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Io sono Francesco


Il mondo cambia ad una tale velocità che nozioni imparate oggi non saranno più valide fra qualche anno; più che i concetti è importante allenare la flessibilità, la capacità di adattamento, la creatività, l’intuizione: sono queste le caratteristiche che ci impediranno un domani di essere sostituiti dalle macchine, sul posto di lavoro come in ogni altro ambito dell’esistenza.

Da ragazzino adoravo disegnare storie a fumetti; ricordo il giorno che la maestra, dopo che ebbi consegnato un compito insoddisfacente, mi disse: «invece di perdere tempo con tutti quei fumetti sarebbe meglio che studiassi di più».

Ecco come uno sprone maldestro può diventare la pietra tombale della creatività: non è un caso se proprio ora, mentre scrivo queste parole, mi sforzo con fatica di ignorare una voce di sottofondo che sussurra che dovrei dedicarmi a qualcosa di più utile.

Non è cambiato molto da allora: la scuola odierna è, salvo rare eccezioni, un chiaro esempio di come la rigidità mentale possa portare a confondere lo strumento con l’obiettivo: dal punto di vista dell’insegnante l’importante è trasmettere una nozione, si è perso di vista lo scopo per cui questa sarà un domani utile al ragazzo; si è perso di vista il fatto che la nozione è uno strumento, e la si è trasformata in un fine.

Dal punto di vista del discente, l’importante è posizionarsi al di sopra della sufficienza o, per i più ambiziosi, ottenere voti alti; si è totalmente perso di vista il fatto che il voto è uno strumento per misurare l’apprendimento: il voto è diventato il fine, e l’apprendimento il mezzo per ‘avere una buona media’.

La scuola attuale è una fabbrica di valutazioni, la fucina del giudizio, quell’invalidante abitudine che ci si segnerà e limiterà per tutta la vita.

Auspico che i ragazzi abbiano sufficiente apertura mentale per non lasciarsi imbrigliare da questi meccanismi, e trarre quanto di buono gli insegnanti possono ancora offrire loro; l’invito mi arriva dal profondo: ragazzi, non lasciatevi sintetizzare da un numero, non potete impedire che lo facciano, ma potete smettere di credere che sia reale.

La vetta: OK, target panic!


La vedo, è lassù, illuminata e riscaldata dal sole; dalla cengia umida e ombrosa in cui mi trovo riesco a scorgere piuttosto chiaramente il cammino che porterebbe a riscaldarmi le ossa e l’anima; so benissimo che è alla mia portata e che dipende esclusivamente da me, e tuttavia resto qui, a contemplare dalla distanza.

E so anche perché.

Perché, tutto sommato, chi sono mai io per meritare questo? Perché arrogarmi in prima persona i benefici di quel posto al sole? Perché sottrarlo a qualcun altro più meritevole di me?

Prendere l’iniziativa sposta su di me il peso psicologico dell’esito delle mie azioni; molto meglio reagire ai casi della vita, potrò sempre raccontare agli altri e a me stesso che mi ci sono trovato costretto.

E poi… dove mi trovo è freddo e umido, certo, ma si tratta di un posto che gode di una notevole stabilità, da qui non posso certo cadere. Mentre, se salissi lassù… eh, che diamine, da lassù le possibilità di caduta sono molteplici. Come mi sentirei se arrivassi in vetta, godessi appieno di quel bel sole, e poi con uno scivolone improvviso ruzzolassi di nuovo giù, per piombare dolorante nel luogo di partenza o, peggio, ancora più sotto? Il dolore alle ossa sarebbe nulla in confronto a quello che proverei al cuore al ricordo dell’agio ottenuto e poi perduto, per sempre.

C’è inoltre da considerare che a questo mondo se sei felice non sei mica tanto ben visto. Chissà perché, sembra sempre che il tuo star bene in qualche modo implichi lo star male di qualcun altro. Ed in effetti, se vado ad occupare quel posto nessun altro potrà goderne. Ma a prescindere da questo: che brutta persona sarei ad essere felice quando attorno a me c’è pieno di gente triste? Quanto mi farebbe sentire in colpa starmene lassù al caldo a guardare dall’alto la sofferenza altrui?

No, meglio rimanere qui. Non è affatto confortevole, ma almeno so cosa aspettarmi, so che ho poco da temere. E poi, ostentare la propria sofferenza ha il suo bel perché, il fatto di portare una croce è sempre ben spendibile in società.

Ma devo essere onesto; questa strategia di vita è per molti versi comprensibile, e tuttavia in cuor mio so di non avere il diritto di fare una cosa: recitare il ruolo della vittima. Perché la situazione che sto vivendo nasce da una scelta tutta mia, e sarebbe davvero ipocrita dare la colpa al destino, al mondo, agli altri.

Fare la vittima significherebbe rifiutarsi di guardare in faccia la realtà, perché alla fine anche la non azione è una scelta ben precisa che si compie, anche se molto più facile da lasciar passare inosservata.

E mentre faccio queste considerazioni e ammiro la vetta tuttora libera, alcuni dubbi provenienti dal cuore si insinuano striscianti nella mia mente.

Non sarà forse che, a sommare tutti questi periodi di sofferenza, latente ma sopportabile, lungo l’arco di una vita, alla fine incassare qualche saltuario ruzzolone sia il male minore? Nell’economia generale dei profitti e delle perdite, non converrà forse rischiare?

Soprattutto: e se quel bel posto lassù, che al momento è vacante, mi fosse stato riservato da una qualche sorta di equilibrio cosmico? Passami per comodità un linguaggio religioso, d’altra parte finora sono stato moralista a mio svantaggio: e se fosse un posto che  Dio ha creato proprio per me, nella sua infinita benevolenza? Parlo dei famosi talenti della parabola, con riferimento ai quali abbiamo un ben preciso compito: quello di farli fruttare e non tenerli nascosti al sicuro in cassaforte.

Che arrogante, supponente, presuntuoso e irriconoscente sarei in questo caso, a rifiutare una simile opportunità!

La cazzuola e la mountain bike


L’altro giorno ho fatto un lavoro di muratura e mi sono ritrovato ad usare una cazzuola; talvolta capita, e devo dire che non sono certo un maestro nel maneggiarla. Però ci metto impegno, e ogni volta rivivo sempre la stessa storia.

La malta deve finire in un punto preciso, giusto nella fessura fra due pietre: allora mi metto di impegno, mi concentro, cerco di coordinare i movimenti, devo fare attenzione a non farla cadere per terra e a centrare l’obiettivo. La mia attenzione è interamente rivolta alla cazzuola e al polso che la sorregge; è proprio lì i segreto, è tutto un lavoro di polso.

Eseguo il colpo, e la malta si spataffia (termine tecnico da muratore, ndr) ovunque, a cinque centimetri dall’obiettivo.

Insisto, provo più volte, mi incazzo pure: niente da fare; ho spruzzato di cemento l’area di lavoro.

Poi cambio approccio: così non vado da nessuna parte; allora non penso più ai movimenti che dovrei compiere, ma focalizzo l’attenzione solo sulla fessura da raggiungere, il mio obiettivo. Dimentico di avere una cazzuola in mano, con sopra del cemento che potrebbe cadere a terra, dimentico ogni forma di teoria da apprendista muratore.

Mi lascio andare, lascio che il mio corpo lavori incontrollato, mentre la mia attenzione e lo sguardo restano fissi sul punto da raggiungere: voglio che a malta raggiunga quella fessura! Tac, perfetto! La malta si concentra proprio là, dove serviva!

Ecco il segreto! Nessuna teoria da seguire, nessuna tecnica da applicare! Solo la ferma volontà di raggiungere l’obiettivo!

E da qui il salto di qualità; a ben pensarci, funziona così anche con la mountain bike, una delle mie passioni: se hai davanti un ostacolo, e ragioni sul da farsi per superarlo concentrandoti su di esso, immancabilmente ti bloccherai, cadrai, sarai costretto a mettere il piede a terra. Ma se guardi oltre l’ostacolo, se poni la tua attenzione sull’obiettivo (il punto da raggiungere), e lasci fare al corpo, ecco che magicamente compi il corretto gesto atletico, e la bici va da quasi da sola là dove hai puntato lo sguardo.

Ma se funziona per cazzuole e mountain bike, allora non può che funzionare per tutto! (mmm… dici che è una illazione ardita?)

Credo che sia proprio così: se hai degli obiettivi e li vuoi davvero raggiungere, smetti di pensare a come fare! Concentrati solo sul punto di arrivo, e non sul percorso da seguire. La mente non ha gli strumenti per trovare il giusto percorso, questi strumenti sono prerogativa di altre forme di intelligenza: lasciale lavorare indisturbate!

Il più delle volte la tua mente suggerirà che è impossibile, ma tu non la ascoltare: non è campo di sua competenza! Focalizzati su ciò che vuoi, e non sul modo di arrivarci: vedrai che lo otterrai quasi per magia!

Chi dice che non si può fare non dovrebbe disturbare chi lo sta facendo

(Albert Einstein)

La busta


Supponi di avere una busta contenente un messaggio e di doverla recapitare ad un destinatario all’altro capo del mondo; non puoi però usare la posta ordinaria, ma esclusivamente il passamano.

Decidi allora di consegnarla alla persona, fra i tuoi conoscenti, che a tuo avviso ha maggior probabilità di farla quantomeno avvicinare alla meta (un amico che lavora in una ditta di import export, o che sta partendo per un viaggio, ad esempio).

Questa persona, poi, dovrà fare altrettanto; l’obiettivo dichiarato è sempre raggiungere il destinatario stampato sulla busta, e la strategia sempre la stessa: concentrarsi solo sul prossimo destinatario (intermedio o finale poco importa).

Si sono fatti dei calcoli statistici in proposito: hai idea di quanti passaggi in media sono richiesti perché la busta arrivi a destinazione? Cento? Cinquecento? Spara!

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Ebbene, tempo fa lessi di questo studio che ti ho ora esposto: non ricordo il numero esatto, ma so che si aggira attorno alla decina, forse addirittura meno di dieci.

Per me è già incredibile questo numero, ma ciò che ancor più mi affascina è la mancanza di pianificazione della rotta: una volta definito il principio informatore, questa segue praticamente un percorso casuale. Lo stesso che accade peraltro al pacchetto di bit che viaggia nella rete per raggiungere il destinatario del tuo messaggio di posta elettronica.

Ed ora sposto il ragionamento sull’ottava superiore: così come la meta della busta ti appare lontana quando in realtà è così facilmente raggiungibile, non potrebbe essere altrettanto vero per i tuoi obiettivi di vita?

Forse non sono così irraggiungibili come sembrano, e soprattutto, forse non è necessario che pianifichi nel dettaglio la linea di azione per arrivare dove vorresti, perché questo è faticoso e mentalmente dispendioso: molte imprese muoiono sul nascere perché ci si scoraggia solo ad elencare tutto ciò che manca per arrivare in fondo. Che dire dell’effetto deprimente del guardare la vetta, punto di arrivo della nostra escursione, quando ancora stiamo affrontando le fatiche iniziali a fondo valle?

Inoltre non è detto che gli esatti passaggi siano conoscibili a priori, ed una rigida pianificazione non terrebbe conto di eventuali imprevisti incontrati strada facendo; meglio una strategia basata sul disordine, dunque.

Per estremizzare mi appoggio a quanto mi ha insegnato l’esperienza avuta con la depressione, che ha attanagliato pesantemente persone a me vicine e talvolta fa dei timidi capolino nei miei stati d’animo: quando sei depresso tutto appare irraggiungibile, ti senti in fondo al pozzo e nulla sembra possa tirarti fuori: ed invece, proprio in quella situazione, basterebbe un solo piccolo passo, in qualunque direzione, per provocare un sensibile miglioramento.

La verità è che in molti annaspiamo nella depressione della vita quotidiana, percependo quel lieve senso di disagio a cui ormai ci siamo abituati, un rumore di fondo che ti fa arrivare a fine giornata col mal di testa ma che ormai sei stato educato a non sentire neanche più.

Se ti trovi in questa situazione, voglio lasciarti questo messaggio di incoraggiamento: per dare un senso alla tua vita non ti è richiesto di partire domani per le missioni nel Terzo Mondo; molto probabilmente è sufficiente che ti iscriva a quel corso di canto che è da un po’ che vorresti fare ma non reputi ne valga mai la pena.

 

 

Strumenti musicali


Siamo strumenti musicali perfetti, convinti di essere grandi compositori.

Per questo viviamo nella frustrazione di non riuscire a suonare il pezzo che vorremmo, o come vorremmo, quando sarebbe sufficiente fare del proprio meglio per produrre suoni armonici, lasciando il Suonatore Cosmico libero di compiere il proprio lavoro senza più tentare di ostacolarlo.

Oltre l’ostacolo


Devi sapere che nel tempo libero faccio l’istruttore di mountain bike; beh, ridimensioniamoci: diciamo piuttosto che, avendo la passione per questo sport, cerco di trasmetterlo ad alcuni bambini attraverso il gioco.

Ebbene, fra i vari esercizi che propongo loro ce n’è uno che prevede di passare su di una stretta tavola sospesa nel vuoto, sopra un fossato infestato dai coccodrilli; beh, ridimensioniamoci, la tavola si trova a qualche centimetro dal prato, e non ci sono coccodrilli, solo qualche gallina qua e là,  ma molti di loro si comportano come se fosse vera la prima situazione.

Comunque: ho notato che quelli che riescono bene nell’esercizio puntano lo sguardo in avanti, concentrandolo su un punto al di là della tavola, e si muovono decisi verso di esso, mentre lo sguardo di quelli che non ci riescono si ferma prima, sulla tavola; questi ultimi puntualmente cascano di lato.

Ai pochi che mi è riuscito di salvare dalle fauci del coccodrillo ho provato a suggerire questa strategia, ovviamente con parole più semplici ma il succo non cambia: prima guardare l’ostacolo, memorizzarne le caratteristiche, e poi concentrarsi sul punto di arrivo, focalizzando l’attenzione su di esso.

Sembra che il problema sia proprio la focalizzazione: certo, l’ostacolo non deve essere ignorato, ma chi si sofferma troppo su di esso, e non guarda al punto di arrivo, ha più probabilità di sbagliare; chi lo lascia, per così dire, sullo sfondo, ha maggiori probabilità di successo.

E questa considerazione ricade nella la casistica più generale di consigli che normalmente elargisco ai giovani virgulti: la bici va sempre dove si punta lo sguardo; devo svoltare a sinistra? Allora girerò la testa a sinistra e guarderò in quella direzione; devo partire da fermo? Allora occorre guardare avanti, e non i pedali. Non è tanto un discorso di vedere dove si va, ma di sfruttare l’attrazione verso il punto osservato.

Da queste considerazioni, il salto di qualità che mi ha portato ad un’illuminante presa di coscienza, di cui voglio rendere partecipe te, fortunato lettore: il principio è generalizzabile al di là di questioni ciclistiche; per riuscire in ciò che si fa occorre puntare sull’obiettivo, senza soffermarsi sulle difficoltà che si frappongono fra noi ed esso.

ostacoli

E modestamente, mi rendo conto di commettere spesso lo stesso errore dei miei allievi; tendo a lasciarmi sottrarre energie dai problemi da risolvere, invece di sfruttare la carica energetica che potrei avere pensando al dopo, quando saranno finalmente risolti. Per fare questo occorre un certo distacco dal problema, bisogna sopraelevarsi sul labirinto.

Esempio: devo sistemare casa con delle opere di ristrutturazione; posso pensare al macello che faranno gli operai quando inizieranno i lavori, allo sforzo finanziario che dovrò sopportare, oppure posso immaginare come mi sentirò al termine, nella mia nuova, accogliente dimora. Un bel cambio di prospettiva, no?

Pare che proprio questa sia la strategia utilizzata dagli sportivi di successo (ahimé, non ho esperienze in proposito): molti di loro visualizzano se stessi nel momento della vittoria, ne anticipano le emozioni, le sensazioni, e così facendo si mettono nello stato d’animo più propizio perché questa arrivi veramente. Non pensano alla fatica, agli sforzi che dovranno sopportare: questo toglierebbe loro energia e motivazione.

Facile a dirsi, difficile a farsi. Però vale la pena di provare no?

Io ho deciso di impegnarmi in questo senso.

La fionda gravitazionale


Sai di cosa si tratta? Provo a spiegarlo con le poche conoscenza a mia disposizione.

Quando un veicolo spaziale deve raggiungere un punto remoto nello spazio e l’energia necessaria per affrontare un percorso diretto sarebbe proibitiva per la tecnologia a disposizione, si utilizza un trucco ingegnoso nella sua semplicità, in pratica consistente nello sfruttare fonti di energia alternative che si trovano lungo il cammino.

La fonte di energia in questione è la forza di gravità: in parole semplici si dirige la navicella in prossimità di un pianeta o altro corpo celeste dotato di notevole massa, non troppo vicino altrimenti ne verrebbe risucchiata, e questo le imprime un’accelerazione dandole una bella spintarella in modo completamente gratuito.

Ad esempio, per raggiungere Saturno non si manda la sonda direttamente verso quel pianeta: la si manda invece verso Giove, il quale le fornisce l’energia aggiuntiva necessaria per raggiungere la destinazione. Una sorta di tappa tecnica ai box.

Willy_il_coyote

Questo mi ha stimolato una riflessione: tutti gli eventi della nostra vita caratterizzati da una certa ‘massa’ possono essere sfruttati in base allo stesso principio; se ci avviciniamo troppo possono risucchiarci, ma se manteniamo la giusta distanza possono darci la spinta aggiuntiva che può proiettarci verso le stelle.

Ogni evento dotato di un certo spessore (sia esso positivo o negativo: la nascita di un figlio, la morte di un caro, una vincita alla lotteria) rappresenta per noi un profondo avvallamento lungo il cammino, qualcosa in grado di inghiottirci e farci perdere il controllo della situazione; ma se riusciamo a non avvicinarci troppo, a non rimanere coinvolti, a mantenere il distacco, ecco che ci può caricare di energia addizionale, che avremo a disposizione per raggiungere obiettivi ancor più lontani.

Credo che nella vita non esistano eventi oggettivamente positivi o negativi; lo sono soggettivamente, quello sì.

Ma oggettivamente si tratta dell’equivalente di corpi celesti dotati di massa, più o meno grandi: sta a noi non lasciarci attrarre e sfruttarli intelligentemente per proiettarci con rinnovata energia verso l’infinito.

 

Obbligazioni di mezzi e di risultato


Il diritto è una materia che mi è sempre stata indigesta; questo non significa tuttavia che non abbia alcune reminiscenze, più o meno vaghe: una di queste riguarda la distinzione fra obbligazioni di mezzi e di risultato, distinzione che voglio qui riproporre.

L’obbligazione, in termini giuridici, è costituita da un comportamento che un debitore deve tenere nei confronti di un creditore; quello più semplice e terra terra riguarda il conferimento di una somma in denaro, ma più in generale può trattarsi di un qualsiasi genere di adempimento.

Ebbene, considerandoli dal punto di vista del criterio di valutazione di assolvimento dell’obbligazione, questi adempimenti si possono suddividere in due categorie:

  1. obbligazione di risultati: è da considerarsi assolta se è stato ottenuto un certo risultato; ad esempio, l’automobile non funziona e la porto a riparare: pagherò il meccanico solo se me la restituisce funzionante; questo è il risultato che lui si impegna, per la natura stessa del suo lavoro, a garantirmi;
  2. obbligazione di mezzi: è da considerarsi assolta se sono state adottate tutte le ragionevoli misure per ottenere un certo risultato, a prescindere dal fatto che questo sia stato raggiunto; tipica obbligazione di mezzi è quella derivante da lavoro subordinato: il lavoratore è da considerarsi solvente se ha prestato al principale il proprio tempo e la propria opera con la dovuta diligenza, anche se poi non sono stati raggiunti i risultati sperati.

Da un punto di vista pratico è piuttosto evidente come quello che conta siano i risultati, per cui la distinzione sembra un mero esercizio accademico, una di quelle masturbazioni cerebrali che ho sempre attribuito, dal basso dei miei preconcetti, ai giuristi; non me ne volere, so di muovermi in fondo al solco scavato dalla mia avversione per la materia.

debito

Poi mi sono chiesto: di che natura sono le obbligazioni che assumo nei confronti del creditore più importante, cioè me stesso? Devo limitarmi a considerare i soli risultati, oppure posso dirmi solvente nella misura in cui ho messo il massimo dell’impegno in ciò che sto facendo?

Dalla mia affermazione precedente sembrerei propendere per la prima opzione, ed in effetti fino a poco tempo fa era così; poi mi sono convinto di una cosa: i risultati non dipendono solo da ciò che facciamo. Basarsi unicamente sul risultato conduce inevitabilmente alla frustrazione e non ha alcuna utilità: alla fine ci scoraggia e ci fa mirare in basso per vincere facile.

Ad esempio: io scrivo un libro, ci metto il massimo dell’impegno, curo con attenzione i particolari, non lascio nulla al caso. Diventerà automaticamente un best seller? No di certo, perché sono infinite le variabili, al di fuori del mio controllo, che influenzeranno tale risultato. Se dovessi valutare l’opportunità di impegnarmi con me stesso nella scrittura di un’opera che venda milioni di copie con ogni probabilità nemmeno inizierei, sapendo già a priori di avere un’alta probabilità di rivelarmi insolvente.

Il giusto compromesso diventa allora: puntare in alto, ma non avere la pretesa di centrare il bersaglio. Mirare al risultato, ma concentrarsi sui mezzi.

Ritenersi soddisfatti se siamo riusciti a fare del nostro meglio, a prescindere da ciò che si ottiene. Finiamola di essere usurai di noi stessi, se eliminiamo la stretta creditizia ci verrà più naturale porci obiettivi ambiziosi e magari, perché no? Raggiungerli!

L’inversione dello strumento


La linea guida di questo blog vuole mettere in guardia il lettore dai solchi delle sue abitudini mentali; la porto avanti con tale convinzione che mi sono reso conto di correre il rischio di essere frainteso, e voglio ora sgomberare il campo da eventuali equivoci.

Mi ha portato a questa riflessione un’amica osservando, pur se in un contesto completamente differente, come il combattere le nostre abitudini finisca il più delle volte col sostituirne una con un’altra. E allora mi sono chiesto: perché accade ciò? E soprattutto: è davvero un male che accada?

Pensa un attimo a come sarebbe la tua vita senza automatismi: per ogni piccolo gesto da compiere, il tuo cervello si troverebbe impegnato in innumerevoli decisioni: è meglio che prenda prima il barattolo del caffè o il latte dal frigo? E prima ancora: stamattina faccio colazione? E prima ancora: è meglio spegnere la sveglia con la mano destra o con la sinistra?

Ti renderai condo che una situazione del genere è da manicomio: ti ritroveresti già spossato prima ancora di arrivare sul posto di lavoro.

Quindi l’operato del nostro cervelletto è utile. E allora perché scriverne tanto?

Ci ho riflettuto su, e sono giunto a questa conclusione: l’automatismo è uno strumento che ci aiuta a raggiungere determinati obiettivi in modo più o meno efficace; in sé è dunque molto utile. Non va demonizzato.

Il problema sorge quando da strumento si trasforma in obiettivo.

Quando un’abitudine, che si è consolidata a causa della sua ripetizione, ti costringe a compiere gesti privi di scopo se non quello di reiterare un comportamento, lì si crea la distorsione. E la mancanza di consapevolezza di tutto ciò garantisce il perdurare della situazione e ne costituisce un’aggravante.Evolution-Of-Robot

Quante volte senti dire da persone di esperienza che una determinata attività “si fa così!”? Ma si fa così per motivi di opportunità, o perché si è rivelato utile in passato e a furia di farlo ci si è abituati?

Credo sia questo il criterio con cui discriminare: l’abitudine, il solco, è uno strumento che l’evoluzione ha sviluppato in noi perché è vantaggioso, sta a noi capire quando ci sta prendendo la mano ed evitare che accada.

Per analogia: il telefono e Internet sono strumenti di comunicazione utilissimi; ma nel momento in cui ne diventi schiavo e li usi solo per il piacere di farlo (o perché senti una pulsione che ti spinge a farlo), in quel momento diventano dei bisogni: l’inversione è avvenuta.

Se ne sei consapevole, continua a non esserci nulla di male.

Se ne sei consapevole.

L’attraversamento del torrente


Ti trovi sulla sponda di un torrente, devi attraversarlo. Di fronte a te le pietre che emergono dall’acqua creano svariati percorsi, che puoi scegliere per passare all’altra sponda senza bagnarti i piedi.

Muovi un passo e lo appoggi saldamente sulla prima pietra; per la successiva hai due alternative: quella di destra o di sinistra? Sinistra, ti piace di più; sembra più stabile. Avanzi. Adesso puoi scegliere fra tre pietre: una piccola piccola, ma subito dopo il passaggio sembra più agevole; una grande e piatta, ma sembra portare ad un vicolo cieco; una che è una sorta di via di mezzo: nel dubbio prendi quest’ultima.

Prosegui così fino a metà del guado; ad un certo punto la pietra che hai di fronte è piuttosto traballante; provi a mettere il piede, ma si muove troppo, rischi di bagnarti. Allora vedi poco lontano un bastone portato dalla corrente che si è incastrato sul fondo; lo raccogli per usarlo come appoggio ma niente da fare, è mezzo marcio e si rompe appena provi a caricare il peso.

Tenti di stabilizzare la pietra traballante usandone altre più piccole, ma invano. Provi a mettere le mani in acqua e ad avanzare gattonando, assumi così una posizione piuttosto ridicola ma per fortuna nessuno sta osservando. Ad ogni modo il tuo equilibrio precario suggerisce di trovare un’altra soluzione.

Ad un certo punto di rendi conto che sono dieci minuti buoni che ti stai accanendo per trovare una risposta a questo problema, perdendo di vista l’obiettivo iniziale, che era attraversare il torrente. Ti sei intestardito a tal punto con quella pietra poco collaborativa, da perdere completamente la bussola. Tu non devi oltrepassare quella pietra, tu devi attraversare il torrente. Probabilmente basterebbe tornare indietro all’ultimo ‘bivio’ e scegliere una direzione diversa.

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Ma questo implica ammettere un errore, dichiararsi sconfitto in una battaglia. Finché non troverai il coraggio di farlo rimarrai lì, alla ricerca di soluzioni improbabili.

Alla fine ti decidi: dietro front, si cambia approccio. La nuova strada sembra più promettente, ti stai avvicinando alla sponda opposta. Ma ecco un altro problema: l’unica pietra che hai ora di fronte è traballante, se appoggi tutto il tuo peso finirai sicuramente in acqua. E qui passi un altro buon quarto d’ora a scervellarti. Devi tornare nuovamente indietro?

Poi rifletti: quella pietra si ribalta se appoggi tutto il tuo peso: ma facendo un passo svelto svelto, quasi di corsa, e proiettandoti sulla pietra immediatamente successiva, se anche quella che hai di fronte si rovesciasse ti lascerebbe comunque il tempo necessario per passare oltre senza bagnarti… trovi il coraggio, fai un rapido guizzo e scopri che è proprio così. E arrivi finalmente all’altra sponda.

Qui ti fermi a riflettere sulla tua esperienza, e giungi alle seguenti tre importanti conclusioni:

  1. devi imparare a distinguere gli obiettivi intermedi (strumentali) da quelli finali. Questi ultimi non vanno mai persi di vista, per evitare di sprecare tempo in questioni di scarsa importanza;
  2. non occorre essere nel giusto ad ogni passo che fai, l’importante è esserlo alla fine. Compiere un passo falso o sub-ottimale nell’immediato potrebbe anche rivelarsi utile nel lungo periodo;
  3. hai dimenticato lo zaino con i documenti sulla sponda di partenza, dovrai tornare indietro a riprenderlo.