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Regole e consapevolezza


Il numero di regole da noi ritenute utili è una buona approssimazione del livello di consapevolezza che abbiamo raggiunto.

Mi riferisco qui il termine ‘regola’ nella sua accezione più stringente, ossia quella normativa che associa una penalità al comportamento illecito, ma ne estenderò poi il significato nel prosieguo dell’articolo.

In questo mondo in cui domina l’illusorio principio di causa-effetto è evidente che ad ogni comportamento adottato seguiranno delle conseguenze; quando si introducono delle regole, chi legifera si sostituisce all’ordine spontaneo introducendo delle conseguenze artificiali (sanzione disciplinare, pecuniaria, limitazione della libertà) per poter pilotare il flusso degli eventi evitando conseguenze naturali ben più gravi.

La consapevolezza indica il grado di maturità raggiunto dall’individuo, a prescindere dall’età anagrafica, anche se si potrebbe supporre che con l’avanzare dell’età essa aumenti.

Il genitore dice al bambino di cinque anni di non attraversare mai la strada da solo, perché è pericoloso; se lo fa, lo punisce: una sanzione lieve, ‘certa’, artificiale, tende a evitare una sanzione più pesante, ‘naturale’, anche se solo potenziale: essere investito da un’auto.

Il bambino diventa adulto, la sua consapevolezza aumenta: adesso il divieto di attraversamento non è più assoluto, ma altre figure autoritarie di riferimento lo tengono in vita: è consentito attraversare la strada, ma solo sulle strisce, pena la multa. Il vincolo è rilassato, il meccanismo di base rimane. L’obiettivo finale è sempre quello di evitare un male peggiore.

L’individuo adulto dotato di un certo livello di consapevolezza è, appunto, cosciente di tutto questo, e si concede di disattendere il divieto quando le circostanze lo rendono palesemente insensato: è notte fonda, non c’è anima viva in giro, e le poche auto che dovessero passare si vedrebbero arrivare in lontananza per via delle luci, o se ne avvertirebbe il rumore. Il rischio è talmente basso che a quel punto l’attenzione si sposta su un altro fronte, ossia la possibilità di essere notato da un vigile; sdoganato anche quel pericolo, la regola viene ignorata e si gode il beneficio di risparmiarsi qualche decina di metri di cammino.

Per riassumere: l’individuo viene sottoposto a regole fintanto che non sviluppa una maturità tale da disciplinarsi in autonomia, per il bene proprio e anche per quello della collettività che, in definitiva, coincide col proprio.

Se ci rifletti, questo è valido in ogni circostanza; rubare è vietato perché una società in cui fosse ammesso sarebbe invivibile, ma se questa fosse interamente composta da individui consapevoli non ci sarebbe bisogno di una legge esplicita in tal senso, perché ciascuno saprebbe che a un vantaggio nell’immediato seguirebbe uno svantaggio ben maggiore nel futuro.

Resterebbero solo delle convenzioni utili a scopi pratici, come tenere la destra nelle situazioni di traffico nei due versi di marcia.

Convenzioni per evitare malintesi o vuoti decisionali, insomma, anche se sono convinto che un sufficiente livello di consapevolezza permetterebbe di ‘sintonizzarsi’ al volo con l’altro, e capire immediatamente la direzione da seguire per evitare lo scontro. Fisico e non.

La sintonia potrebbe addirittura arrivare al punto da rendere superflua la stessa convenzione su cui si basa il linguaggio naturale, rendendo così inutili le parole.

Quanto osservato è applicabile a livello sociale, ma anche del singolo: fino a che punto hai bisogno dell’approvazione del prossimo? Quanto ti appoggi all’esterno, per valutare se i tuoi comportamenti sono ‘corretti’? Al di là di leggi o regolamenti: in che misura segui le indicazioni dello specialista di turno, dell’amico esperto, del cuggino tuttologo?

Quanto sei consapevole di tutto ciò?

La fine del contrattualismo


Secondo il contrattualismo, concezione filosofico-politica per la quale lo stato nasce da un contratto fra singoli individui, questi convengono di uscire dallo stato di natura – dove sono eguali e liberi, ma privi di garanzie – e di formare una società civile sottomettendosi volontariamente a un potere sovrano.

Nascono così le collettività organizzate, le leggi, le regole, le mansioni, i ruoli, il tutto all’insegna di un calcolo di consapevole convenienza: rinuncio alla mia indipendenza per non avere problemi. Detta così stimola provocatoriamente in me l’associazione col concetto di pagare il pizzo, ma queste sono pure interpretazioni personali.

Il dato di fatto è che questo contratto ha senso fintanto che c’è un vantaggio, altrimenti ne vengono meno i presupposti; quanto più la società inizia ad essere vessatoria, a limitare oltremodo la capacità di autodeterminazione dell’individuo, tanto maggiore dev’essere la contropartita. Se si perde l’equità dello scambio, il contratto perde di significato.

Il problema è che questo stato di cose è insidioso: quanto più mi abbandono al comfort della calda ala della chioccia, tanto più perdo la capacità di cavarmela da solo. Un uomo delle caverne non avrebbe avuto grossi problemi a rimanere mesi da solo nel bosco, io non sopravvivrei una settimana. L’altra insidia si nasconde nel fatto di aver dimenticato che il mio vero stato è quello di natura, e vivo in uno stato sociale per (quella che dovrebbe essere una) libera scelta; in realtà fin dalla nascita ci viene detto che siamo cittadini, e che non può essere diversamente. E noi ci crediamo.

Alla luce di queste premesse, il cammino che sento il bisogno di intraprendere è più spirituale che materiale; non occorre che diventi Rambo, sono sufficienti pochi, piccoli passi nella direzione dell’autosufficienza: avere un orto, prendere acqua alla fonte, saper riconoscere le erbe spontanee, imparare a costruire con materiale di recupero invece che comprare, usare la bicicletta invece dell’automobile.

Gesti che non cambieranno il mondo la fuori, né le mie possibilità concrete di sopravvivere in autonomia, ma cambieranno profondamente me! Ogni mia cellula saprà con crescente certezza che, qualunque cosa accada, troverò il modo di cavarmela, e da questa certezza nascerà la mia serenità, non dal fatto che godo di una qualche forma di protezione; non ha senso che mi organizzi esternamente per prepararmi, ora, a catastrofici scenari futuri di cui non posso prevedere i contorni, se non per sentito dire; l’unica cosa veramente sensata che posso fare è preparare me, spiritualmente, interiormente, all’idea che questo Stato è destinato alla dissoluzione, perché è diventato uno strumento di oppressione invece che di garanzia. E forse lo è diventato proprio perché è ora che io cresca, che prenda consapevolezza.

E’ un po’ come scoprire che i nostri genitori non sono quei miti che abbiamo sempre immaginato: hanno le loro debolezze, commettono i loro errori, talvolta sono dei carnefici da cui proteggersi e, comunque, prima o poi moriranno. Lo so, fa male. Ma la crescita spirituale è anche questo.

Addio mamma chioccia, grazie per tutto quello che hai fatto per me finora, non ho più bisogno di te.

Ah, dimenticavo: rivoglio indietro quell’abbondate sovrappiù che mi hai portato (e mi stai portando) via ingiustamente, e me lo riprenderò senza sensi di colpa quando ne avrò l’occasione, io non ti devo più nulla.

Due pillole di teatro prima dei pasti


Credo che fare teatro sia profondamente terapeutico, e vorrei spiegarti in che senso lo è stato e lo è tuttora per me, con la precisazione che me ne occupo a livello amatoriale e che quanto vado ora a raccontare sono considerazioni legate alla mia esperienza ed in quanto tali limitate alla mia persona.

Partiamo da un fatto piuttosto evidente: i condizionamenti sociali ci hanno fin dalla più tenera età educati a non esprimere molte delle nostre emozioni, o a manifestarle in modo blando: è vietato piangere, è vietato mostrare rabbia, è vietato farci vedere spaventati.

Anche esprimere gioia, in molti contesti, è considerata un’attività deprecabile: talvolta è più tollerata la compagnia di una persona triste, che magari ci fa sentire utili nei suoi confronti mentre ci prodighiamo in attività consolatorie, di quella di una persona felice, che ci mette involontariamente di fronte alle nostre presunte inadeguatezze.

Ma reprimere le emozioni è un po’ come trattenere uno starnuto: è parecchio dannoso; perché quello che non esplode, implode: l’energia deve in qualche modo trovare una via di sfogo.

Da qui tutta una serie di manifestazioni psicosomatiche più o meno correlate alla nostra condizione di animali repressi.

Torniamo dunque al teatro: recitare non è ripetere a memoria un copione. Se devi mettere in scena una parte triste, devi essere triste. Se la parte è rabbiosa, devi essere incazzato. Se non sei, dentro, ciò che vuoi esprimere, il pubblico lo avvertirà, e per quanto tecnicamente tu sia bravo, non riuscirai a trasmettere nulla. Questo è quanto mi hanno insegnato nei pochi anni di corso, questo è quello che ho verificato sul campo nel mio piccolo.

Quale miglior ambiente protetto, dunque, per esprimere le emozioni represse senza sentirsi per questo giudicati? Finalmente posso essere libero di incazzarmi, e quanto più lo farò in modo realistico, tanto meglio verrò giudicato; non è fantastico? E non si tratta semplicemente di fingere, perché il lavoro va fatto bene: bisogna proprio trovarsi in quello stato.

Certo, talvolta può far male: una attore professionista mi raccontava che quando deve recitare parti tristi attinge al suo archivio di ricordi dolorosi, per portarsi nel giusto stato d’animo.

Ma il nostro corpo ha bisogno anche di questo: ha bisogno di soffrire, gioire, deprimersi o esaltarsi liberamente, e il teatro offre un contesto protetto in cui si può (anzi, si deve) finalmente fare senza controindicazioni.

Accidenti! Ma dovevo proprio arrivare a recitare per essere finalmente me stesso?

La normalità è eccezionale


Il bisogno di essere accettati dagli altri ci spinge ad adeguarci a modelli di riferimento, come la proverbiale famiglia del Mulino Bianco, che incarnino un’ideale di normalità.

Il termine ‘norma’ in statistica è sinonimo di ‘moda’, ossia il carattere che si presenta con maggior frequenza in una popolazione; da questo punto di vista, essere normale significherebbe uniformarsi alla maggioranza, il che mi sembra piuttosto calzante.

Mi pare d’altra parte altrettanto calzante supporre che la normalità sia rappresentata dal valore medio: sostenere che essere normale significhi stare nella media è piuttosto ragionevole, no? Talvolta potrebbe essere un criterio maggiormente applicabile, se la moda non esiste.

Allora, per gioco, ipotizzo di appartenere ad una piccola comunità, e che tutte le mie caratteristiche siano condensabili in un solo numero (essere un numero, nella moderna società, non è poi così distante dalla realtà): io valgo 2, poi c’è il mio vicino che vale 10, sua moglie 11, il fruttivendolo 8, il calzolaio 9. Siamo tutti qui. Come vedi non c’è una moda statistica, perché ogni valore è presente una sola volta; però esiste un valore medio, il valore che racchiude la normalità: 8.

Io sono piuttosto disadattato, non mi sento affatto normale: tutti gli altri, invece, sono abbastanza vicini all’ideale, rappresentato dall’idolo della popolazione, il mitico fruttivendolo che vale 8.

La tendenza di ciascuno (fruttivendolo a parte, che è l’influencer del paese) è quella di avvicinarsi alla normalità, per sentirsi degno membro della comunità: io faccio una fatica enorme ad adeguare il mio valore, così diverso dagli altri, alla media.

Ma poi mi domando: se io non ci fossi, quale sarebbe questo valore? Beh, facendo un rapido calcolo, giungo alla conclusione che se non esistessi il fruttivendolo cesserebbe di essere perfettamente normale, perché la nuova media si attesterebbe sul valore di 9,5. Anzi, a quel quel punto, non esisterebbe più nessuno perfettamente normale.

Ma il nocciolo della questione è un altro: il mio valore così anormale, 2, dava il proprio contributo nella determinazione della normalità! E se io avessi cercato di avvicinarmi ad essa, sforzandomi di non essere me stesso e diventando ad esempio 6, ecco che questa si sarebbe modificata in 8,8, come per sfuggire al mio inseguimento.

Considerato da questo punto di vista, il concetto di normalità è piuttosto fumoso: nella maggior parte dei casi, infatti, il valore medio è un numero teorico che non corrisponde ad alcun elemento della popolazione, pur essendo influenzato da ciascuno di questi.

Essere nella norma, in questo senso, è l’eccezione, non la regola, come d’altronde diceva il buon Dalla nella sua divertente canzone:

Ma l’impresa eccezionale, dammi retta
È essere normale
Quindi, normalmente
Sono uscito dopo una settimana
Non era tanto freddo, e normalmente
Ho incontrato una puttana

E allora… perché mai dovrei sforzarmi di essere ciò che non sono? Posso dare il mio contributo anche da anormale… anzi… soprattutto da anormale!

Parangelia, il parassita ti manovra nascosto nelle pieghe della mente


libro

Finalmente ce l’ho fatta!

Il lento cammino iniziato a gennaio 2014, ormai più di cinque anni fa, è giunto al termine, e l’agognata meta è stata raggiunta: il mio libro è in vendita.

Si è trattato di un lavoro catartico che mi ha permesso di sfogare la rabbia rimasta troppo a lungo repressa, un disagio causato da una società opprimente e giudicante che ha fatto di tutto, e lo sta facendo tuttora spesso in totale buona fede, per impedirmi di essere me stesso.

Ma se il ricongiungimento con la mia reale essenza è ancora lontano, ho voluto in qualche modo accelerare i tempi, immaginando una realtà parallela in cui questo è già accaduto.

Purtroppo c’è un prezzo da pagare: la società pretende la standardizzazione degli individui, chi non sta al gioco è scomodo e pericoloso, e la sentenza per chi non rientra nei canoni dalla normalità è inappellabile: pazzia!

Proprio questo accade al personaggio del mio libro, che rappresenta una sorta di estremizzazione di ciò che sono stato, sono e soprattutto vorrei diventare.

E lo diventerò solo quando avrò il coraggio di vivere per davvero una vita fuori dal solco, accettando e perdonando gli inevitabili giudizi di follia ed il conseguente allontanamento da parte di questa società a cui già da tempo sento di non appartenere più.