Mi trovo nella sala delle feste di un lussuoso albergo.
Attorno a me molte persone, parlano e scherzano fra loro; una calda musica swing avvolge il loro vociare.
La sensazione nasce impercettibile, poi si fa più insistente: qualcosa non va, provo a interagire con loro ma sembrano non accorgersi di me.
Un brivido sale lungo la mia schiena, accompagnando il terribile sospetto che muta presto in convinzione.
Non mi vedono perché sono morto! Lo sono sempre stato, ma non lo sapevo.
La subitanea presa di coscienza cambia la mia percezione, la musica scema, uno ad uno i personaggi attorno a me si dissolvono, lasciandomi solo nel silenzio surreale di quella stanza enorme.
Un vago terrore misto a un pesante senso di solitudine si impossessano di me.
Sono morto, e sono solo: ecco ciò che mi sono sempre rifiutato di vedere.
La materia che ci circonda, e di cui noi stessi siamo costituiti, è tale solo perché siamo in presenza di bassi livelli di energia; si teorizza che all’epoca del Big Bang esistesse un turbolento plasma di quark nel quale non si trovavano particelle di materia (protoni, neutroni elettroni o addirittura atomi) per via delle alte energie.
è un po’ come dire, metaforicamente, che ovunque era vapore, non c’era acqua né tantomeno ghiaccio a causa delle alte temperature; il tutto traslato alle particelle subatomiche.
La separazione è dunque un fatto di energia; basse energie portano ad aggregazione di grumi in posti ben localizzati, grumi che difendono a spada tratta la loro individualità, alte energie conducono a dissoluzione e diffusione nell’ovunque.
Mi viene spontaneo applicare questa immagine a quella particolare forma di aggregazione che sono i concetti, gli schemi mentali: idee che si raggruppano attorno a centri di gravità.
Siamo forse così aggrappati alle nostre convinzioni solo perché abbiamo bassi livelli di energia mentale?
Che ne sarebbe del nostro concetto di famiglia, patria, sicurezza economica, salute… se la nostra temperatura psichica aumentasse?
Che ne sarebbe dell’immagine cha abbiamo di noi?
Dissoluzione e confusione nell’ambiente indistinto circostante, ritorno al plasma primordiale.
Non se ne può parlare esplicitamente, tant’è che si usano locuzioni come ‘se ne è andato’, ‘è scomparso’ (da ragazzino pensavo davvero che non lo trovassero più), ‘ci ha lasciato’ e così via.
A dispetto della gioia che ogni credente dovrebbe provare per la dipartita (ecco, ci sono cascato di nuovo!) di una persona vicina, perché si ricongiunge finalmente con Dio, assistiamo a tragedie e disperazione. Io non mi comporterei diversamente, beninteso: però ho l’attenuante di non ostentarmi cattolico osservante.
La nostra paura si estende ben oltre la morte fisica, perché temiamo anche quella che può colpire la nostra immagine sociale: come altro definire la vergogna ed il timore del giudizio altrui?
Questa paura ci porta alla rimozione del fenomeno. Sappiamo che un giorno moriremo, ma facciamo finta che non sia così; per questo, quando il fulmine ci colpisce da vicino, il trauma è ancor più manifesto.
Rimuovere l’idea che un giorno moriremo, ma col timore latente che questo possa accadere, ha un effetto ben preciso sulle nostre vite: ci comportiamo come se fossimo già defunti; insomma, per paura di morire (fisicamente o anche figurativamente, ‘perdendo la faccia’) finiamo col rinunciare a vivere.
Ti faccio qualche esempio? E sia.
Oggi è una stupenda giornata di sole, posso decidere se andare a lavoro oppure prendere permesso e andare in spiaggia con le persone che amo: alla fine l’abitudine, il senso del dovere, il timore di ripercussioni o quant’altro, mi porteranno triste e pieno di rimpianti in ufficio; ma se sapessi per certo che mi rimangono pochi giorni di vita, mi comporterei allo stesso modo?
Oppure: adoro cantare, e stasera c’è uno spettacolo in piazza nel quale ciascuno può esibirsi sul palco; però ho vergogna, temo di fare brutte figure; se sapessi di morire di lì a poco, mi importerebbe più qualcosa dell’opinione altrui?
Ancora: nell’azienda in cui lavoro tira brutta aria, si parla di riduzione del personale; vivo con l’ansia del licenziamento, tuttavia non cerco un altro lavoro perché ho paura di perdere dei privilegi. Se sapessi di essere condannato, mi preoccuperei davvero per simili sciocchezze?
Potrei andare avanti all’infinito, il succo è sempre lo stesso.
Il punto è che io sono condannato, ma mi comporto come se così non fosse! Un mese, un anno, dieci anni, cinquanta, cambia forse qualcosa? Se l’idea della morte, lungi dall’essere un tabù da rimuovere, fosse costantemente presente in me, vivrei ogni attimo con pienezza, con la leggerezza di chi non ha nulla da perdere.
Insomma, vivrei!
Invece, per paura di morire, mi comporto come se lo fossi di già.
E’ il paradosso dello yin e dello yang: solo lasciando entrare la morte nelle nostre vite possiamo davvero vivere.
Mio padre è morto quando avevo tredici anni; di quell’evento è rimasto scolpito nella mia memoria un episodio che voglio ora condividere con te.
Un assolato pomeriggio di settembre, a pochi giorni dalla data dell’improvviso decesso, io cercavo di tirarmi fuori dal dolore che mi attanagliava da ogni parte, circondato da persone in preda alla disperazione che, per dimostrarsi partecipi al dramma, non facevano che ricordarmi di essere triste. Non avevo bisogno del loro aiuto, in ogni caso.
Quel giorno la casa era piena di gente che accorreva a sostenere mia madre, che piangeva in continuazione, ed io ero in cortile con un amico che provavo a distrarmi; decidemmo di dedicarci al gioco che allora eravamo soliti fare: uno dei due intonava un motivo, e l’altro doveva dire qual era il titolo della canzone.
Fu il mio turno di intonare qualche nota, e proprio in quel mentre passava vicino a noi una vecchia comare che veniva in visita al capezzale, la quale, sentendomi, ebbe la saggezza di sussurrare con parole dal contenuto tonante: “silenzio, non si canta, è morta una persona”.
Mi sentii redarguito, mi sentii una brutta persona: cantavo e ostentavo allegria a pochi giorni dal decesso di mio padre.
Io avrei voluto che andassero tutti via, non avevo bisogno della loro presenza, del loro cordoglio: avrei solo voluto tornare alla vita di tutti i giorni, ed era proprio ciò che avevo maldestramente tentato di fare in quel pomeriggio.
Avevo bisogno di allontanare la tristezza, non di alimentarla.
Da allora mi è rimasta dentro l’assurdità di certi atteggiamenti, ed in questo giorno di lutto per il crollo del ponte a Genova non posso che riportare alla mente quel ricordo, che testimonia quanto sia stupidamente dannosa la nostra morale.
Già, perché da oggi e per due giorni non ci saranno feste, eventi, manifestazioni: in alcuni casi per ragioni di ordine pratico, ma nella stragrande maggioranza degli altri per solidarietà al dolore delle vittime; come dire: visto che voi siete infelici, aggiungiamo alla vostra infelicità pure la nostra, perché la vostra pare poca, e nel caso decidiate di tirarvi fuori dal vostro stato di disperazione cercando uno svago, beh abbandonate pure l’idea: sarebbe immorale, in questi giorni è d’obbligo la tristezza. In questi giorni essere felici è pubblicamente deprecato.
Per non parlare poi di quelli che approfittano ipocritamente dell’occasione per sfogare la loro frustrazione facendo polemica, cercando colpevoli, riempiendosi la bocca di altisonanti parole come ‘tragedia annunciata’.
Mi chiedo come si possa continuare a ragionare in questo modo, come si possa continuare ad abbandonarsi in modo più o meno velato all’autocommiserazione e al piagnucolante stato di dolore.
Per quel poco che vale l’esperienza di un ragazzino tredicenne non ancora prigioniero dei precetti dettati dal retto comportamento del mondo adulto, posso affermare questo: le persone in difficoltà hanno bisogno di energia positiva, e non che si riversi su di loro la negatività che è in noi.
Tutto questo ti pare cinico? No, il cinismo è indifferenza verso il dolore degli altri, ed io non sono indifferente: credo solo che ci siano modi più sani di mostrarci solidali; a chi cade da cavallo va offerta una mano per risalire, accasciarsi lamentosi accanto a lui non giova a nessuno, perché non fa che aggiungere dolore al dolore: e quest’ultimo atteggiamento non è cinismo, ma sadismo o masochismo mascherati.