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Andare oltre le masturbazioni cerebrali


Lo so, me ne rendo conto: sono solito perdermi in infinite masturbazioni cerebrali. La buona notizia è che godo un sacco, e in piena autonomia.

Con questa freddura mi piace introdurre un tema che mi è caro: andare oltre i propri limiti.

Quante volte mi è capitato di ritrovarmi al punto di partenza, dopo innumerevoli sforzi per cambiare qualcosa che non mi piace! Che frustrazione, sentirmi in un circolo vizioso dal quale non riesco a uscire, imbrigliato nell’incantesimo dell’eterno ritorno.

Poi, nel mio percorso formativo, mi imbatto nel paradosso del cambiamento: accettarsi come punto di partenza per cambiare. Capisco così che i limiti non vanno superati, quello è solo un puerile atteggiamento della mente: i limiti vanno trascesi.

Trascendere significa ampliare il proprio spettro di analisi, aggiungere una dimensione, sopraelevarsi sul labirinto.

Già, perché se ragiono solo in due dimensioni, effettivamente sono in un circolo chiuso da cui non posso uscire; il problema però non sta nel circolo, ma nello spazio angusto in cui mi sono arbitrariamente costretto.

Che succede se aggiungo una terza dimensione? Ecco che quel circolo, grazie alla sua stabilità che tanto mi turbava, diventa un affidabile mattone con cui posso costruire qualcosa, nello spazio più ampio nel quale mi rendo ora conto di trovarmi.

Passaggio da 2D a 3D

O magari capisco che non è affatto un circolo, ma una ‘molla’ che si innalza verso l’alto, lungo la terza dimensione, solo che non me ne accorgevo a causa della mia visuale limitata, perché una molla vista dall’alto si riduce a un cerchio. Scopro allora che non torno mai al punto di partenza, sto invece crescendo lungo una direzione che non avevo considerato.

La molla appiattita

Trascendere significa aggiungere una dimensione al problema, vederlo in una prospettiva più ampia, chiedendosi: “come posso sfruttare questa situazione che non posso cambiare?” oppure: “che insegnamento posso trarre da questa situazione? Cosa dice di me?” oppure ancora: “che vantaggio secondario garantisce questa situazione? Quale secondo fine persegue il mio inconscio mantenendomi inchiodato nello status quo?

Arrivo così a comprendere che non c’è limite al numero di dimensioni che posso aggiungere, e che il processo di crescita mi porta a sentirmi sempre e comunque stretto entro i limiti in cui mi trovo.

Ma questa non è che l’ennesima masturbazione cerebrale: torniamo così al punto di partenza.

Su un’ottava più elevata.

Conto quanto Kunta Kinte
E in quanto Kunta Kinte canto
Sulla mia schiena è stato tatuato un numero
La mia catena è come un filo del telefono
La mia condanna è che se mi fermo mi uccidono
La mia fortuna è che sto camminando in circolo
Sono primo io e sono l’ultimo
È un fatto tipico
Del gioco ciclico del ritmo mantrico

Kunta Kinte – Daniele Silvestri

Siamo tutti terrapiattisti


Ti senti superiore quando ascolti le stravaganti tesi dei terrapiattisti, vero? Beh, forse dovresti ricrederti.

Immagina di avere fra le mani la piantina di Roma, una piantina che hai disegnato tu stesso dopo aver girato in lungo e in largo per la città; sei riuscito a riprodurre in scala, ma in modo piuttosto fedele, la posizione di ogni monumento o casa.

Il tuo amico Adam, che abita a Londra e come te è piuttosto meticoloso, ha fatto altrettanto per la città in cui vive.

Sfortunatamente prendete una decisione di comune accordo che porterà al burrascoso scioglimento dell’amicizia: convenite di ampliare, con un lavoro immane e molto faticoso, le due piantine, includendo via via i territori limitrofi fino a mettere in comune i lavori, per creare una gigantesca mappa che inglobi gran parte dell’Europa!

Via via che vi avvicinate ad una zona comune, confrontando i lavori, cominciate a capire che qualcosa non torna… uno dei due deve aver sbagliato le misure, perché le distanze, gli angoli e le posizioni reciproche degli elementi non corrispondono!

Inizia un confronto dapprima pacato, poi sempre più animato che porta al fallimento del progetto comune e alla fine di una lunga amicizia.

Entrambi siete convinti di essere nel giusto, avete verificato più e più volte le misure, tutto è corretto… eppure i due lavori messi a confronto non combaciano, sono discordanti!

Per forza, la superficie della terra è curva! Le vostre piantine iniziali descrivevano una zona limitata, approssimando con un piano quello che in realtà è la superficie di una sfera. Dal punto di vista pratico questa approssimazione è più che accettabile, sarebbe molto complicato tenere in considerazione l’infinitesima curvatura a quella scala, oltre che inutile, perché l’errore che ne deriva è molto inferiore al fisiologico ed ineliminabile errore di misurazione.

I mezzi che avete a disposizione sono limitati per descrivere il territorio nella sua interezza, ma molto efficaci per descriverne una piccola porzione; il problema nasce quando perdete di vista il fatto che si tratta di un’approssimazione e cadete dell’arroganza di attribuire connotazione di realtà globale a ciò che invece è solo una mappa locale: le vostre visioni cessano di essere concordanti e nasce il conflitto.

Questo è esattamente ciò che accade nei nostri rapporti quotidiani!

L’immagine che ci facciamo della realtà non è che una rappresentazione mentale, una semplificazione, un’interpretazione priva di qualsivoglia assolutezza, e alquanto dipendente dalla posizione in cui ci troviamo.

I nostri sensi ci permettono di registrare solo una piccola parte del tutto: per esempio l’occhio percepisce solo una minima frazione dello spettro elettromagnetico.

Il nostro intelletto non è in grado di processare tutte le informazioni che riceve,  dei milioni di stimoli ricevuti ne trattiene solo un’infinitesima parte, mettendo a fuoco solo ciò che reputa rilevante per la sopravvivenza: è quella che viene chiamata attenzione selettiva.

In definitiva, ciò che a noi sembra il territorio, non è che una mappa. Una schematizzazione, un’approssimazione dovuta ai nostri limiti fisici e psichici.

E ogni individuo ha la propria, spesso accompagnata dall’arrogante presunzione di essere l’unica.

Finché non prenderemo coscienza di questo stato di cose non potremo costruire una cartina geografica comune e resteremo nell’isolamento, ciascuno confinato nella propria confortevole quanto illusoria Flatland.

Sulla sfera


Quello che mi piace di una sfera è che sulla sua superficie qualsiasi punto può essere considerato un centro; è così che da sempre immagino l’infinito, ed è questa la forma che sembrerebbe avere l’Universo in cui viviamo.

Quando negli anni trenta Edwin Hubble osservò che le galassie si stavano allontanando una dall’altra, ebbe la curiosa impressione che la nostra Via Lattea fosse al centro dell’espansione, un pensiero decisamente in odore di geocentrismo tolemaico per essere aderente alla realtà.

L’ipotesi che l’Universo sia in realtà la superficie di una sfera a quattro dimensioni ci sottrae da quella presunzione di centralità che da sempre cerchiamo di arrogarci: immaginando dei puntini disegnati sulla superficie di un palloncino, infatti, se questo si gonfia (l’equivalente dell’Universo che si espande), ogni puntino si allontana da tutti gli altri e può essere ragionevolmente considerato come il centro dell’espansione, anche se si tratta solo di un mero gioco di vedute.

Ed è attraverso questa metafora che mi piace guardare all’illusione del mio ego: dal mio punto di vista tutto ruota attorno a me, e mi sento a buon diritto al centro di ogni cosa, e lo stesso immagino capiti a te… ma siamo solo dei puntini sulla superficie della sfera della vita: tutti sono al centro, ma non lo è nessuno.

Beh… ‘solo’ è un po’ riduttivo: siamo dei meravigliosi puntini su quella superficie, ma se impariamo a collocarci nella giusta ottica capiamo che la nostra vera essenza è la sfera, e non il puntino.

Che potente cambio di prospettiva!

Il trattore e l’impiegato


Situazione A. Gestisci una piccola trattoria nella quale servi un piatto speciale: le lumache in umido; nel preparare questo piatto sei un cuoco senza rivali, e nella zona sei conosciutissimo.

Un giorno capita un gruppo di turisti, che chiedono qual è la specialità del locale; nel sentire la risposta, ringraziano cortesemente ed escono con espressione vagamente schifata: le lumache non sono proprio di loro gradimento.

Situazione B. Il tuo capo ti convoca a colloquio nel suo ufficio e ti muove un appunto perché sei poco ordinato: il lavoro che hai appena consegnato andava eseguito con più metodicità, mentre tu lo hai portato a termine in un modo – dice lui in tono ironico – troppo creativo.

Come pensi che ti sentiresti nelle due situazioni? Quale delle due preferisci?

Se ti senti più a posto nella situazione A, sappi che è pura illusione: in entrambi i casi il problema non è tuo, ma dei tuoi interlocutori; tu non sei affatto inadeguato.

Nel caso A è più evidente: i gusti sono gusti, e non a tutti piacciono le lumache; però sai di essere in grado di soddisfare le esigenze degli estimatori in modo eccellente. Sei bravissimo in questo, e se capita che non vada bene a qualcuno, o a molti, poco male: basta rivolgersi al giusto target di clientela.

Il caso B è esattamente lo stesso: se ti trovi a ricoprire un ruolo in cui è indispensabile un approccio metodico mentre tu sei estroso e creativo, ebbene non sei tu ad essere sbagliato, ma il lavoro che stai facendo. Cambialo, e smetti di sentirti non all’altezza.

Obietterai che cambiare lavoro non è così semplice, ma non è questo il punto. Puoi arrivare fino alla pensione mantenendo quel posto, ciò che conta è l’interpretazione che dai ai fatti: un conto è passare la vita pensando di avere un lavoro sbagliato, un conto è passarla credendo di esserlo in prima persona.

Ricorda sempre che sei perfetto così come sei, devi solo trovare la giusta collocazione nel mondo riuscendo a valorizzare le tue peculiarità; più queste saranno di nicchia, più sarà difficile il compito, e maggiore il valore che ti verrà riconosciuto: perché un banale piatto di spaghetti aglio, olio e peperoncino lo sanno fare tutti.

Riflessioni sullo specchio


Vagando nelle mie letture ludiche mi sono più volte imbattuto nella seguente domanda trabocchetto: perché gli specchi invertono la destra con la sinistra ma non l’alto con il basso?

Se cerchi in rete troverai parecchie risposte a questo apparente paradosso, la cui spiegazione è tanto banale quanto rivelatrice del grado di affossamento nel solco della nostra visione antropomorfa: in realtà la domanda non ha senso, in quanto mal posta; l’equivoco affonda le sue radici nello stesso terreno che ci ha portato, in un passato ormai lontano, a sostenere – talvolta con inusitata ferocia – che il sole gira attorno alla terra.

In effetti gli specchi non invertono alcunché, riflettono semplicemente la realtà per quello che è; siamo piuttosto noi ad operare mentalmente l’inversione, immaginando la posizione che ci troveremmo ad avere dopo aver girato su noi stessi così da situarci virtualmente al posto dell’immagine riflessa.

Se tu fossi l’Uomo Ragno, che come ben sai preferisce spostarsi lungo le pareti ed il soffitto ruotando in verticale e non in orizzontale, avresti la convinzione opposta, ossia che gli specchi invertono l’alto con il basso; ma, pur se dotato di super poteri, ti troveresti lo stesso dentro ad un solco che ti fornisce un’impressione altrettanto errata.

spiderman

La spiegazione di questa finta stranezza mi piace particolarmente, perché rivela ancora una volta quanto siamo saldamente ed inconsciamente ancorati alle nostre prospettive, che carichiamo senza motivo di valenze assolute nonostante molta acqua sia passata sotto ai ponti dagli errori di Tolemaica memoria, e ci sentiamo così superbamente evoluti rispetto a chi aveva preso certe cantonate.