio.
L’hai dimenticato, ti sei semplicemente abituato alla loro esistenza. Ti sei abituato alla vita facile di chi trova la strada già segnata, ma un tempo qualcuno ha dovuto aprirsi un varco nel nulla.
Inizialmente un varco angusto, quasi invisibile all’occhio non allenato; poi in tanti hanno iniziato a percorrerlo e piano piano si è allargato, è divenuto più agevole, è diventato un sentiero battuto.
E molti altri, allo stesso modo, sono nati in seguito: il coraggio di chi ha saputo affrontare la boscaglia, allontanandosi dalla via conosciuta, ne ha create di nuovi.
Ecco, questa è la strada. Anzi, la non-strada. Addentrarsi nella boscaglia, lasciarsi ferire il volto dai rovi, sudare e spellarsi le mani nel tentativo di spezzare un ramo che intralcia il passaggio, lasciarsi sorprendere dall’apparizione di una radura inattesa.
Uscire dalla prigione del comodo sentiero e addentrarsi libero nel bosco senza più bisogno di arrivare da nessuna parte.
Quel muro andrebbe abbattuto; separa due stanze troppo piccole, inutilizzabili; rimuovendolo, invece, si ricaverebbe una camera da letto molto spaziosa.
Occorre però spostare tutti i mobili, da qualche parte bisogna pur metterli. L’idea della polvere che normalmente accompagna l’operato dei muratori assetati di distruzione, poi, mi terrorizza. E poi ci sarà da ridipingere le pareti. Odio dipingere le pareti! Senza contare che, lavori a parte, il cambio di destinazione di quelle due stanze mi costringerebbe a cascata a ridisegnare il layout dell’intera casa.
Insomma, che situazione complicata: lo status quo non mi soddisfa, immagino che a lavori ultimati starei molto meglio, ma la prospettiva di attraversare la fase destabilizzante della ristrutturazione mi blocca in una situazione di stallo.
Vorrei cambiare, ma non posso. Cosa mi frena in definitiva?Da dove nasce la mia paura del cambiamento? Posso individuare un motivo più fondamentale sotteso alle mie dinamiche più o meno inconsce?
Per quanto mi riguarda, direi di sì. Non sono le paure di soffrire, di faticare o di sbagliare a frenarmi, ma qualcosa di più fondamentale: in quanto essere biologico sono un sistema omeostatico, un sistema che tende al raggiungimento dell’equilibrio e al suo mantenimento. Per questo mi è così difficile cambiare: per farlo bisogna abbandonare la situazione di equilibrio (che si potrebbe altrimenti definire zona di comfort), attraversare una fastidiosissima e per nulla desiderata fase di sbilanciamento, per poi raggiungerne un’altra.
Non so se c’è, ma mi convinco che c’è, ci dev’essere per forza… chissà come sarà poi? Migliore o peggiore di quello attuale? E non mi rendo conto che in fondo non importa nulla, perché quello che alla fine più interessa alla mia macchina biologica non è stare bene, ma stare in equilibrio senza troppi sforzi. Non accetterei mai il nirvana a condizione di stare perennemente su una corda tesa e dieci metri da terra.
Perché come forse saprai l’equilibrio può essere stabile, instabile o indifferente: nelle specie di primo tipo lo stato del sistema tende a ritornare al punto di partenza, e può essere necessario applicare una forza molto grande per discostarsene definitivamente.
E siccome, ahimé, sono una persona assai equilibrata, mi trovo in svariate situazioni di vita in questa condizione. E conosco tante, troppe persone come me, che rimangono in situazioni scomode, talvolta foriere di sofferenza, ma dotate a loro modo di un marcato equilibrio e pertanto difficili da abbandonare.
Estremizzando provocatoriamente (ma non troppo), anche lo stato di chi subisce quotidianamente violenza (fisica o psicologica che sia), a ben analizzarlo, può rappresentare una condizione di equilibrio stabile, che si può raggiungere anche solo per reiterazione, una ripetizione che scava quel solco profondo, che chiamiamo abitudine, dal quale difficilmente la pallina riesce ad allontanarsi.
Ti sei mai chiesto cos’è l’umorismo? Che cosa, in una battuta o barzelletta, provoca in te il sorriso?
La risposta è semplice: uscire dal solco! Se rifletti sulle situazioni divertenti ti renderai conto come ognuna di esse poggi su associazioni inusuali fra concetti apparentemente distanti, oppure su interpretazioni non previste di un fatto che ne ribaltano completamente il significato. Questo cambio di prospettiva genera ilarità.
Facciamo un esempio.
La maestra chiede a Pierino: – io studio, tu studi, egli studia. Che tempo è Pierino?
La domanda produce nel lettore un’aspettativa sulla risposta di Pierino basata su una particolare interpretazione della parola ‘tempo’.
Pierino risponde: – tempo perso, maestra!
La risposta crea uno cambiamento di prospettiva, un’interpretazione nuova e inaspettata della domanda. Alla parola ‘tempo’ viene attribuito un significato inatteso per quel particolare contesto. Questo repentino spostamento semantico è alla radice della situazione divertente.
Ancora:
Il suo cuore, signora, funziona molto meglio. Evitare le scale per un mese come le ho prescritto ha portato notevoli benefici!
Interpretazione attesa: la signora, anziana ed acciaccata, per un mese è stata a riposo senza affaticarsi.
Molto bene dottore. Posso smettere la cura allora? Sa, è piuttosto faticoso ogni giorno salire al terzo piano su per la grondaia!
Interpretazione fuori dal solco: la signora è arzilla e agile, non è stata affatto a riposo, l’immagine contrastante e un po’ surreale di una vecchietta che si arrampica su per la grondaia provoca un sorriso.
Passa in rassegna le barzellette che conosci e prova ad interpretarle sotto questa nuova luce: ti accorgerai che sono divertenti perché escono dal solco.
Sembrano argomenti apparentemente scollegati, in realtà sono unificati dal filone portante di questo blog, la presenza di solchi mentali. Ti chiedo la cortesia di farti un po’ di violenza psicologica nel leggere queste righe, perché ho intenzione di turbare, per l’ennesima volta, il tuo amor proprio.
Partiamo dall’ultimo articolo citato: in quell’occasione ho rilevato come, dato un evento esterno che ci danneggia, il nostro livello di rabbia sia molto più elevato se la causa scatenante è umana e non accidentale. Dico ‘accidentale’ proprio per rimarcare la differenza: intendo la totale mancanza di una qualche forma di volontà che causi, direttamente o indirettamente, il danno.
Già, perché se dall’altra parte c’è un evento fortuito, da un lato non ho modo di intravedere una qualche forma di persecuzione nei miei confronti (o, al meglio, colposa mancanza di riguardo), dall’altro non c’è nessuno con cui prendersela, viene meno la liberatoria soddisfazione di attribuire la colpa (anche se molti, affetti da manie di persecuzione, tendono a sottoporre a straordinari la propria fantasia pur di trovare il modo di riuscirci, arrivando persino a catalizzare una temporanea entità divina).
Alla base di tutto sta però un assunto: che ci sia differenza fra l’atto umano e l’evento accidentale. Il primo è causato da una volontà, e pertanto è evitabile, il secondo no: pur se apparentemente casuale, andando ad analizzarne a posteriori la meccanicità riusciamo a consolarci intravedendone l’ineluttabilità; pazienza, era destino! Tutt’altra cosa per quello stronzo del mio vicino che non si è preoccupato di tenere a bada le sue dannatissime capre, che hanno divorato la mia insalata.
Ma sei sicuro che le cose stiano così? Rispolveriamo adesso il discorso delle abitudini. Se ci fai caso, noterai quando queste siano preponderanti nel guidare i tuoi gesti quotidiani, molto più di quanto tu possa immaginare a prima vista. E più avanzi negli anni, più i solchi scavati le consolidano. E cosa sono le abitudini, se non meccanicità? Inevitabilità?
Ora, se solo per un momento provi a pensare al tuo vicino come ad un agente permeato da abitudini, da meccanicità, non ti riesce forse più facile annoverarlo fra le cause accidentali? Se la risposta è no, probabilmente è dovuta al fatto che non riesci veramente ad inquadrarlo in quest’ottica.
Non ti chiedo (per ora) lo sforzo di considerare te stesso come un automa per lo più caratterizzato da mancanza di volontà, anche se dalla cosa trarresti enorme beneficio, ma di farlo con chi ti sta attorno. Prova ad osservarli, a notare quante cose fanno in un certo modo perché non possono fare diversamente. Se riesci a vederli in quest’ottica, allora riuscirai forse a giustificarli.
Non è un invito all’impunità, se qualcuno infila la mano nella pentola in ebollizione è normale che si ustioni, anche se lo ha fatto meccanicamente; è certamente opportuno che ciascuno subisca le conseguenze delle proprie azioni, ma questo non significa che non sia meritevole di un minimo di comprensione. Non fosse altro che per evitarci inutili, dispendiosi rancori.
Non ti convince quanto dico? Sii galileiano allora, sperimenta: scegli una delle tue abitudini, una ben radicata, e prova per una settimana a non lasciarti manipolare da essa, a sottrarti. Vedrai quanto sarà difficile, vedrai quanto ti sentirai meccanico.
E ricorda che le abitudini non guidano solo i comportamenti, ma anche le opinioni.
La linea guida di questo blog vuole mettere in guardia il lettore dai solchi delle sue abitudini mentali; la porto avanti con tale convinzione che mi sono reso conto di correre il rischio di essere frainteso, e voglio ora sgomberare il campo da eventuali equivoci.
Mi ha portato a questa riflessione un’amica osservando, pur se in un contesto completamente differente, come il combattere le nostre abitudini finisca il più delle volte col sostituirne una con un’altra. E allora mi sono chiesto: perché accade ciò? E soprattutto: è davvero un male che accada?
Pensa un attimo a come sarebbe la tua vita senza automatismi: per ogni piccolo gesto da compiere, il tuo cervello si troverebbe impegnato in innumerevoli decisioni: è meglio che prenda prima il barattolo del caffè o il latte dal frigo? E prima ancora: stamattina faccio colazione? E prima ancora: è meglio spegnere la sveglia con la mano destra o con la sinistra?
Ti renderai condo che una situazione del genere è da manicomio: ti ritroveresti già spossato prima ancora di arrivare sul posto di lavoro.
Quindi l’operato del nostro cervelletto è utile. E allora perché scriverne tanto?
Ci ho riflettuto su, e sono giunto a questa conclusione: l’automatismo è uno strumento che ci aiuta a raggiungere determinati obiettivi in modo più o meno efficace; in séèdunque molto utile. Non va demonizzato.
Il problema sorge quando da strumento si trasforma in obiettivo.
Quando un’abitudine, che si è consolidata a causa della sua ripetizione, ti costringe a compiere gesti privi di scopo se non quello di reiterare un comportamento, lì si crea la distorsione. E la mancanza di consapevolezza di tutto ciò garantisce il perdurare della situazione e ne costituisce un’aggravante.
Quante volte senti dire da persone di esperienza che una determinata attività “si fa così!”? Ma si fa così per motivi di opportunità, o perché si è rivelato utile in passato e a furia di farlo ci si è abituati?
Credo sia questo il criterio con cui discriminare: l’abitudine, il solco, è uno strumento che l’evoluzione ha sviluppato in noi perché è vantaggioso, sta a noi capire quando ci sta prendendo la mano ed evitare che accada.
Per analogia: il telefono e Internet sono strumenti di comunicazione utilissimi; ma nel momento in cui ne diventi schiavo e li usi solo per il piacere di farlo (o perché senti una pulsione che ti spinge a farlo), in quel momento diventano dei bisogni: l’inversione è avvenuta.
Se ne sei consapevole, continua a non esserci nulla di male.
L’altro giorno ho visitato una mostra sulle opere di Leonardo Da Vinci e di fronte a tanta genialità non ho potuto fare a meno di misurare la distanza fra la sua e la mia persona; questo, invece di infondermi ottimismo sulle immense potenzialità dell’essere umano, ha generato in me tutta una serie di emozioni negative fondamentalmente derivanti dalla mia stupida presunzione, che ho poi analizzato più in dettaglio per capirne la natura; ho deciso di condividere la supposta diagnosi con te, con due scopi: da un lato diffondere la conoscenza di certi meccanismi della mente umana (potrà tornare utile per uscire dal solco), dall’altro puntare i riflettori su una delle mie (tante) personalità che lavorano nell’ombra a mio discapito, nella speranza che metterla alla berlina possa in qualche modo sottrarle energia vitale.
Partiamo dunque dall’esistenza di un io, di cui ero già a conoscenza ma che in quest’occasione si è delineato più nitidamente, che voglio assolutamente far fuori perché mi sta causando parecchi problemi. Te lo presento, tanto per tenere le distanze userò un nome di fantasia, lo chiamerò Silvio. Silvio è cresciuto in me grazie all’educazione, alla scuola, alle esperienze di vita. Mi piace pensare che quando sono nato Silvio non c’era: non è lapalissiano, intendo dire che non fa parte della mia essenza, è venuto dopo.
Silvio è un bambino che va molto bene a scuola, è uno di quei primi della classe che stanno antipatici a tutti ma che fa comodo avere per amici nel momento del bisogno. Quando non hai capito qualcosa sui compiti chiedi a lui, lui ti risolve il problema e si sente fiero. In classe è una star, fuori è nessuno. Lui ne è consapevole, infatti nel suo ambiente ostenta sicurezza, quasi è sbruffone, fuori invece si fa piccolo piccolo, non è mai protagonista, sta sempre sullo sfondo e spesso si sente una macchia che ne altera l’omogeneità. Una delle sue fantasie preferite, quando è fuori dalla scuola che aspetta il pulmino e osserva gli altri bambini giocare, è che arrivi un robot nemico da Vega e attacchi la terra, e lui si trasformi nel supereroe alla guida del robot buono e lo sconfigga fra lo stupore di tutti (per la cronaca ed i meno giovani: si tratta ovviamente di Goldrake).
La madre esalta queste sue doti di bravo studente con chiunque, lo porta in palmo di mano, quando Silvio ha cinque anni lei dimostra ad un conoscente, che domandava come mai Silvio non andasse all’asilo, che non ne ha bisogno, “perché, vede, sa già l’alfabeto”! E come prova Silvio lo recita tutto orgoglioso, invertendo la enne con la emme perché così gli è stato insegnato. Al di fuori di ciò che non è scuola (territorio che la madre non riesce a frequentare in quanto poco scolarizzata), Silvio viene invece protetto e aiutato, perché “è piccolo, non è capace”.
Silvio sviluppa poco a poco una dissociazione fra mondo della scuola (il mondo platonico delle forme dove tutto è perfetto, e per ogni problema c’è soluzione, che Silvio peraltro sa di non avere difficoltà a trovare) e mondo reale (imperfetto, spiacevole, pieno di domande a risposta multipla che a Silvio non piacciono).
In questo contesto, Silvio sogna di dimostrare un giorno a questo mondo che adesso lo ignora che lui è il migliore. E lo fa sviluppando il suo muscolo più pronunciato, quindi studia, legge, si accultura. All’università va alla grande, la sua vita sociale è al top, è un leader, un punto di riferimento!
Quando arriva l’età delle domande sul senso della vita si innamora della fisica, legge libri divulgativi sulla teoria della relatività, la teoria quantistica. Preferisce la matematica alle discipline umanistiche, perché in quel mondo astratto e perfetto fatto di dimostrazioni rigorose si sente al sicuro. Poi scopre l’informatica. Un algoritmo è la sublimazione della perfezione: nulla può uscire dai binari impostati, tutto funziona come un orologio svizzero, non sono ammesse eccezioni, è bello vedere la pulizia di un flusso di operazioni che si susseguono esattamente come hai pianificato! E’ bello avere un interlocutore che esegue alla lettera e senza discutere tutte le istruzioni che gli fornisci!
Per Silvio non sono ammesse soluzioni sub ottimali; le sue azioni devono risolvere il problema in modo perfetto: non gli interessa avvicinarsi all’obiettivo, magari procedendo per approssimazioni successive; o lo centra subito o niente. Avvicinarsi soltanto rappresenta già una sconfitta. Silvio ha anche un’immagine da difendere: nel suo campo deve primeggiare; altrove non vale la pena di sbattersi, non gli interessa. E’ un territorio impuro, lui non si abbassa.
Quindi prima di intraprendere un’azione occorre pensarci bene, perché non si può fallire. E in effetti Silvio riesce quasi sempre nelle poche cose che fa.
Detto questo, va da sé che i punti di riferimento di Silvio non possono che essere figure d’eccellenza, quali appunto Leonardo; ma il suo benchmark preferito è sicuramente Einstein. Qualsiasi opera un uomo possa compiere è poca cosa di fronte a quello che questi uomini hanno fatto, e rappresenta un obiettivo non centrato. Qualsiasi impresa diversa da queste (e nel concreto per Silvio tutte ovviamente lo sono) non vale la pena. Ogni attività di Silvio quindi viene portata avanti senza quella convinzione e quell’energia che sarebbe necessaria, perché tanto è poca cosa… una goccia nel mare, simile a tante altre.
Ecco, in soldoni questo è Silvio: questo è il personaggio a cui ho deciso di dare battaglia, la dichiarazione di guerra formale è rappresentata da questo articolo.
Ti assicuro che è molto forte e subdolo, perché si infila senza farsi notare in ogni cosa che faccio e talvolta mi sprona (‘Dai, fai vedere chi sei! Dimostra a tutti come sei bravo’) talaltra mi frena (‘Per quanto ti impegni, non farai mai qualcosa che sia davvero grande! Riposati che non ne vale la pena’), sbattendomi da un lato all’altro dello spazio delle possibilità. Il suo principale aspetto negativo è che mette davanti a tutto la necessità di dimostrare i propri primati, impedendomi di affrancarmi dal bisogno del benevolo giudizio altrui.
Se sei genitore, fai il possibile per evitare che dentro ai tuoi figli crescano simili personaggi, altrimenti li costringerai a combattere da adulti dure battaglie (ammesso che si rendano conto della necessità di farlo, beninteso).
Per quanto mi riguarda, comunque, il nemico è individuato, adesso è ben visibile, pronto per essere colpito.
Dimostrerò a tutti quanto sono bravo a farlo fuori.
Voglio adesso raccontarti di una mia esperienza recente, testimonianza di alcuni tentativi di uscita dal solco.
Per ragioni che non è il caso di approfondire in questo articolo, ho scelto di rinunciare per una quindicina di giorni a tutta una serie di input provenienti da televisione, internet e affini, a meno che non fosse necessario per lavoro o studio.
Per la televisione è stato facile, in casa non ne abbiamo. Per il computer, siccome faccio il programmatore, la rinuncia è stata per lo più rivolta a social network, streaming audio video e similari. Ho incluso della lista anche la radio, di cui normalmente faccio ampio uso durante gli spostamenti in macchina, ed è stata questa l’esperienza più significativa di cui ti voglio rendere partecipe.
Ascoltare la radio per me è un’abitudine molto radicata, e nei primi giorni di ramadan è accaduto sovente che, a livello inconscio e completamente meccanico, appena allacciata la cintura la mia mano andasse a premere il tasto di accensione, salvo poi ricordarsi del fioretto e ritrarsi. Pure durante il viaggio, immerso in altri pensieri, spesso avvertivo una sensazione di mancanza, sentivo un vuoto che andava colmato, e nuovamente mi portavo meccanicamente verso il tasto di accensione.
Come strategia per sopravvivere a questa insopportabile astinenza ho deciso allora di sostituire gli input sonori con altri tipi di input, in particolare osservando meglio il mondo che mi circondava lungo il tragitto casa-lavoro. Mi concentravo di più sui particolari (cercando ovviamente di non uscire di strada, spesso è stato necessario rallentare), oraosservavo meglio quel pino dalla forma strana, perché la galaverna della stagione precedente gli aveva spezzato la punta, quel giardino così ben curato, il ponte a due arcate della ferrovia a scartamento ridotto che, chissà come mai, neanche sapevo esistesse, appena appena si intravvedeva fra gli alberi spogli.
Insomma, per quei quindici giorni mi sono trovato costretto a vivere maggiormente il momento presente, ma soprattutto a violare dei meccanismi automatici a cui ero assuefatto costringendo il mio cervello in qualche modo ad intervenire per gestire una situazione nuova.
Di fatto mi sono reso conto che era possibile prelevare informazioni da una parte della mia vita che, considerata superficialmente, non aveva più nulla da offrirmi visto che si ripeteva più o meno sempre uguale da tredici anni. Capito che significa? Per tredici anni due ore della mia vita praticamente non sono state vissute, in quanto completamente scollegate dalla contingenza presente. Due ore per tredici anni sono circa 460 ore (se consideriamo solo gli spostamenti per il lavoro), una ventina di giorni solari! Considerata da un punto di vista statistico mi conviene smettere con questo vizio ed iniziare a fumare.
Terminato il programmato periodo di rinuncia, mi sono finalmente concesso di riaccendere la radio e, con mia sorpresa… mi sono accorto che mi dava fastidio! Le impressioni che ricevevo dal mondo esterno si erano rivelate molto più nutrienti di quelli che arrivavano via etere.
Diciamocelo, non che questa rinuncia rappresenti chissà quale conquista: fra l’altro non voglio affatto schierarmi contro l’uso della radio, sia ben chiaro: qui l’indice è puntato contro le abitudini. Il punto è che questo esperimento ha dimostrato a me stesso di quanto siano spesso falsi i nostri bisogni, e di quante menzogne possiamo raccontarci pur di non sacrificare la quotidianità.
Ho già avuto modo di rimarcare come la canalizzazione dei processi mentali all’interno di solchi più o meno profondi possa costituire una forte limitazione allo sviluppo di nuove idee; con questo articolo voglio rincarare la dose: poiché la formazione dei solchi avviene progressivamente in base alla sequenza di input che ci arrivano dall’esterno, la loro conformazione difficilmente sarà quella ottimale, in quanto le informazioni non arrivano tutte subito ma sono distribuite nel tempo; se cambia l’ordine di arrivo degli input, cambia anche il paesaggio mentale che si viene a formare.
Se gli input arrivassero tutti assieme avremmo forse più difficoltà a creare i nostri modelli mentali, visto il maggior numero di informazioni da gestire contemporaneamente, ma avremmo meno probabilità di sbagliarli.
Ti faccio un esempio; supponi che nel mondo immaginario e semplificato in cui ti trovi arrivino le seguenti informazioni:
La tua mente tenterà di combinarle secondo modelli conosciuti, probabilmente così:
ed è così che la tua visione di un mondo rettangolare inizia a prendere forma.
Ma gli input esterni non si fermano: adesso arriva un’altra informazione:
che tu non hai problemi a collocare nel modello mentale appena creato:
e pensi che, effettivamente, il mondo deve proprio essere rettangolare. Tutto torna, ti senti tranquillo.
Le informazioni non si arrestano, eccone altre:
ma anche in questo caso non c’è problema:
Eh si, non c’è proprio dubbio, il mondo è rettangolare! Com’è confortevole avere delle certezze, e avere continue conferme che le nostre supposizioni sono giuste.
Ma un brutto giorno, ecco che arriva questa informazione:
e qui inizi ad avere dei problemi. Per quanto ti sforzi, la tua visione del mondo rettangolare non riesce a spiegare questo nuovo fatto. Ai tuoi occhi il mondo ha perso coerenza, dev’esserci qualcosa che non va. Questa è una vera e propria crisi, che mina tutte le tue certezze. Fino ad oggi avevi pensato che il mondo fosse comprensibile, spiegabile, prevedibile. Ed ecco che tutto crolla, la tua fiducia viene meno, cadi in depressione, nulla ha più senso perché le convinzioni che fino ad oggi ti sono state così utili non sono più in grado di spiegare il mondo che ti circonda.
Da questa situazione puoi venire fuori, ma ad una condizione: abbandonare i preconcetti. E si tratta di uno sforzo mica da poco, perché devi mandare all’aria idee che si sono formate e cristallizzate nel corso degli anni. Devi avere il coraggio di ammettere che i modelli mentali che ti sei creato erano sì utili, ma forse non erano i migliori. Forse esiste un modello che mette assieme le informazioni in modo completamente diverso e riesce a spiegare più cose.
Alla fine pensi di non potercela fare da solo e ti rivolgi ad uno psicologo per uscire da questa situazione, il quale ti propone un’eresia: il mondo non è rettangolare, ma è un parallelogramma! Figurati! Com’è possibile?
Ma poi, da persona ragionevole quale sei, provi ad accettare i suoi consigli, ed effettivamente riesci a riorganizzare le informazioni in modo diverso:
Beh, tutto sommato lo psicologo potrebbe essere nel giusto. Ma proviamo ad andare oltre:
Caspita! Vuoi vedere che ha ragione? Ancora:
Incredibile! Non avevi mai considerato il mondo sotto questo punto di vista! Ma riesce a spiegare anche l’ultimo fatto?
Sì! Funziona! Allora il mondo è proprio un parallelogramma! E tu che hai sempre pensato che fosse rettangolare! Com’è evidente adesso il tuo errore! Finalmente hai ritrovato la tua serenità, finalmente hai un nuovo modo per dare coerenza al mondo.
Adesso possiedi un modello valido per spiegare ogni fatto che accade intorno a te, ma per trovarlo sei dovuto passare per una fase di crisi, nella quale hai dovuto demolire tutte le tue certezze per ricostruirle in modo nuovo; ora puoi finalmente rilassarti e tornare ai tuoi automatismi quotidiani.
Almeno fino a quando non arriveranno nuove informazioni che non riuscirai a collocare nei tuoi schemi…
La domanda è banale, la risposta che spesso ci diamo pure: ovvio che mi piace, però non si può fare sempre ciò che si vuole, perché viviamo in una società e la mia libertà finisce dove inizia quella degli altri.
Profondo, non fa una piega.
Ma facciamo finta che gli altri non ci siano, oppure che siano molto accondiscendenti nei tuoi confronti. La tua libertà ne trarrebbe giovamento? Il tuo raggio di azione ne risulterebbe ampliato?
Immagina per un attimo di trovarti catapultato in un territorio sconosciuto, con tanto di strade, ferrovie, fiumi, montagne, abitazioni, e di doverlo esplorare a piedi. Incontreresti qualche ostacolo, ma avendo molto tempo a disposizione, con un po’ di impegno e parecchia fatica riusciresti alla fine a visitarne ogni angolo; se dovessi trovare un buon posto dove costruire la tua nuova casa, avresti sicuramente la possibilità di trovare il posto migliore.
Supponi invece di non poterti spostare a piedi, ma solamente in bicicletta: da essa non puoi scendere neanche per un minuto durante la tua attività di esplorazione; ebbene, ti rimarrebbero comunque molti gradi di libertà, ma sicuramente meno di prima: ci sono posti che puoi raggiungere a piedi ma non in bicicletta.
Immagina ora di poterti spostare solo in auto: la situazione peggiora ulteriormente, arriveresti unicamente dove è presente una strada carrabile, molte zone impervie rimarrebbero inesplorate.
Per non parlare del treno: dovendoti spostare solamente lungo binari saresti veramente penalizzato.
La metafora che ti propongo è questa: il territorio che stai esplorando è il tuo paesaggio mentale, ed i mezzi che hai a disposizione dipendono da quanti preconcetti sono presenti in questo paesaggio; maggiori i preconcetti, minore la libertà di movimento.
Molti di noi sono nella situazione di chi si può spostare unicamente utilizzando il treno: sono così attaccati alle proprie idee che non hanno la benché minima possibilità di scartare di lato: i posti che potranno raggiungere si contano sulla punta delle dita, le nuove idee che potranno trovare sono inesistenti.
Ora, se ti trovassi in queste condizioni, credi davvero che sarebbe sufficiente rimuovere i vincoli esterni per guadagnare la libertà? Chi è il carceriere, l’ambiente in cui vivi o tu stesso?