Esiste a mio avviso una profonda differenza fra valori morali e moralismo.
I primi sono i punti di riferimento che guidano la mia condotta, i criteri attraverso i quali cerco di discernere ciò che è funzionale, per me, in un dato contesto.
Dico ‘per me’ in senso lato, perché è evidente che un comportamento che danneggia il prossimo o più in generale l’ambiente si rifletterà, prima o poi, sulla mia persona; di conseguenza, anche in un quadro di atteggiamento puramente egoistico, non posso esimermi dal tenere in considerazione le esigenze dell’ambiente che mi circonda che, di fatto, costituisce un altro aspetto di me.
Il moralismo invece è di tutt’altra natura: nasce quando ho la pretesa di imporre i miei valori al prossimo, assumendo che abbiano valenza assoluta; come se potessi arrogarmi il diritto di legiferare sulle vite altrui.
Ed è a questo proposito, moralista di turno, che ti invito a riflettere in totale onestà intellettuale, soprattutto nei tuoi confronti: nel momento in cui critichi la mia condotta, giudicandola come amorale o disdicevole, sei proprio sicuro che ti stai preoccupando dei contenuti?
Non sarà forse che, più che il mio comportamento in sé, ciò che davvero ti infastidisce è il fatto che anche tu avresti voluto fare la stessa cosa, che anche tu avresti potuto fare la stessa cosa, e non l’hai fatta?
Insomma, non è che il vero motivo per cui ce l’hai con me è che faccio da specchio al lato oscuro che è in te?
Se ne stava in disparte, in un angolo della cucina, tutta sola. Un sottilissimo e appena visibile filo di ragnatela univa l’estremità del manico al suo corpo metallico dalla vita stretta.
Lui si avvicinò a lei con circospezione, e con tutta la delicatezza di cui era capace le chiese: “Perché non ti unisci a noi? La colazione non è la stessa senza di te, mi hanno detto che sei tu quella che dà la carica!”
Lo guardò lasciandosi andare ad un sospiro; le faceva un immenso piacere quell’invito, che sapeva però di non dover accettare: non voleva fare ancora del male.
“Mi spiace, non posso. Tu sei nuovo e non puoi sapere, ma non succedono cose piacevoli quando mi scaldo.”
“Davvero? E che succede mai? E dai, una colazione senza caffè è triste, priva di energia! C’è bisogno di te per iniziare la giornata con grinta!”
Aveva difficoltà a ritornare a quei momenti di dolore, ma chissà perché quell’incontro fece leva sulla sua voglia di parlare, di aprirsi. Aveva però bisogno ancora di una spintarella, che provò a invitare.
“Mi piacerebbe molto stare con voi, ma l’ultima volta che ho partecipato sono successi fatti molto spiacevoli. Dentro di me ci sono brutte cose, cose che è meglio non vedere. Cose che possono fare del male. Faresti meglio a starmi lontano.”
Lui era molto giovane, impregnato di quell’ardore e curiosità che rendono talvolta spavaldi e incoscienti.
“E che sarà mai! Vuoi raccontarmi l’accaduto? Sono curioso di conoscere ciò che hai dentro!”
“Io…”
Era in bilico fra il dire e non dire; fra la voglia di farlo e il giudizio sull’inopportunità di svelarsi così ad uno sconosciuto. Vinse la prima.
“C’è una forza mostruosa dentro me, una forza dirompente. Finché non mi scaldo, tutto è tranquillo. Ma quando mi scaldo questa forza cresce a dismisura, e per quanto io cerchi di trattenerla ad un certo punto non ce la faccio più. E allora esplodo in un boato terrificante, la mia parte superiore si stacca volando contro il soffitto e il mio calore si propaga con violenza tutto attorno, e faccio del male, molto male! Faccio del male a chi mi sta vicino! Per questo sarebbe meglio se tu stessi alla larga.”
“Wow! Sei potente! Anche io mi scaldo ma non sono capace di nulla del genere. E quante volte è successo?”
Si sentì spiazzata da quella domanda inattesa.
“Quante… quante volte? Beh… una volta.”
“Una sola volta? E prima di quella volta che succedeva?”
“Prima ero meno forte, non riuscivo a trattenere e così… ciò che avevo dentro fluiva fuori, un orribile liquido nero, bollente, accompagnato da un borbottio fastidioso.”
“Ma tu sai che sei proprio una sciocca?”
“Perché?”
“Senti, io sono giovane e inesperto e non so nulla di te, non conosco nulla del mondo. Ma posso dirti ciò che sento, ora: sento che ciò che hai dentro non è né bello né brutto, e non può fare del male. A meno che tu non decida di trattenerlo: allora sì, che diventa dannoso!
Ma questo non accade solo a te, accade a tutti: nasciamo perfetti, sai? Sono i giudizi, l’educazione, la morale a convincerci di non esserlo. E allora tratteniamo, sopprimiamo delle parti di noi, le teniamo nascoste perché abbiamo paura di non essere accettati, di non andare bene. E queste parti represse, che invece esistono e vogliono attenzione, ad un certo punto iniziano a gridare. Solo allora diventano dannose.
Ma la loro dannosità non è intrinseca, non credi? Se fossero lasciate libere di esprimersi, potrebbero donare la loro utilità al mondo. Dammi retta, siamo proprio sciocchi a comportarci così.
Datti un’altra possibilità, lasciati andare, non trattenere: vedrai che non farai del male a nessuno, e anzi l’energia che hai dentro aiuterà qualcuno ad affrontare meglio la giornata!”
Non pareva molto convinta, ma qualcosa si era mosso. Aveva trovato qualcuno che la accettava per quello che era e non aveva paura di lei. Forse era questa la via? Forse tutto il male che sentiva di avere dentro era per davvero solo causato dall’oppressione e dal giudizio?
Di una cosa era certa: aveva trovato un nuovo significato, del tutto inatteso e fino ad allora sconosciuto, per la parola amore.
L’educazione ci insegna che è bene essere altruisti. L’istinto di sopravvivenza ci spinge verso l’egoismo. Il giusto sta nel mezzo. Bene, ma che bella ricetta! Il problema è che si tratta di un ragionamento piuttosto superficiale, intriso di moralismi e poco aderente a ciò che ciascuno, nel proprio intimo, sente.
Perché diciamocelo, alla fine di un serio percorso altruistico arrivi al punto in cui vorresti prendere le teste di tutti quelli che ti circondano, metterle nel sacchetto della tombola e shakerarle per bene.
Il famoso economista Adam Smith era fautore del principio della mano invisibile, secondo il quale ogni sistema economico deve essere lasciato a sé stesso, ed ogni operatore può agire al suo interno spinto unicamente dal proprio interesse: ciascuno per sé e Dio per tutti; questo garantirebbe il raggiungimento spontaneo di un punto di equilibrio che si stabilizza su una situazione ottimale per tutti.
Peccato che i presupposti di questa teoria si basino sulla libera circolazione dei fattori produttivi (capitale e lavoro) e soprattutto delle informazioni: tutto questo nella pratica è utopistico, e la realtà dei fatti ci mette di fronte ad enormi disparità nella distribuzione del reddito e del benessere. Teoria interessante in linea di principio, ma non applicabile nel quotidiano.
Esistono d’altra parte punti di vista che affermano che il vero altruismo non esiste, in quanto ogni forma di aiuto verso il prossimo nasconderebbe in realtà un qualche tornaconto, anche solo di tipo morale: per esempio il rafforzamento dell’autostima in quanto persona buona, o l’appagamento dell’esigenza di sentirsi utili, di avere uno scopo nella vita, o semplicemente di non sentirsi divorato dai sensi di colpa. Queste forme di egoismo mascherate, in quanto tali, sarebbero di gran lunga peggiori, perché subdole e nascoste.
Ma fin qui stiamo usando il metro del giudizio: cos’è bene? Cos’è male? A mio avviso questo registro non porta da nessuna parte; proviamo ad essere pratici e ad applicare il buon senso.
Una verità a mio avviso incontrovertibile è che se non stiamo bene noi per primi, non possiamo essere in grado di aiutare gli altri. Le stesse procedure di emergenza lo suggeriscono: per prima cosa mettere in salvo sé stessi, quindi adoperarsi per gli altri.
A questo punto l’educazione religiosa che hai ricevuto inizierà a parlare attraverso di te, prorompendo con un: ma in base a questo principio ognuno può fare ciò che gli pare, anche rubare o commettere altri delitti, se questo lo fa stare bene. Bisognerà pur dare delle regole, altrimenti ci ritroviamo nel Far West!
Ma le regole ci riportano ad una morale esterna, condivisa quanto vuoi, ma pur sempre arbitraria e non necessariamente in linea con quella che è la vera essenza di ciascuno. Il rischio è quello di un’invasione della sfera privata dell’individuo, riempiendogli la testa di dogmi e precetti spesso obsoleti e talvolta assurdi. Quello che sta accadendo nella società odierna.
Come conciliare quest’apparente paradosso, dunque?
Io sono senza dubbio un fautore del sano egoismo: non ho la presunzione di sapere cosa è giusto per un altro individuo, tendenzialmente cerco di lasciarlo libero di fare ciò che ritiene più opportuno, e non ammetto che mi si venga a dire ciò che dovrei o non dovrei fare.
E di solito non rubo. Cosa me lo impedisce? Dopotutto mi procurerebbe del benessere.
E qui entra in gioco un fattore misconosciuto nella cultura occidentale ma ben noto in quella orientale: yin e yang, la complementarietà degli opposti, l’unitarietà del tutto.
Come ho già sostenuto in questo articolo, la pretesa separazione fra noi e resto del mondo è illusoria, perché tutto è uno! Il sistema universo non è scindibile in una lista di componenti fra loro separate, perché è olistico, come ogni sistema che si rispetti. La separazione che vediamo deriva da esigenze pratiche della mente, ma non corrisponde ad alcunché di reale; è un modello di comodo.
Lo so, questo punta di vista proprio non ti va giù… ma a prescindere che tu sia d’accordo o meno, pensa a dove potrebbe condurre se lo si accettasse: se tutto è uno, che senso ha parlare di altruismo ed egoismo? Non avrebbe alcuna utilità infliggere un torto arbitrario a qualcuno, perché lo infliggerei a me stesso! Pensa alla potenza di questo argomento, e quanti nodi è in grado di sciogliere.
Ha senso farti un taglio ad un braccio? Beh in linea di principio no… ma se applico una piccola incisione per far fuoriuscire un corpo estraneo, allora sì. E se in luogo del braccio, mettiamo un altro individuo, ecco che in certi casi può aver senso andare contro la cosiddetta morale, e procurargli un apparente danno in nome del proprio benessere (ehi tu, moralista dal posto fisso, lo sai che lo stai sottraendo ad un povero disoccupato vero? Saresti dunque disposto a cederglielo, in virtù dei tuoi sani principi?)
Mi dirai che questa visione è arbitraria e può essere facilmente strumentalizzata per fare ciò che si vuole; vero, ma resta il fatto che le tue azioni avranno un risultato, indipendentemente da come riesci a giustificarle; e che se tutto è uno, questo risultato riguarderà inevitabilmente pure te.
Le leggi degli uomini si possono eludere, ma quelle di natura sono di ben altro tipo.
L’unico modo che hai per evitare delusioni è quello di non avere aspettative. Soprattutto nelle relazioni interpersonali.
Già, perché se ci rifletti, non hai alcuna valida ragione per pretendere che il tuo prossimo si comporti conformemente a quanto vorresti. Certo, magari lo farà, e ne sarai felice… ma non è questo il punto.
Il punto è che non puoi aspettarti che si adegui ai tuoi desideri, né più né meno di quanto puoi aspettarti che i giorni di sole saltino fuori puntuali nei weekend e nei giorni di festa. Non puoi piegare la libertà altrui ai tuoi voleri.
Beh, adesso mi dirai, che fregatura, siamo alle solite, gira che ti rigira la colpa è sempre mia dunque…
Hai detto… colpa?
Bravo, hai toccato un punto interessante. Ora ti dico dove secondo me sta il bello della faccenda.
Cosa sono in fondo i sensi di colpa? Beh, detto in soldoni, io mi sento in colpa quando ho fatto qualcosa che non avrei dovuto fare; oppure quando non ho fatto qualcosa che avrei invece dovuto fare.
Ma un momento… avrei dovuto… in base a quale criterio? Chi stabilisce la regola?
Le aspettative altrui, mi sembra ovvio! Aspettative del singolo, o aspettative collettive: leggi, morale, religione, eccetera. Ci si aspetta da me un comportamento, ed io non l’ho tenuto. Cattivo!
Ma una volta che abbraccio il principio secondo il quale non posso aspettarmi alcunché dagli altri, posso legittimamente e simmetricamente applicarlo anche a loro.
Io non mi aspetto alcunché da voi, ma voi non aspettatevi alcunché da me, ok? E se lo fate… beh, peggio per voi… perché mai dovrei assumermi il costo delle vostre mal poste aspettative con inutili sensi di colpa? Se ci sarà da pagare per le mie mancanze lo farò, rimedierò ai miei errori… ma per favore abbiate la decenza di non chiedermi di sentirmi in colpa!
Come dice giustamente l’avvocato Milton, i sensi di colpa sono come un sacco di mattoni: un’inutile zavorra da scaricare quanto prima!
In questo articolo voglio stimolare una riflessione sulla distinzione fra queste due parole, e parlare di come la prima rappresenti una distorsione della seconda, ponendosi rispetto ad essa, per dirla in termini musicali, su di un’ottava inferiore.
Supponiamo io dica: “il tuo maglione è rosso”. Constatazione. Sto osservando uno stato di cose, dal mio punto di vista beninteso: stanti gli strumenti di percezione a mia disposizione, posso constatare che il maglione ha quel colore.
Adesso invece dico: “hai fatto un buon lavoro, sei stato bravo”. Giudizio. Qui non solo constato un fatto, ma mi spingo oltre: mi sbilancio esprimendo la mia opinione sul fatto osservato, ed in qualche modo mi schiero, prendo posizione.
Nell’esempio riportato la differenza è piuttosto evidente; sembra addirittura che le due parole non siano neppure lontanamente imparentate.
Eppure accade spesso che le cose non stiano così, ed i due livelli si mischino portando a conseguenze non sempre vantaggiose. Tornando all’esempio precedente, potrei dire: “ma il tuo maglione è rosso!”, utilizzando un tono che, accompagnato dal contesto, sottintende: “siamo ad un funerale, non potevi vestirti in modo più sobrio? Sei decisamente irriverente!”
Per sgomberare il campo da equivoci, ti dico subito che a mio avviso il giudizio è di per sé negativo (ooops… giudizio! Scusa, volevo dire: poco utile); direttamente o indirettamente presuppone una morale, e la morale è sempre troppo soggettiva e legata a contesti socio temporali per aiutare a capire la realtà.
Non a caso, le moderne tecniche di problem solving si avvalgono proprio della sospensione del giudizio al fine di non farsi trarre in inganno dai preconcetti. Ma questa è un’altra storia.
Ciò che voglio sottolineare è come troppo spesso, nelle relazioni interpersonali ma non solo, giudichiamo invece di constatare. Siamo proprio sicuri di essere nella posizione di arrogarci tale diritto?
Ma l’aspetto peggiore è il duale della questione: poiché siamo così abituati a comportarci in tal modo, tendiamo ad osservare negli altri un atteggiamento analogo, ed ecco che ravvisiamo giudizi anche laddove non ve ne sono, e ci sentiamo in continuazione giudicati; oppure temiamo di esserlo, e per questo evitiamo di metterci in gioco.
Questo mi porta ad una sottile interpretazione del passo biblico:
Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati. (Matteo 7,1-2)
che, a ben vedere, non necessariamente deve essere considerato come un mero meccanismo di premi e punizioni messo in atto da una qualche divinità trascendente.
Non ci sono entità giudicanti esterne, ma sei tu stesso che, a causa della propensione al giudizio, finisci col sentirti a tua volta valutato dagli altri, a prescindere dal fatto che lo facciano realmente. Come ha giustamente osservato Salvatore Brizzi, Gesù è stato un fine psicologo.
Alla luce di ciò, lo sforzo che mi propongo da ora in avanti è pertanto quello di limitarmi ai fatti, ogniqualvolta mi trovi a fare delle valutazioni, senza andare oltre il discernimento di ciò che è utile da ciò che non lo è.
E su quest’ultimo punto direi che c’è materiale sufficiente per almeno un altro articolo.
Sono appena tornato da un giro in bici, è il momento di un po’ di stretching; in posizione eretta, piego la gamba destra e afferro il piede dietro la schiena con entrambe le mani. Sono un po’ affaticato, ho qualche difficoltà a stare in equilibrio, poi ricordo il suggerimento che qualcuno mi ha dato in passato: fissa un punto fermo di fronte a te e ancorati ad esso con lo sguardo.
Funziona! L’equilibrio migliora, riesco a stare nella posizione per almeno i 30 secondi canonici dell’allungamento, ma potrei benissimo andare oltre. Cambio gamba e applico la stessa tecnica, funziona anche con la sinistra.
Nel fare questo rifletto: è ovvio, il cervello per mandare gli impulsi ai muscoli e contrastare la forza di gravità ha bisogno di indicazioni affidabili; ogni minimo e impercettibile scostamento dal punto di riferimento è sufficiente ad inviare le correzioni della posizione. Se però il riferimento non è fisso, i segnali al cervello non sono coerenti ed esso fatica ad organizzare le indicazioni da inviare ai muscoli, perché gli si cambiano in continuazione le carte in tavola.
Poi mi accorgo che questo principio ha validità generale: anche nella vita abbiamo bisogno di punti di riferimento, se vogliamo condurla in modo equilibrato. Se questi cambiano in continuazione, noi ci adeguiamo ad essi in modo scoordinato e produciamo una marmellata di comportamenti privi di filo conduttore.
Senza riferimenti fissi ogni nostra scelta, la nostra morale, la stessa distinzione fra bene e male, perdono di significato. E allora ho capito che forse è il caso di provare ad individuarlo, questo punto fermo, per gettare finalmente l’ancora ed abbandonare questa navigazione a vista.
Se sei nella mia stessa situazione, vuoi provarci con me?