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La parola d’ordine, l’ordine delle parole


Un messaggero deve andare al quartier generale e per raggiungerlo deve attraversare 5 posti di guardia. Arriva al primo e la sentinella gli urla un numero: 12; lui prontamente risponde: 6, e passa.

Il messaggero non sa di essere seguito a breve distanza da una spia nemica, che ha sentito tutto; anch’egli si presenta al posto di guardia, la sentinella urla: 12, la spia risponde 6 e passa.

Arrivato alla seconda porta, la sentinella urla un numero: 10; risposta del messaggero: 5, e passa. La spia sente nuovamente e passa a sua volta.

Arrivato al terzo posto di blocco, stessa scena: la guardia urla un numero: 8, il messaggero risponde: 4 e passa. La spia, che pensa di avere ormai capito lo schema, lo segue in totale tranquillità.

Arrivato al quarto posto di blocco, stesso film: la guardia urla un numero: 6, il messaggero risponde: 3 e passa. E la spia dietro a ruota.

Finalmente il messaggero arriva all’ultima porta: la guardia urla un numero: 4, il messaggero replica e passa, ma stavolta la spia non riesce a sentire la risposta. Forte di aver compreso il meccanismo, decide comunque di affrontare la prova.
La guardia gli urla il numero: 4 e lui risponde: 2.

A questo punto tutta la guarnigione si precipita sull’uomo e lo arresta!

~ ° ~

In questo breve racconto è racchiusa l’essenza delle nostre gabbie mentali: viviamo nel passato e ci lasciamo condizionare da esso; interpretiamo il futuro come se fosse un suo prolungamento in linea retta, influenzandolo artificiosamente.

Imparare dall’esperienza è una funzione potentissima della nostra mente, che astrae modelli a partire da singoli avvenimenti, collegandoli, trovando elementi ricorrenti, generalizzando, risparmiandoci di fatto un bel mucchio di fatica, perché ci evita di affrontare le situazioni come se si presentassero sempre per la prima volta.

Ma questa potenza può talvolta ritorcersi contro di noi: da un lato perché ci toglie, per l’appunto, l’emozione della “prima volta”, ma ammettiamo pure che in molti casi questo possa essere un bene.

Il vero nocciolo della questione è che un modello è una semplificazione della realtà, e se lo si utilizza ciecamente si rischia di fare la fine della nostra spia, che nel caso specifico ha semplicemente sbagliato a generalizzare: non si trattava di rispondere col risultato della divisione del numero per due, ma col numero di lettere contenute nella parola ‘quattro’; la risposta giusta era pertanto 7.

Le generalizzazioni sono utili, ma è opportuno non cadere nell’errore che ne esista una sola possibile, di solito la più evidente trovata; e talvolta è opportuno ammettere l’eventualità che il prossimo evento che si presenterà possa uscire dai binari, decidendo di rifiutarsi di seguire quelle regole che noi abbiamo deciso di fissare, in modo piuttosto arbitrario, solo per nostra comodità.

Cerchiamo ordine ovunque, ne abbiamo bisogno per sentirci sicuri, per decidere il prossimo passo, e il mondo è di fatto ordinato… ma non sempre nel modo che piace a noi.

Il qui e ora di una salita in bicicletta


Il sole è alto sull’orizzonte, fa caldo e la salita che sto affrontando è piuttosto lunga, non sono neanche a metà.

Ho già parecchi chilometri alle spalle e inizia a farsi sentire un lieve fastidio al ginocchio; il piede sinistro duole già da un po’: accidenti, dovevo prendere le scarpe più grandi di un numero… col caldo e lo sforzo i piedi gonfiano e poi fanno male.

Almeno non ci fosse quest’afa… e ora ci si mettono pure i tafani, vogliono banchettare con me.

La mente vaga, mi ripropone le numerose letture in cui si suggerisce di stare nel qui ed ora, perché nel qui ed ora non puoi avere problemi, i problemi ci sono solo quando ti proietti nel futuro o ti ancori al passato.

Non posso fare a meno di pensare: caro amico che scrivi queste belle cose, vorrei che adesso fossi qui al mio posto, poi vediamo che dici; per me, stare nel presente in questo frangente non fa che aumentare il disagio; meglio fuggire con la mente altrove, distrarsi, anestetizzarsi immaginando la bella birra fresca che mi aspetta nel frigo al mio rientro.

Improvvisamente una nuova visione della realtà spazza via tutto: non ho capito affatto cosa significhi vivere nel qui e ora, per questo sto soffrendo la salita.

“Fa caldo”, “la salita è ancora lunga”, “sento un lieve fastidio al ginocchio”, “il piede sinistro duole”, “quest’afa è insopportabile”, “i tafani mi stanno divorando”. Etichette. Giudizi. Proiezioni dal passato. Mi sto lamentando, non sto affatto vivendo nel qui e ora.

Il qui e ora è fatto di sensazioni, e le sensazioni precedono ogni etichetta che la mente può attribuire; nel momento in cui dico “ho caldo” sono già nel giudizio, sono già sul piano mentale, ho perso il contatto con la sensazione, sono nel passato e non più nel presente.

Nel presente c’è solo la sensazione pura, priva di connotazioni o catalogazioni; per catalogarla devo recuperare dall’archivio delle esperienze passate il fascicolo contenente qualcosa di analogo a ciò che sto vivendo, leggere l’etichetta che vi avevo apposto e quindi attribuirla anche all’esperienza attuale, che a questo punto scivola via dal presente, perdendo tutta la sua unicità, per piombare nel passato, indistintamente, assieme alle altre cose già viste, ammantandosi di un opaco alone di preconcetti.

Dopo questo insight, provo non senza difficoltà a cambiare approccio: ascolto solo ciò che sento, senza giudicarlo, senza catalogarlo. Mi immergo nel mare degli input percettivi, mi lascio trasportare dalle sue onde impetuose. Non c’è più fatica, non c’è più caldo, non c’è più dolore.

Solo questa magnifica esperienza.

(Ancora giudizi! La mente ci prova sempre!)

Solo questa esperienza.

Grazie, vita.

Esiste la cucina di casa tua?


Ritieni che sia più reale qualcosa che hai visto di persona o di cui hai solo sentito parlare? Ad esempio, è più reale l’automobile che hai in garage o il villaggio turistico dove è stato il tuo collega l’estate scorsa e di cui non avevi mai sentito parlare prima?

La domanda è ovviamente retorica, sto solo cercando di portarti, come si dice a Genova, nel mio caruggio.

E’ pacifico che una cosa di cui abbiamo avuto esperienza abbia per noi un carico di sensazioni, ricordi, odori, profumi, emozioni che contribuiscono a darle quella connotazione che noi andiamo etichettando con la parola realtà.

Immagino ad esempio che stamattina avrai fatto un’abbondante colazione nella tua bella casetta; che ore erano? Le 7.30. Bene, non avrai dunque problemi ad affermare che la cucina di casa tua (alle 7.30 di stamattina) esista realmente.

Adesso dove ti trovi? In palestra. Che ore sono? Le 18.30. Anche in questo caso, non avrai ragione di dubitare che la palestra, alle 18.30 di oggi pomeriggio, esista realmente.

Ma che dire della cucina di casa tua alle 18.30? Esiste realmente? Mi dirai ovviamente di sì, che non sei ancora rincasato ma stamattina era sicuramente lì.

Ma non è questo che ti sto chiedendo: io voglio sapere se esiste adesso, alle 18.30.

Pongo la domanda in modo diverso: siccome mi hai appena confermato di dare maggior credibilità a ciò che hai esperito, cos’è per te più reale, la cucina di casa tua alle 7.30 (che hai visto, sentito, toccato, gustato, annusato), o la cucina di casa tua alle 18.30 (che non stai vedendo, sentendo, toccando, gustando, annusando)?

Siamo così inclini ad affermare che il futuro non esista ancora, il presente duri un attimo e il passato non esista più, ma quanto abbiamo più o meno concordato finora sembrerebbe portare da tutt’altra parte; non hai come me il sospetto che la cucina alle 7.30 di oggi debba considerarsi più reale della cucina alle 18.30? O per essere più risoluti: che la cucina delle 18.30 non esista, ed esista quella delle 7.30?

Sto sbagliando qualcosa?

Riferimenti bibliografici:

Rudy Rucker – La quarta dimensione. Un viaggio guidato negli universi di ordine superiore