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La perticola di pere


Ti va di assaggiare la mia perticola di pere?

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Sono contento che ti piaccia! Come dici? Vuoi conoscere la ricetta?

Piuttosto semplice. Ho messo delle pere tagliate e pezzettini in un pentolone, sulla stufa accesa. Ho aggiunto una mela, dello zenzero, un limone, anche loro tagliati a tocchetti. Ah, anche dello zucchero, e un poco di cannella.

Quando hanno iniziato a perdere consistenza, col frullatore a immersione li ho ridotti a una poltiglia, quindi ho aspettato che il tutto si addensasse per bene.

Ho versato poi il contenuto della pentola in tanti vasetti di vetro, sterilizzati preventivamente in forno, e richiusi successivamente con capsula ermetica.

Come dici? Questa è la ricetta della marmellata? No no, non è marmellata, è perticola di pere.

Vedi, se l’avessi chiamata marmellata avresti avuto delle aspettative, comparando il contenuto dei vasetti con la tua idea di marmellata. E allora avresti potuto pensare che è troppo densa, o troppo liquida, o poco zuccherata, o che ci sono troppi pezzettoni.

Insomma, non ti saresti gustato la perticola in modo genuino, senza pregiudizi.

Certo, la perticola avrebbe anche potuto non piacerti, ma lo avresti valutato unicamente in base al gusto, senza che alcuna comparazione viziasse l’esperienza. Solo sensazioni, la mente non avrebbe avuto appigli.

Sai una cosa, ho deciso che voglio imparare a relazionarmi così anche con la mia vita.

Per troppo tempo ho cercato di darle un senso, uno scopo; col risultato di ritrovarmi in costante comparazione, nel tentativo di valutare se ciò che stavo realizzando era in linea con un percorso ideale.

E’ esattamente come appiccicare l’etichetta “marmellata” sopra questi vasetti. Non è marmellata, è perticola! E il nome l’ho deciso solo dopo che i vasetti erano pronti. Sai, non ci saranno altri vasetti di perticola in futuro, è una produzione unica nel suo genere.

Capisci la differenza?

Io non so dirti se ha il sapore della marmellata, però… però mi piace!

Causa o scopo?


Mio figlio chiede a mia moglie: “perché ci sono quelle nocciole sbucciate nel piatto?” risposta: “perché devo preparare una torta da portare ai nonni”.

Una risposta alternativa, sarcastica e per nulla divertente che subito mi è venuta in mente è stata: “perché le ho sbucciate e le ho posate lì”, e questo mi ha fatto riflettere sulla diversa natura delle due affermazioni.

E’ evidente come la seconda sia una non risposta, perché è lapalissiana e non soddisfa la curiosità iniziale; ma se estendiamo questo ragionamento ad altri contesti, ci rendiamo  subito conto che la banalità viene meno, e questo tipo di risposte ‘inutili’ sembrano le uniche plausibili.

Mi spiego meglio: la risposta di mia moglie è centrata sullo scopo che le nocciole nel piatto soddisfano, mentre la mia è centrata sulla causa che le ha messe lì. La prima guarda al futuro, la seconda al passato.

Ebbene, quando chiedi al tuo medico di base perché hai certi malesseri fastidiosi, che risposta ti aspetti? Ovvio, una risposta del tipo: “perché è successa la tal cosa che ha provocato questo e quest’altro”. Cause, non scopi.

In questo caso sembrerebbe addirittura assurdo ragionare diversamente, e se la risposta del dottore fosse stata: “perché hai un rifiuto per il tuo lavoro e domani non vuoi andare in ufficio”, ti avrebbe lasciato con un vago senso di insoddisfazione e sarebbe apparsa senz’altro poco credibile, poco scientifica: a te interessano le origini dei malesseri, non le loro implicazioni.

E se invece anche in questo caso il perché giusto da ricercare fosse del primo tipo? Se la domanda corretta fosse: “a cosa mi serve questa malattia”? Se ragionare sugli scopi invece che sulle cause, sulle destinazioni invece che sulle provenienze, sul futuro invece che sul passato, fosse l’approccio più efficace?