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Uomo Nero


E’ inutile che io cerchi di combattere qualcuno o qualcosa là fuori, perché l’unico vero nemico si trova dentro di me.

Ho compreso che è il mio desiderio di vedere la luce ad alimentare il buio, perché nel mondo duale in cui sono immerso l’unico modo per fare esperienza della prima è confrontarsi con la presenza del secondo.

Di conseguenza, quanto più mi ostino a volere luce, tanto più creo buio. Quanto più ho bisogno di sentirmi buono, tanto più dovrò essere circondato da cattivi.

Di questo si alimenta l’Uomo Nero dentro di me.

Continuerà a succhiarmi la vita, fintanto che non vedrò in faccia il mio bisogno, lo accoglierò senza giudicarlo, e lascerò che svanisca da sé, senza far nulla perché ciò accada.

Lam Mim Lam Mim

              Lam                             
Mi sveglia di notte nella tenebra oscura

gorgoglia racconti dalla fine più nera
Mim
è la sua natura, la sua natura  
              
l’Uomo Nero ha fame della mia paura
                Lam                             
L’angoscia mi avvolge, temo la dittatura

distorto presagio di affogare in miniera
Mim
cresce a dismisura, cresce a dismisura  
              
l’Uomo Nero si nutre della mia paura
           Do                             
Velata blandizia di una cupa dimora

l’ombra della sfiga, quanto è lusinghiera!
Mim
è tutta una iattura, tutta una iattura
              
l’Uomo Nero esiste nella mia paura
             Do                             
Imploro la mamma che mi abbracci ancora

questa dipendenza è la menzogna più vera
Mim
è una fregatura, è una fregatura
              
l’Uomo Nero è frutto della mia paura
            Lam                             
Io sono una vittima, ho bisogno di cura

un fragile bimbo, coccolatemi ancora!
Mim
è la mia sventura, la mia sventura  
              
perché in fondo fa comodo questa paura
          Lam                             
Diabolico scambio, divina stortura

tu mi succhi la vita, io poltrisco ancora
Mim
sei la mia creatura, la mia creatura 
              
sono io che ho bisogno di questa paura... 
                Do                             
Quindi resto in casa, surrettizia galera

ho la scusa ideale per dormire ancora
Mim
nella mia clausura, la mia clausura
              
che alibi perfetto è questa paura
               Do                             
Mi nascondo al mondo, temo la bufera

meglio stare in prigione che varcar la frontiera
Mim
è una fregatura, una fregatura
              
sono identificato nella mia paura!
Lam                             
la mia paura, la mia paura 

la mia paura è la menzogna più vera 
Mim
la mia paura, la mia paura  
              
la mia paura è la menzogna più vera 
Lam                             
che seccatura, è una sciagura

passare la vita dietro a una ringhiera
Mim
che scocciatura, è una tortura
              
che ansiogena lagna questa partitura!
       Re
Voglio aprirmi alla primavera...
         Sol 
E allora succhiati la mia gioia
       Sim 
e sì, lo so, la troverai amara
            Re 
è il dolce nettare della vita di Madre 
Mim
Gaia
          Sol 
Mastica piano il mio riso e ingoia
          Sim 
questo tripudio di amore, impara
        Re 
voglio gustarmi le meraviglie della 
Mim
vecchiaia
        Sol 
Divincolarmi da ogni pastoia
             Sim 
vibrare di leggerezza chiara
         Re 
cantando nella serena attesa che tu
Mim
scompaia
        Re 
io canterò nella calma attesa che tu
Mim
scompaia
        Re 
io danzerò nella ferma attesa che tu
Mim
scompaia

Come mi sento quando mi chiami NOVACCCS


Avevo sei anni, quando ho visto quella marea di bambini vocianti per la prima volta. Non avendo frequentato la scuola materna, fino ad allora mi ero confrontato con i soliti due o tre amichetti, sempre loro, sempre gli stessi. Quando c’erano, quantomeno, perché erano in villeggiatura nella frazione in cui abitavo e li vedevo solo nel periodo vacanziero.

L’ingresso nel mondo scolastico è stato per me un trauma, iniziato col turbinio delle grida e del calpestio nell’atrio della scuola, proseguito col severo peso giudicante della maestra che incombeva su di me, e la minaccia di bambini esuberanti che talvolta mi bullizzavano all’uscita o durante la ricreazione.

Avevo paura di quel mondo: tutti quei bimbi si conoscevano dai tempi dell’asilo, mentre io ero un estraneo timido e insicuro che stava sulle sue.

Ricordo l’episodio del gioco a guardie e ladri nel cortile: tutti si rincorrevano schiamazzando, io stavo fiero al margine, felice di non essere stato ancora preso. Poi ho realizzato: non mi prendevano perché non mi vedevano, mi stavano ignorando. O almeno è così che ho vissuto l’esperienza.

Ricordo il giorno in cui mi sono azzuffato con un compagno, durante la ricreazione: eravamo su di una panchina, ciascuno con una mano sulla faccia dell’altro, immobili, in tensione, in stallo. Io sentivo la paura crescermi dentro, sentivo le vene che si svuotano e la mente che si annebbia, sentivo che da solo non avrei potuto farcela, e urlavo disperato agli altri bambini che stavano in cerchio attorno a noi a godersi lo spettacolo: “Chiamate la maestra! Chiamate la maestra!”. Ma nessuno si muoveva.

Non sono mai stato bravo a difendermi. All’uscita, durante la mezz’ora di attesa del pulmino, cercavo di mettermi in un angolo, defilato, per non attirare l’attenzione del bullo di turno. A volte arrivava. A volte per fortuna qualche bambino più grande prendeva le mie parti. Ricordo ancora oggi i loro nomi, i loro volti. Non sono mai stato bravo a difendermi.

A otto anni il mio unico desiderio era attendere l’arrivo della sera, per potermi rifugiare nel caldo delle mie coperte e nella serenità dei miei pensieri, che sognavano un mondo felice in cui nessuno mi opprimeva.

Pensavo che quei giorni fossero archiviati, la mia mente li aveva quasi rimossi.

Li ho riportati alla luce nelle mie notti insonni di questi ultimi due anni, quando la paura interrompe il sogno ansioso che sto facendo e mi riporta allo stato di veglia, lasciandomi in bilico fra il desiderio di riaddormentarmi e quello di restare nel mondo cosciente, alla ricerca del male minore, della situazione che mi possa spaventare di meno.

E’ in quel momento che i pensieri nefasti si fanno strada, pensieri sull’inutilità di ogni mio sforzo, di ogni mio gesto: domattina non potrò entrare liberamente in quel negozio, ci sarà forse da discutere, ma io non lo voglio fare. Domani ci sarà da portare avanti quel progetto, ma il futuro di fronte a me è buio, incerto e minaccioso, e non ho energia e convinzione sufficienti per proseguire. Non so neppure se potrò usare i risparmi che i miei genitori mi hanno lasciato dopo una vita di sacrifici, perché il mondo della finanza se li è presi promettendo di restituirli, ma io ho smesso di credere a queste promesse.

L’alternativa è adeguarsi alle coercizioni del sistema, obbedire alla maestra. E neppure questo voglio fare, perché la mia anima si rifiuta, la mia vita non avrebbe significato se mi piegassi a ciò in cui non credo.

Non ho scampo, sono di nuovo schiacciato fra la maestra e i bambini che mi bullizzano, sono tornato indietro nel passato.

E proprio come allora, penso a ciò che farei se avessi una bacchetta magica. Ora lo so, cosa farei.

Farei esplodere gli edifici del potere, durante la notte, quando sono vuoti. Farei esplodere le strutture scolastiche. Farei esplodere le banche. Farei esplodere tutti gli edifici emblema di una società che da sempre mi opprime.

Seminerei il terrore, ma non morte. Vorrei vendetta.

E oggi so anche cosa si nasconde, dietro a quella parola. Se avessi la bacchetta magica, non la userei per uccidere chi mi tormenta, ma per fargli sentire quello che sto provando, fargli sentire tutta la mia paura.

E se scavo meglio, capisco che dietro al bisogno di vendetta si trova quello di essere compreso: ho un disperato bisogno che il mondo sappia come mi sento!

E allora, forse posso ottenere ugualmente ciò che cerco, senza ricorrere alle bombe; questo articolo è un primo passo verso la mia vendetta, che poi va letta per ciò che veramente è: un desiderio di connessione.

Forse ci riderai su, penserai che sono solo uno sfigato, un debole.

Ma il bullo sei tu, sei tu quello che si mette dalla parte del più forte e agisce nella tranquillità di sentirsi le spalle protette.

La mia forza si esprime nel mettere a nudo ciò che provo, e ti renderai presto conto di quanto possa essere dirompente, nel silenzio dell’oscurità.

Questo sono io.

Sono stanco, capo. Stanco di andare sempre in giro solo come un passero nella pioggia. Stanco di non poter mai avere un amico con me che mi dica dove andiamo, da dove veniamo e perché. Sono stanco soprattutto del male che gli uomini fanno a tutti gli altri uomini. Stanco di tutto il dolore che io sento, ascolto nel mondo ogni giorno, ce n’è troppo per me. È come avere pezzi di vetro conficcati in testa sempre continuamente. Lo capisci questo?

John Coffey

Emozioni Tribali


Percorro la strada asfaltata che si allontana in discesa dall’ultimo centro abitato per immergersi nella selvaggia Val Pentemina.

Non occorre molto, meno di cinquecento metri, e sulla mia destra trovo il sentiero che scende alla meta; sento lo scrosciare del torrente (acqua!) che echeggia sulle ripide erte del verdeggiante Monte Moro che si innalza dirimpetto.

L’imbocco del sentiero diventa subito un tunnel nella boscaglia, reso buio e cupo dall’incombente imbrunire; provo un vago senso di inquietudine nell’addentrarmi al suo interno.

Le fronde mi abbracciano, la vista si adatta lentamente alla minor luce, presto l’inquietudine muta in una sensazione di protezione: la macchia mi avvolge come il collo di un utero materno, ed io immagino di tornare alla calda oscurità che mi accoglieva prima di venire al mondo, quando ancora non conoscevo la luce, e vengo improvvisamente raggiunto da un profondo senso di pace.

Li uccelli mi rassicurano e mi accompagnano, non c’è nulla da temere; scendo con cautela, il fondo del sentiero è reso a tratti scivoloso dal fango (terra!) che resiste miracolosamente all’estate inoltrata.

Lentamente le fronde si diradano, per dischiudersi definitivamente sull’ampio prato pianeggiante che si staglia contro il Monte Moro, che dalla mia prospettiva appare maestoso e protettivo. Il senso di soffocamento provato prima si tramuta in un’improvvisa apertura del cuore, un’ondata di luce che spazza via ogni impervietà; una lieve brezza (aria!) accompagna questa distensione: non ricordavo che l’utero materno fosse così vasto e arioso, pur nella sua confortante protettività.

Lo scrosciare del torrente Pentemina è ora più forte e distinto; un grosso capriolo viene sorpreso dalla mia inattesa entrata in scena e si dilegua con grazia nella boscaglia, immergendosi nel canto dei grilli che fa da sfondo al petulante e armoniosamente discontinuo cinquettio degli uccellini.

Il cerchio di pietre è laggiù, sulla sinistra, in prossimità delle boscose fasce di terreno che ridiscendono ripide dalla strada; sembra volersi proteggere, con successo, dagli sguardi indiscreti del mondo.

Presa visione del luogo torno sui miei passi e mi immergo nuovamente nel buio della boscaglia, che offre generosa l’abbondante legna secca di alcuni alberi abbattuti dalle intemperie.

Ne raccolgo quanto basta per accoglierla in un caloroso abbraccio, quindi ridiscendo verso il cerchio di pietre: è tempo che l’energia del sole, rimasta a lungo intrappolata per dar vita a quei rami, venga rilasciata nel calore di una ardente fiamma (fuoco!).

Il fuoco prende vita e si irradia entrandomi in profondità nei muscoli e nelle ossa, la mia mente si spegne ipnotizzata dall’imprevedibile danza di quelle lingue luminose.

L’udito si perde nello scoppiettante ardere dei rami secchi, che ben presto si fonde e confonde col canto dei grilli, degli uccelli e del fintamente rabbioso latrato d’amore dei caprioli nel bosco.

Arriva il buio profondo, e con esso una nuova dimensione: ombre, colori, prospettive, profondità, tutto assume nuove connotazioni, e il mondo conosciuto non è più quello; il fuoco è lì, a dirmi che tutto va bene, che c’è lui a darmi il calore e la luce di cui ho bisogno, e io mi sento tranquillo.

Poi accade il miracolo.

Il cielo si popola di una miriade di puntini luminosi, e con lui il prato attorno a me; stelle fisse che portano testimonianze lontane miliardi di anni, e lucciole intermittenti che ripropongono, da vicino, l’equivalente di migliaia di pulsar remote, concreta prova nel qui ed ora del miracolo dell’Universo.

Lo sguardo non è più in grado di distinguere il cielo dalla terra, se non per la più marcata mutevolezza della vicina Via Lattea di lucciole; è come se fossi stato risucchiato dalle profondità dell’Universo e vi fossi immerso totalmente.

La fiamma lentamente si placa e muta in un brulicare di tizzoni ardenti che via via affievoliscono il proprio impulso vitale lasciandomi sprofondare nel buio punteggiato dalle migliaia di stelle in amore che volano sul prato in cerca di una compagna: il miracolo della vita è lì, innegabilmente attorno a me, e io sono parte di esso.

Resto in silenzio ad ascoltare la vivida ricchezza delle mie sensazioni; ora che mi ha rivelato i suoi preziosi segreti, non temo più mia oscurità.

Overlook Hotel


Mi trovo nella sala delle feste di un lussuoso albergo.

Attorno a me molte persone, parlano e scherzano fra loro; una calda musica swing avvolge il loro vociare.

La sensazione nasce impercettibile, poi si fa più insistente: qualcosa non va, provo a interagire con loro ma sembrano non accorgersi di me.

Un brivido sale lungo la mia schiena, accompagnando il terribile sospetto che muta presto in convinzione.

Non mi vedono perché sono morto! Lo sono sempre stato, ma non lo sapevo.

La subitanea presa di coscienza cambia la mia percezione, la musica scema, uno ad uno i personaggi attorno a me si dissolvono, lasciandomi solo nel silenzio surreale di quella stanza enorme.

Un vago terrore misto a un pesante senso di solitudine si impossessano di me.

Sono morto, e sono solo: ecco ciò che mi sono sempre rifiutato di vedere.

Maestro Covid


Questa pandemia mi sta dando l’opportunità di conoscere le diverse tipologie di persone che mi circondano, che a loro volta rispecchiano diverse parti di me.

Ci sono le persone che non tengono il loro tesoro in cassaforte per paura di essere derubati, se lo godono appieno. Per questa parte di me provo stima.

Poi ci sono quelle che lo tengono blindato, sono terrorizzati dai ladri. Per questa parte di me provo compassione.

Infine ci sono quelli che dicono di non aver paura dei ladri, ma tengono lo stesso il tesoro in cassaforte per il bene altrui. Per questa parte di me provo rabbia: detesto la mia ipocrisia.

Quando riuscirò a provare amore per ognuna di queste parti, avrò finalmente appreso la lezione che il Covid mi vuole impartire, e ritrovato la mia integrità.

L’ombra della belva


Il piccolo Daniel era accovacciato a terra, tremante, e fissava la minacciosa ombra, stagliata di profilo contro il muro, che ostentava ringhiante i mostruosi canini.

Solo una esile coperta lo proteggeva dal freddo e dai pericoli del mondo; singhiozzava, tremava, il suo sguardo non poteva fare a meno di rimanere incollato a quell’immagine scura.

Aveva paura, tanta paura.

L’ombra sembrava prendersi gioco di lui: ora diventava più grande, ora si ridimensionava danzando un’inquietante balletto al suono dei vividi raggi lunari che gliela proiettavano dinnanzi; l’ambiguità confusa della forma era ciò che più lo spaventava del mostro: il minaccioso verso animale pareva non lasciare scampo, ma l’aspetto del nemico era pressoché sconosciuto.

Gli occhi del bambino si muovevano frenetici a destra e sinistra, i suoi muscoli erano tesi allo spasmo; sentiva che era solo questione di attimi: l’attacco sarebbe stato sferrato di lì a poco, presto avrebbe dovuto iniziare a correre, correre il più forte possibile.

Sapeva che se avesse iniziato la fuga di sua iniziativa avrebbe solo anticipato la mossa della belva, e non ebbe il coraggio di farlo: non si prese quella responsabilità.

Restava un piccolo spiraglio di salvezza: avrebbe forse potuto arrampicarsi sull’albero immediatamente fuori dalla finestra che si trovava alle sue spalle, aperta sul buio della notte.

Fu mentre elaborava questa ipotesi che accadde.

La scena si consumò in un’attimo, ma Daniel la percepì al rallentatore: l’ombra si girò, il profilo dell’animale si ammorbidì in un’indistinta forma tondeggiante dalla superficie irsuta, divenendo nel contempo più grande e oscillando verso l’alto l’alto e il basso; la fiera si stava avvicinando a rapidi balzi!

I muscoli agirono per lui: voltò le spalle al muro, e così pure a quell’ombra che diveniva sempre più grande, e fece un balzo al di là della finestra, gettandosi senza scampo fra le fauci del mostro che incedeva rapido e famelico.

Avrebbe forse potuto salvarsi, se non fosse caduto vittima dell’illusione; aveva indirizzato la sua paura nella direzione sbagliata: non era l’ombra che doveva temere; forse sarebbe bastato chiudere la finestra.

~ ° ~ ° ~

Caro amico, la tua paura è preziosa, se un giorno potrai sferrare l’attacco o darti alla fuga sarà soprattutto grazie a lei; considerala una valida alleata, è parte di te ed è anche merito suo se oggi sei qui, vivo e vegeto.

Abbi però l’accortezza di indirizzarla verso un pericolo concreto: Il virus esiste, è reale: guardati da lui, non dalle ombre che i cosiddetti mezzi di (dis)informazione di massa continuano a mostrarti.

Potresti fuggire nella direzione sbagliata.

Disobbedisco


Voglio che tu lo sappia, ne ho abbastanza, io disobbedisco.

Non ti agitare, non intendo violare le tue stupide regole, non farò nulla di tutto questo, è bene che tu rimanga nella convinzione di essere il più forte.

Ma io disobbedisco ugualmente.

Disobbedisco perché da anni non ho più una televisione.

Disobbedisco ogni volta che vado nel mio orto a prendere la verdura da cucinare a pranzo.

Disobbedisco ogni volta che vado nel bosco a fare legna.

Disobbedisco quando non cedo alle lusinghe della carriera.

Disobbedisco ogni volta che faccio i miei acquisti nel piccolo negozietto dietro l’angolo.

Disobbedisco ogni volta che mi tengo la febbre alta, senza prendere antibiotici o antipiretici, finché il mio corpo dice che ce la può fare con le proprie forze.

Disobbedisco quando rifiuto di dare i miei risparmi alle banche.

Disobbedisco ogni volta che vado in ufficio usando la mia fidata bicicletta.

Disobbedisco ogni volta che rinuncio ad andare in un villaggio turistico, o a fare una crociera.

Disobbedisco quando pianto un albero da frutta.

Ma soprattutto, e questo mettitelo bene in testa, disobbedisco NON AVENDO PAURA.

Voglio che ti sia ben chiaro, le tue strategie del terrore su di me non hanno alcun effetto: non hai potere su di me, perché io non ti credo.

E adesso puoi continuare a godere nel vedermi, docile, seguire i tuoi precetti: è giusto che anche le tue debolezze vengano ascoltate.

Paura


Il grosso cane è lì, davanti a me, e ringhia minaccioso.

Sento le gambe svuotarsi, il corpo attraversato da brividi; mi guardo attorno per cercare un’arma improvvisata, trovo un bastone a pochi passi, lo afferro.

Il ringhio si rafforza, sempre più ostile; l’animale sembra poter aggredire da un momento all’altro, sono davanti al bivio: attacco o fuga.

Cerco di assumere un atteggiamento intimidatorio, sperando di non dover ricorrere né all’uno né all’altra.

I piedi sono incollati al suolo, pesanti, di piombo. Ho paura.

Questa mi ha reso a mia volta minaccioso, e lui lo sente.

Anche lui adesso ha paura, è nella mia stessa situazione.

Ecco perché ringhia: ha paura di me. è così fin dall’inizio!

Lui è terrorizzato da me; posso avere paura di chi ne ha di me? Ha senso tutto questo? Di chi ho davvero paura?

Temo il cane che a sua volta teme me… è un circolo, in definitiva ho paura di me! Il cane non c’entra, è solo uno specchio.

Se cambio atteggiamento tutto può svanire, come una bolla di sapone; voglio crederci, voglio avere fiducia, voglio fare il primo passo e disinnescare il meccanismo.

Getto lontano il bastone, distendo i lineamenti del volto, offro la mano.

Il cane si volta e si allontana.

La supercompensazione


Non ci vuole un luminare della scienza per capirlo, è una semplice regola di buon senso: ciò che non si usa non serve e si può eliminare, ciò che si usa serve e va potenziato.

Un banale meccanismo di economia funzionale.

Questo meccanismo è alla base di molti sistemi complessi che conosco, in particolare del corpo umano: su di esso si fondano i principi dell’allenamento.

Durante una intensa attività fisica le risorse dell’organismo vengono consumate, e la sua struttura danneggiata; durante la fase di riposo, che è la più importante in ogni sessione di allenamento, il corpo ripristina le risorse che si sono indebolite ma, attenzione, le riporta ad un livello maggiore di quello iniziale: come a dire, stavolta mi hanno colto impreparato, ma la prossima volta non mi fregano!

Questo processo è chiamato supercompensazione e permette di sviluppare quelle potenzialità che vengono maggiormente richieste: è un triviale processo di adattamento finalizzato alla sopravvivenza.

Ora, se ciò è vero per un muscolo, non vedo perché non dovrebbe esserlo in generale con ogni tipo di risorsa dell’organismo. Allora mi guardo attorno e mi chiedo: quanto ci stiamo allenando?

Per fare qualche piano prendiamo l’ascensore o le scale mobili, per fare qualche chilometro prendiamo l’automobile: il sistema motorio viene usato a minimo regime.

Quando fa caldo accendiamo l’aria condizionata e quando fa freddo il riscaldamento: la capacità di termoregolazione viene usata a minimo regime.

Quando abbiamo un problema tecnico chiediamo subito aiuto a chi ne sa di più: le abilità di problem solving vengono usate a minimo regime.

Quando abbiamo un dolore prendiamo subito un analgesico: la capacità di sopportazione viene usata a minimo regime.

Contrastiamo il buio della notte con le luci della città: la capacità di adattamento ai ritmi stagionali viene usata a minimo regime.

Quando ci ammaliamo prendiamo subito l’antibiotico: il sistema immunitario viene usato a minimo regime.

Ci affidiamo mansueti al tranquillizzante fascino delle compagnie di assicurazione: la capacità di rischiare viene usata a minimo regime.

Teniamo costantemente un occhio alle previsioni meteo, pianifichiamo accuratamente il futuro, in mancanza di meglio ci affidiamo agli oroscopi: la capacità di stare nella frustrazione dell’incertezza viene usata a minimo regime.

Praticamente, quella che chiamiamo società del benessere ha preso una bella pialla e ha smussato ogni angolo, ha abbattuto ogni oscillazione; e poi ci lamentiamo di avere una vita piatta (e non parlo di addominali).

Non ci facciamo più carico di alcuna difficoltà, tutto è demandato all’esterno.

Poi improvvisamente arriva la pandemia, ed è subito panico, paura di morire. Perché stavolta all’esterno non c’è nessuno che sappia come aiutarci: là fuori sono incasinati quanto noi.

Allora sì, che ci vogliono le protezioni, le mascherine, i distanziamenti, le precauzioni: il corpo sociale non è allenato per sopportare lo sforzo da solo, ci vogliono le protesi.

Pensare di affrontare il Covid con le proprie forze in queste condizioni è come chiedere ad un flaccido cinquantenne che sta guardando la partita in TV con una birra in mano di correre una maratona. Ormai è tardi e i buoi sono scappati.

E tu, hai paura di morire? Ma svegliati, non ti rendi conto che sei morto da una vita?

Zombie


Ho paura, ho una fottuta paura del contagio.

Sono da ore chiuso in casa ad ascoltare i mezzi di informazione, non ne trascuro uno: televisione, internet, chat. Ho riempito frigo e dispensa, per un po’ siamo a posto: farina, zucchero, patate, pasta. Passata di pomodoro, e acqua: tante bottiglie di acqua. E medicine: antibiotici, antipiretici, antiinfiammatori. I classici, quelli che prendiamo di consueto, all’occorrenza.

Dicono che non bisogna allarmarsi, però lo dicono spesso, troppo spesso, in varie salse, in tanti modi; nel frattempo contano i nuovi casi di contagio, ma tutto è sotto controllo, precisano. Non si tratta di pandemia, non si tratta di pandemia. Pandemia. Non si tratta. Pandemia. Pandemia. Pandemia.

Basta un briciolo di prudenza, e non c’è alcun pericolo: con pochi accorgimenti si evita il contagio.

Contagio. Pericolo. Pandemia.

Però hanno messo alcuni paesi in quarantena, hanno chiuso le scuole e gli uffici pubblici per una settimana.

Per precauzione. E consigliano di non uscire.

Fossi matto ad uscire, in me la paura sale, non voglio morire!

Non voglio perdere tutto quello che ho, le mie sicurezze, le mie abitudini, i miei cari, la mia vita.

Ho paura del futuro, di ciò che mi può accadere.

Non voglio perdere la mia casa, la mia bella casa sicura e blindata che nella notte mi protegge dall’irruzione di qualsivoglia malintenzionato. Perché anche da loro bisogna in qualche modo proteggersi, con tutti questi immigrati, con tutte le brutte cose che si sentono al telegiornale.

Non voglio perdere il lavoro, quel lavoro che mi tengo stretto stretto da trent’anni, sempre lo stesso, sempre uguale, che tanto mi rassicura perché so che quando entro in ufficio, ogni mattino, non corro il rischio di trovare brutte sorprese: le mie solite pratiche sono lì, pronte ad ingoiarmi in otto ore di tranquillizzante routine.

Un lavoro che mi fa guadagnare un ottimo stipendio, che garantisce a me e alla mia famiglia il sostentamento e tutto ciò di cui abbiamo bisogno, e ci esce anche una buona polizza assicurativa che ci mette al riparo da ogni imprevisto della vita. Perché non si sa mai.

Non voglio perdere mia famiglia, i figli che ho tirato su con tanto amore e tanto senso di protezione: sono tutta la mia vita, morirei senza di loro. Non voglio perdere la sensazione di tornare a casa dall’ufficio, con la mia mogliettina che mi ha preparato una buona, sana cena, non voglio perdere i racconti a tavola su come è andata a scuola, come è andata la giornata di tutti noi. Spesso, assai spesso racconti sempre uguali, ma è questa routine che mi fa stare bene, che mi tranquillizza.

Che ne sarà di tutto questo? Che ne sarà dei sabati al supermercato a fare la spesa, delle gite fuori porta della domenica? Dei mercoledì sera al circolo con gli amici?

Ho il terrore che un giorno possa svanire tutto.

Vorrei che il tempo si bloccasse, e ogni cosa restasse così come è ora, che non cambiasse mai; perché è evidente che se cambia, con i chiari di luna che si sentono in giro, non può che peggiorare.

Vorrei che tutto si fermasse.

Ripetitivamente immobile. Quieto.

Forse vorrei morire.

Forse sono già morto.