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Imparare, rispettare le regole, recitare


Ho notato un curioso filo conduttore che accomuna tutte queste attività, almeno per quella che è stata finora la mia esperienza.

Partiamo dal processo di apprendimento: il mio metodo, che con una punta di presunzione reputo piuttosto efficace (nel senso che mi sento soddisfatto dei risultati a cui mi ha portato nel tempo), segue tre fasi:

  1. accettazione incondizionata di ciò che sto imparando; cerco di non metterlo in alcun modo in discussione, incamero le informazioni senza alcun giudizio, per quanto mi è possibile, e le archivio provvisoriamente in un angolo della memoria
  2. riflessione critica su quanto appena introiettato: dove mi porta tutto questo? Se parto dall’ipotesi che sia interamente vero, che implicazioni ne seguono? Con quali altre mie conoscenze entra in contraddizione?
  3. integrazione di quanto appreso con la conoscenza pregressa; eventuali contraddizioni sono sanabili con una diversa interpretazione dei concetti imparati? Oppure con una rivisitazione di quelli preesistenti? Alcune idee si possono tenere, mentre altre vanno rigettate? Oppure sono valide solo sotto certe condizioni? La portata delle nuove informazioni è così dirompente da mettere in discussione le mie convinzioni pregresse?

Ho notato che quando mi comporto frettolosamente, saltando di fatto la prima fase ed entrando subito in quella giudicante, difficilmente riesco a imparare qualcosa di nuovo; i miei preconcetti fanno da barriera ed impediscono alla conoscenza di evolvere.

Invece è importante dare la possibilità al nuovo di irrompere nella sua totalità, senza filtri, perché un giudizio troppo prematuro può far perdere elementi preziosi: l’epilogo di un romanzo può cambiare completamente il senso di tutta la narrazione, e se mi fermo ai primi capitoli resterò con un’idea sbagliata del racconto.

Ma è d’altra parte anche fondamentale sottoporre a vaglio critico quanto incamerato, per non divenire schiavi di influenze dogmatiche.

Quindi: in prima battuta accettazione indiscriminata, senza scartare nulla; in ultima battuta, valutazione ragionata di quanto appreso e sua integrazione. Detto diversamente: ingoia tutto dopo aver ben masticato, ma poi digerisci per bene ed elimina il superfluo.

Che legame ha questo col rispetto delle regole? Beh, anch’esse vanno apprese, e bisogna per prima cosa imparare ad osservarle disciplinatamente. Le regole hanno una importante funzione sociale. Ma poi, una volta apprese, bisogna sottoporle a vaglio critico: questa regola è valida in generale, o ci sono casi in cui posso permettermi di disobbedirvi? Oppure è anacronistica e va cambiata?

Un esempio banale: la regola dice di tenere la destra mentre si è al volante, ma ci sono stati casi in cui, incrociando un altro veicolo in una stretta strada di montagna, è risultato più pratico, per la conformazione della carreggiata, accostare a sinistra e lasciare che il veicolo passasse alla mia destra. Mi fossi intestardito sulla regola, avrei costretto l’altro conducente ad una improbabile e inutile manovra.

Meglio poi stendere un velo pietoso (ma senza dimenticare!) su ciò a cui ha portato la cieca e ottusa osservanza delle regole ai tempi del fascismo.

Arriviamo alla recitazione: stesso discorso. Innanzitutto occorre imparare a menadito il copione, non ci sono santi. Ma poi, quando lo si padroneggia, lo si deve interpretare, e questo fa la differenza fra la recita a pappagallo e l’interpretazione che coinvolge il pubblico. Interpretare può voler anche dire cambiare, e talvolta è necessario, ad esempio perché il compagno ha dimenticato la battuta, oppure l’ha anticipata, e quindi occorre adattarsi in modo creativo alla situazione inattesa. Ehm… io su questo fronte mi trovo per ora nella fase del pappagallo, ma ci sto lavorando.

Detto questo, ti sarà certo capitato di osservare attorno a te persone che se ne infischiano delle regole e fanno ciò che gli pare impunemente. Che nervoso fanno venire, vero? Bene, sappi che i casi sono due: o sono pessimi attori che ancora non hanno imparato il copione a memoria, oppure sono dei novelli Dario Fo che si esibiscono nel loro ubriacante grammelot.

Ma in fondo, a te che importa di loro? Pensa a recitare la tua, di vita: è ora di finirla di fare lo spettatore, sei grande ormai.

Il gioco senza fine, ovvero le trappole della relazione


Immagina di fare il seguente gioco con un amico: ogni volta che comunicate, invece di dire ciò che avete in mente dovere usare la sua negazione. Ad esempio, invece di “Mi piace il tuo nuovo vestito”, potreste affermare “Oggi hai un vestito orrendo”, e via di seguito.

Ora, in base alle poche ma ferree regole che vi siete dati, diventa subito evidente come non sia possibile porre fine al gioco, perché nel momento in cui proponete “smettiamo”, state comunicando l’intento contrario.

Ma anche l’ingenuo contro tentativo di dire “continuiamo” non potrebbe porre fine al gioco, perché verrebbe inteso come una comunicazione fatta nel gioco, e non sul gioco. L’interlocutore lo prenderebbe come un’affermazione all’interno dello scambio di battute nel quale siete immersi, non come la proposta di una nuova regola che riguarda il gioco.

Detto più precisamente, per uscire dal gioco bisogna meta comunicare, ossia comunicare sulla comunicazione, ma le regole che vi siete dati non hanno specificato alcunché in proposito, e quindi vi trovate intrappolati in un paradosso.

Ti risulterà subito demenziale e accademica un situazione simile, e di fatto nella pratica non si verificherebbe mai perché, vista la sua semplicità, risulta facile “uscire” dalla simulazione e tornare alla “realtà”.

Ma rimaniamo ancora un poco nella teoria. Esistono tre possibilità per prevenire questa trappola:

  1. giocare usando una lingua e parlare del gioco usandone un’altra; in questo modo, dicendo di smettere, ad esempio, in inglese, potresti senza possibilità di fraintendimenti comunicare correttamente all’altro la tua vera intenzione
  2. stabilire un evento esterno che ponga fine al gioco (ad esempio un timer)
  3. fare ricorso ad una terza persona che non partecipa al gioco (come il punto precedente, ma soluzione maggiormente flessibile) che faciliti la meta comunicazione

Questo è un esempio alquanto teorico, però è illuminante perché il nostro cervello è un sistema mnesico modellante, ossia inferisce regole. Quando una relazione con una persona perdura per un certo tempo, o ha prospettiva di farlo, diventa utile per l’economia cerebrale modellare un protocollo di comunicazione.

Di fatto si vengono dunque a creare delle regole implicite, che aggiungono significato ai messaggi scambiati  senza bisogno di esplicitarlo.

E qui sta l’inghippo. Perché finché le cose vanno bene, lo scambio di messaggi è fluido e armonioso, e “lui (lei) mi capisce senza nemmeno bisogno che io parli”.

Ma quando le cose cambiano (e il mondo è un continuo divenire, difficilmente le condizioni iniziali perdurano per sempre), potrebbe essere necessario modificare il protocollo di comunicazione. Ma per farlo bisogna uscire dal sistema, peccato però che ci si è abituati ad usare regole, ormai ben rodate, che lavorano solo al suo interno.

Tornando alla metafora del gioco, ad un certo punto bisogna poter dire ‘smettiamo di giocare’, ma non si riesce a farlo!

Per questo motivo molte relazioni (di ogni tipo, non mi riferisco solo ai rapporti sentimentali: anche la relazione cliente/terapeuta, ad esempio, è affetta da queste dinamiche) tendono a cristallizzarsi in modelli ripetitivi che portano al logorio dei partecipanti, talvolta costringendoli ad uscire a forza dal gioco, non potendone modificare le regole dall’interno. Si tratta squisitamente di un problema di comunicazione: i protagonisti si trovano intrappolati nell’impossibilità di dirsi qualcosa di diverso dal solito.

Sempre alla luce del gioco presentato prima, l’intervento di un terzo (mediatore familiare per la coppia, supervisore per il counselor o il terapeuta) può aiutare il processo di meta comunicazione, agevolando le parti ad uscire dalla trappola in cui si sono rinchiuse.

Ancora una volta mi risulta evidente come per liberarsi sia necessario uscire dai modelli, andare al di là della regola. Il che non vuol dire violarla, perché questo significherebbe rimanere nel gioco, bensì trascenderla.

Cambiare gioco.

Riferimenti bibliografici:

Paul Watzlawick, Don D. Jackson, Beavin Janet Helmick – Pragmatica della comunicazione umana

Perché?


La mente razionale è in perenne ricerca di spiegazioni. Trovare le cause di ciò che succede tranquillizza, dà la sensazione di avere il controllo della situazione, come se questa conoscenza fosse strettamente collegata alle leve di comando.

In realtà si tratta di una conoscenza a posteriori, che nella migliore delle ipotesi spiega ciò che è accaduto ma non dice alcunché di ciò che accadrà: non è infatti per nulla scontato che gli eventi si ripeteranno nella stessa maniera in futuro.

Eppure noi ci crogioliamo in questa sicurezza illusoria. Ma la ricerca dei perché è un’abitudine parecchio insidiosa che dovrebbe farci sentire tutt’altro che al sicuro.

Il pericolo maggiore sta nel fatto che la ricerca dei perché ci lega al passato: crea delle regole, spesso implicite, che vincolano inesorabilmente, nell’immaginario, gli esiti futuri delle nostre azioni, o il nostro modo di essere rispetto a ciò che è stato.

Lasciami banalizzare con un esempio: se ho preso il mal di gola perché sono uscito in bici sotto la pioggia, e nella mia mente si consolida questa associazione fra causa ed effetto, in futuro eviterò di ripetere l’esperienza.

Ma l’uscita, che secondo la mia idea ha causato il male, è solo una delle possibili concause, mica l’unica: forse quel giorno avevo il sistema immunitario fragile, forse ho incrociato qualcuno che aveva appena starnutito nell’aria tutti i suoi bacilli, forse ho tenuto i capelli bagnati dopo la doccia… forse… forse…

Se prendo l’abitudine di aspettarmi che succeda l’evento B ogni volta che compio l’azione A, rischio di non fare mai A, o di farlo ripetutamente, a seconda che B sia o meno spiacevole. O peggio: se l’evento A, che si è verificato nella mia infanzia, è il perché di certi miei modi di essere, non arriverò mai a pensare di poter cambiare; se ad esempio sono timido perché da bambino ho avuto poche occasioni di interagire con gli altri, mi rassegnerò a rimanerlo per sempre.

Come già affrontato in un altro articolo, piuttosto che andare alla sterile ricerca di cause passate è molto meglio guardare ai possibili scopi futuri. I perché sono la causa prima della nostra burocrazia mentale: ognuno di questi elimina incertezza, ma scava un solco all’interno del quale si rischia di rimanere impantanati.

Le insidie della comfort zone.