Sentieri stretti e tortuosi che risalgono nervosi un aspro crinale.
Sentieri larghi e pianeggianti che si immergono sinuosi nell’ombra di una faggeta.
Sentieri marcati, sentieri sfumati.
Sentieri che si incrociano, sentieri che corrono paralleli per brevi o lunghi tratti.
Sentieri che si fondono rinunciando alla propria individualità.
Che sorprendente, accecante meraviglia l’arcobaleno dei sentieri delle nostre vite.
Sarebbe facile, troppo facile cedere alla tentazione della mente e augurarvi che i vostri sentieri possano procedere affiancati, seppur distinti, per sempre.
Ma so bene che il futuro è illusione, e allora preferisco vedervi nell’eterno presente di due segnavia di diversa forma e colore, che si ritrovano all’improvviso nella stessa boscosa radura, lui su una roccia, granitico e fermo, lei sul tronco di un albero, costantemente in bilico fra cielo e terra, e nella nebbia fumante di sole che sublima la brina sussurrano, calmi: “dai, arriviamoci assieme alla cima”.
Il segreto non è prendersi cura delle farfalle, ma prendersi cura del giardino, affinché le farfalle vengano da te.
Mário Quintana
Io invece ho commesso l’errore di pensare di dovermi prendere cura delle piante del mio orto, sbagliando obiettivo.
Non sono le piante che vanno curate, ma il terreno. Le piante radicate in un terreno fertile e umido non hanno bisogno di aiuto, se la cavano benissimo da sole.
Lo stesso vale per le persone: non hanno bisogno del mio aiuto. Al più, posso offrire loro il terreno fertile di una relazione genuina.
Sempre che desiderino radicarsi in esso.
O che lo desideri io, in fondo ci sono anche piante infestanti da cui difendersi.
La fanciulla attendeva da mesi il ritorno dell’amato partito per il fronte; non passava giorno senza che guardasse nella cassetta della posta per controllare se ci fosse una lettera da parte sua.
Ogni volta che ciò accadeva il suo cuore iniziava a battere forte e una dolce sensazione di calore le invadeva tutto il corpo; prendeva allora la busta che recava il suo nome e la riponeva con cura, senza aprirla, in un cofanetto dorato con un grande cuore disegnato sul coperchio, quindi serrava amorevolmente il lucchetto e riponeva il tutto sotto il letto.
Capitò un giorno che la sua migliore amica osservasse questo curioso comportamento, e le chiedesse come mai non apriva le buste per leggerne il contenuto.
«Un tempo lo facevo» replicò la giovane ragazza «e allora poteva succedere che mi riempissi di gioia, perché il mio amato mi comunicava che sarebbe presto ritornato, oppure che precipitassi nel baratro della disperazione, perché in un momento di sconforto scriveva che la nostra storia non aveva più senso e mi avrebbe lasciata.
La tentazione allora era di gettare tutte le lettere nelle fiamme, e con esse ogni ricordo di lui.
In uno di quei giorni intrisi di sofferenza finalmente compresi tutto il mio bisogno di amore, e anche che lo stavo cercando nel posto sbagliato.
Ciò che davvero importava non era il contenuto della busta, ma la busta stessa.
Capii che fintanto che arrivava una lettera lui mi pensava, si ricordava di me. Questo bastava per sapere di essere amata, le parole non contavano più, l’importante era che ci fosse un messaggio per me.
Un gesto di amore può avere anche le forme più dolorose, perché l’amore è nascosto in ogni messaggio che ci ricorda di essere vivi.»
L’amica rimase un poco in silenzio, quindi la strinse in un forte abbraccio, grata di aver finalmente compreso quanto amore le mandasse ogni giorno l’Universo.
Immagina di fare il seguente gioco con un amico: ogni volta che comunicate, invece di dire ciò che avete in mente dovere usare la sua negazione. Ad esempio, invece di “Mi piace il tuo nuovo vestito”, potreste affermare “Oggi hai un vestito orrendo”, e via di seguito.
Ora, in base alle poche ma ferree regole che vi siete dati, diventa subito evidente come non sia possibile porre fine al gioco, perché nel momento in cui proponete “smettiamo”, state comunicando l’intento contrario.
Ma anche l’ingenuo contro tentativo di dire “continuiamo” non potrebbe porre fine al gioco, perché verrebbe inteso come una comunicazione fatta nel gioco, e non sul gioco. L’interlocutore lo prenderebbe come un’affermazione all’interno dello scambio di battute nel quale siete immersi, non come la proposta di una nuova regola che riguarda il gioco.
Detto più precisamente, per uscire dal gioco bisogna meta comunicare, ossia comunicare sulla comunicazione, ma le regole che vi siete dati non hanno specificato alcunché in proposito, e quindi vi trovate intrappolati in un paradosso.
Ti risulterà subito demenziale e accademica un situazione simile, e di fatto nella pratica non si verificherebbe mai perché, vista la sua semplicità, risulta facile “uscire” dalla simulazione e tornare alla “realtà”.
Ma rimaniamo ancora un poco nella teoria. Esistono tre possibilità per prevenire questa trappola:
giocare usando una lingua e parlare del gioco usandone un’altra; in questo modo, dicendo di smettere, ad esempio, in inglese, potresti senza possibilità di fraintendimenti comunicare correttamente all’altro la tua vera intenzione
stabilire un evento esterno che ponga fine al gioco (ad esempio un timer)
fare ricorso ad una terza persona che non partecipa al gioco (come il punto precedente, ma soluzione maggiormente flessibile) che faciliti la meta comunicazione
Questo è un esempio alquanto teorico, però è illuminante perché il nostro cervello è un sistema mnesico modellante, ossia inferisce regole. Quando una relazione con una persona perdura per un certo tempo, o ha prospettiva di farlo, diventa utile per l’economia cerebrale modellare un protocollo di comunicazione.
Di fatto si vengono dunque a creare delle regole implicite, che aggiungono significato ai messaggi scambiati senza bisogno di esplicitarlo.
E qui sta l’inghippo. Perché finché le cose vanno bene, lo scambio di messaggi è fluido e armonioso, e “lui (lei) mi capisce senza nemmeno bisogno che io parli”.
Ma quando le cose cambiano (e il mondo è un continuo divenire, difficilmente le condizioni iniziali perdurano per sempre), potrebbe essere necessario modificare il protocollo di comunicazione. Ma per farlo bisogna uscire dal sistema, peccato però che ci si è abituati ad usare regole, ormai ben rodate, che lavorano solo al suo interno.
Tornando alla metafora del gioco, ad un certo punto bisogna poter dire ‘smettiamo di giocare’, ma non si riesce a farlo!
Per questo motivo molte relazioni (di ogni tipo, non mi riferisco solo ai rapporti sentimentali: anche la relazione cliente/terapeuta, ad esempio, è affetta da queste dinamiche) tendono a cristallizzarsi in modelli ripetitivi che portano al logorio dei partecipanti, talvolta costringendoli ad uscire a forza dal gioco, non potendone modificare le regole dall’interno. Si tratta squisitamente di un problema di comunicazione: i protagonisti si trovano intrappolati nell’impossibilità di dirsi qualcosa di diverso dal solito.
Sempre alla luce del gioco presentato prima, l’intervento di un terzo (mediatore familiare per la coppia, supervisore per il counselor o il terapeuta) può aiutare il processo di meta comunicazione, agevolando le parti ad uscire dalla trappola in cui si sono rinchiuse.
Ancora una volta mi risulta evidente come per liberarsi sia necessario uscire dai modelli, andare al di là della regola. Il che non vuol dire violarla, perché questo significherebbe rimanere nel gioco, bensì trascenderla.