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Il paradosso di Zenone


Ne esistono svariati, quello di cui voglio qui parlarti riguarda il movimento e argomenta che per spostarsi da un punto A ad un punto B, percorrendo un segmento di lunghezza finita, occorre per forza di cose passare per un punto intermedio, chiamiamolo C.

Ma prima di arrivare in C occorrerà passare per il punto intermedio che lo separa da A, chiamiamolo D. Prima di arrivare in D bisogna passare per il punto intermedio E, e così via all’infinito, perché questa iterazione si può operare un numero arbitrario di volte, ad libitum.

Ne consegue che prima di raggiungere B bisogna percorrere un numero infinito di segmenti sempre più piccoli di lunghezza finita, pertanto non si potrà mai raggiungere la meta: il movimento è, secondo questo modo di vedere, impossibile, perché la somma di infiniti pezzettini, per quanto piccoli, è un numero infinito.

L’evidenza dei fatti suggerisce il contrario, ed infatti parecchi anni dopo Newton e Leibniz sveleranno l’arcano con l’introduzione del calcolo infinitesimale: una somma infinita di segmenti sempre più piccoli può essere finita, se la “velocità” con cui si riducono i segmenti è tale da contrastare la “velocità” con cui il loro numero cresce.

Per fortuna in questo intervallo di tempo, durato secoli, nessuno si è sognato di rimanere immobile in attesa che un rinnovato impianto teorico rendesse possibile il movimento: forse perché in pochi erano a conoscenza del problema.

Ma non mi interessa qui tanto l’oggetto dell’argomentazione in sé, quanto le sue implicazioni pratiche: ovviamente nessuno è così folle da non muoversi solo perché un ragionamento logico afferma che non è possibile… ma l’assurdità, in questo caso specifico, è particolarmente evidente.

Nella realtà dei fatti osservo quotidianamente attorno a me immobilità di ogni genere, basate su argomentazioni mentali molto simili a quella che ti ho esposto, anche se meno palesi nel loro essere prive di fondamento.

La mente è abilissima a dimostrarci impossibilità di ogni tipo, basandosi per l’appunto su ragionamenti logico deduttivi: è impossibile trovare lavoro, è impossibile passare l’esame, è impossibile arrivare ad una soluzione… e noi ci crediamo ciecamente, senza sottoporre a verifica alcunché, quando a volte sarebbe sufficiente andare contro, e provare: muovere un passo e dimostrare a sé stessi che si è spesso di fronte solo ad un vincolo mentale.

Il pensiero logico nella nostra cultura viene idolatrato, ma non è in grado di spiegare la realtà: si basa su strumenti provenienti dal passato e per forza di cose ignora quelli futuri (come il calcolo infinitesimale dell’esempio citato); il mondo è molto più ricco e articolato di quanto la nostra mente, nella sua infinita presunzione, vorrebbe farci credere; pertanto esiste un’unica, vera fonte di conoscenza: l’esperienza.

Come diceva Einstein, chi dice che è impossibile non dovrebbe disturbare chi ce la sta facendo.

La burocrazia mentale


L’italia è nota per essere un paese impastoiato dalla burocrazia. Che si fa quando accade qualche fatto spiacevole per correre ai ripari ed evitare che non si ripeta in futuro? Semplice, si fa una bella legge nuova nuova che copra il vuoto normativo.

Incendio durante una manifestazione con morti al seguito? Nuove norme sulla sicurezza e sulle vie di fuga. Evasione fiscale? Nuove norme, serve un giro di vite contro i furbi. Intossicazione alimentare? Nuove norme sulle modalità di confezionamento dei cibi.

Il politico si sente a posto con la coscienza (coscienza? No, diciamo piuttosto che sente integra la propria immagine di fronte all’elettore) dimostrando di aver fatto qualcosa per far fronte al pericolo, e varare nuovi provvedimenti è un modo assai plateale di raggiungere l’obiettivo; al problema di farli rispettare ci penserà poi qualcuno, nel frattempo l’elettore avrà dimenticato.

E siccome di fatti spiacevoli ne accadono in abbondanza, i precetti nel tempo si moltiplicano e si stratificano al punto che, se vuoi cimentarti in qualsiasi attività, devi mettere in conto che dovrai da qualche parte rinunciare ad essere in regola.

Già, perché spesso le leggi sono così intricate che si contraddicono, e non puoi rispettarne una senza violare l’altra. L’unico modo di essere a norma è quello di non far nulla.

Ma non ne scrivo qui perché mi sta a cuore questo genere di questioni, in realtà è solo uno spunto di riflessione che mi porta a pormi la domanda: ma io sono così diverso dallo Stato italiano? Perché devi sapere che anche io ho il potere di legiferare. Non per la collettività, certo, ma per me stesso; o, se vogliamo, per la collettività delle mie cellule.

Che accade dunque quando si verifica un evento, magari traumatico? Nella mia mente si formano nuove regole che piloteranno il comportamento futuro. Se mi scotto con la stufa accesa, non la toccherò più in seguito. Se la fidanzata mi lascia inaspettatamente, diffiderò delle donne. E così via.

Sono meccanismi di difesa naturali: la mente è deputata a ciò, sarebbero grossi guai se non lo facesse. Eppure, se si perde la consapevolezza di questi automatismi, si rischia di finire invischiati nei lacci e lacciuoli  delle rigidità mentali.

Se ti guardi attorno non potrai non notare quante persone hanno smesso letteralmente di vivere, imbrigliati come sono dai loro schemi. Sopravvivono, “tirano avanti” come si suol dire, ma di certo non vivono. Perché questo è amorale, quello non si fa, quell’altro è pericoloso, quell’altro ancora è dall’esito incerto. Tutte regole stratificatesi con l’esperienza, di cui troppo spesso si dimentica di verificare i presupposti di applicabilità, che costringono nella non azione.

Io non sono certo da meno, ma una certa onestà intellettuale verso me stesso non mi permette più di far finta di niente: è necessaria una semplificazione, una decisa opera di potatura che recida senza pietà tutti quegli schemi di comportamento desueti e obsoleti, in definitiva privi di fondamento.

Perché il bisogno che ho di vivere mi porta talvolta a violare qualcuna di quelle norme, ed allora giù coi di sensi colpa, per aver violato la legge. Ma si trattava poi di una legge giusta?

E’ tempo di esercitare l’auto consapevolezza, prendere le cesoie ed operare una decisa semplificazione normativa, perché il tempo a mia disposizione non è infinito e ho ancora parecchie cose da fare.

Nati per correre


La giornata era limpida e fredda; il sole che faceva capolino da dietro le montagne dissolveva lentamente la nebbiolina del primo mattino.

Io osservavo quella meraviglia dalla finestra della camera, e dentro di me sentivo la vocina che sussurrava maliarda: “prenderai un sacco di freddo, la temperatura è sicuramente sotto zero là fuori, resta in casa al calduccio, chi te lo fa fare?”

Conoscevo bene quella voce, mi aveva spesso dissuaso dal cogliere numerose occasioni di vita, in passato, e mi forzai a fatica di non darle ascolto: sarei stato parte integrante ed attiva di quel bel paesaggio là fuori.

Indossai la termica, la fascia per le orecchie, i guanti, ed uscii.

Il freddo pungente offendeva le mie guance, lo sentivo insinuarsi lungo la gola fin giù nei polmoni; ogni mia espirazione produceva bianche nuvolette che si disperdevano pigramente sopra la mia testa.

Iniziai ad avanzare timide falcate lungo il sentiero dietro casa, che divenne presto ripida salita in mezzo ai castagni spogli.

Il fiato era corto, le gambe dure e affaticate; sentivo il crepitio delle foglie secche irrigidite dal gelo infrangersi sotto i miei piedi.

La vocina tornava a più riprese alla carica mettendomi di fronte alla folle inutilità di quella corsa nel bosco gelato: diceva che il fisico non avrebbe retto, che sarebbe stato saggio tornare indietro; ma io mi conoscevo bene, sapevo che sarebbe stato sufficiente resistere ancora un pochino, e poi la piacevole sensazione del corpo pervaso dall’energia che entra in circolo avrebbe cambiato completamente le carte in tavola.

Raggiunsi il punto di svolta: è quello in cui credi di essere arrivato al limite delle tue potenzialità; è proprio allora che bisogna sforzarsi di non credere alle illusioni della mente, che per un eccesso di zelo protettivo traccia i confini del possibile molto, molto prima di quelli effettivi.

Così feci: continuai a correre. E d’improvviso, come per magia, la fatica svanì, per lasciar posto alla piacevole sensazione di calore che abbracciava ogni cellula del corpo, contrastando in perfetto equilibrio termodinamico la pressione del freddo pungente dell’ambiente circostante.

Ero entrato a regime, la mente aveva interrotto il suo petulante chiacchiericcio, e potevo finalmente dare ascolto solo le mie sensazioni; gli alberi sfrecciavano rapidi al mio fianco, per poi diradarsi gradatamente e lasciare spazio all’ampio dosso erboso ricoperto di brina che individuava la vetta.

Mi fermai, il fiato che continuava a condensarsi in sinuose nuvolette evanescenti, a contemplare l’incantevole panorama che si poteva godere da lassù. Il sole con tutto il suo carico di energia dissolveva rapidamente il ghiaccio dai miei pensieri.

Ero vivo. Ero felice e libero.

L’ennesima, inconfutabile conferma di quanto valga la pena sforzarsi di ignorare i freddi precetti protettivi della mente, per lasciare spazio al corpo e al cuore.

Gridai ‘GRAZIE’ al vento che spazzava la vetta e ripresi la corsa, in discesa verso casa.

Il vicolo cieco


Qualche giorno fa la mia amica Lisa mi ha raccontato un fatto che mi ha riempito di ottimismo e mi ha fatto riflettere, lo voglio qui condividere con te; beh, in verità lei non si chiama così, uso degli pseudonimi per proteggere la privacy, e per lo stesso motivo non ti racconterò tutti i dettagli della vicenda, ma lascerò inalterato il succo della storia.

Lisa ha per molti anni rivestito un ruolo di aiuto nei confronti di Filippo, che si trovava e si trova tuttora in uno stato di bisogno; inizialmente questo la faceva stare bene, si sentiva utile ed in pace con sé stessa; fra i due si era venuto a creare un legame molto forte, nel quale Filippo era però di fatto dipendente da lei.

Col passare degli anni questa situazione è venuta a pesare a Lisa, che ha iniziato a non provare più lo slancio e la passione che fino ad allora le avevano fatto vivere con gioia quella relazione di aiuto.

Negli ultimi tempi si era resa conto di non riuscire più a ricoprire un ruolo che adesso viveva come un dovere, ma abbandonare Filippo avrebbe significato dargli un dolore immenso, di questo lei era certa; e di riflesso pure lei sarebbe stata malissimo.

Insomma, era imprigionata in una situazione senza via di uscita: questa la sentenza della sua parte razionale.

Improvvisamente, ecco il fatto inaspettato: un’altra persona entra nella vita di Filippo, una persona che catalizza tutte le sue attenzioni; si tratta di un evento eccezionale nella sua improbabilità, un evento davvero imprevedibile, e tuttavia accade; contemporaneamente lei tocca il fondo, capisce che non ce la fa proprio più ad andare avanti in quella situazione, e forte dei nuovi accadimenti prende la decisione: comunica a Filippo che non potrà più aiutarlo.

Sta malissimo per qualche giorno, tormentata dai sensi di colpa… poi poco a poco il ritorno alla normalità. Gli scenari catastrofici presagiti, nei quali lui avrebbe provato un immenso dolore per l’abbandono(?) di lei, non si verificano, anche grazie alla presenza in scena del nuovo protagonista.

Insomma, quella che a priori sembrava una situazione senza via di uscita, alla fine non si è rivelata tale.

A posteriori.

Quando Lisa mi ha raccontato della sua decisione coraggiosa mi sono sentito pervaso da un’ondata di ottimismo e rinnovata fiducia nella vita, ed ho maturato le riflessioni che ora sto condividendo con te.

Perché era così convinta di non avere via di scampo? La risposta che mi sono dato è: perché usava la mente per analizzare la situazione. Il cuore (forse l’anima?) le suggeriva che avrebbe dovuto cambiare, ma la mente intimava che non era possibile, che non c’era margine di azione, tutte le strade disponibili erano precluse perché troppo costose.

Tutte? Ma la ragione non può conoscerle tutte! Essa si basa sul passato, anzi, sulla sola porzione di cui è a conoscenza, e non può fare affidamento sull’infinito bagaglio di possibilità che il futuro ha in serbo.

Insomma, la razionalità è limitata perché non possiede tutti gli elementi necessari per compiere una valutazione adeguata, e tuttavia pretende con presunzione di poterlo fare, col risultato che sovente arriva a conclusioni errate e spesso depotenzianti.

Se penso che la mia tesi di laurea si è basata in gran parte sulla teoria delle decisioni, che pretende di formalizzare dei criteri elevando appunto al rango di teoria tutta questa serie di str… ehm, stupidaggini… mi viene da sorridere e darmi una pacca affettuosa sulla spalla!

Ogni volta che la mente ti intima di lasciar perdere, che non ce la potrai fare, che stai per commettere una sciocchezza… ebbene, mandala delicatamente a quel paese e segui invece ciò che l’istinto suggerisce.

Metti da parte la presuntuosa convinzione di non potercela fare. Anche solo per gioco, così, per vedere almeno una volta che succede. E se non puoi correre e nemmeno camminare, allora impara a volare!

Grazie Lisa.

Il capo egoico


Un buon capo deve essere al servizio dei propri collaboratori, deve guidarli ed indirizzarli, avendo come faro guida l’obiettivo lavorativo che insieme si vuole raggiungere; quando si comporta così, allora cessa di essere un mero capo e diventa un leader. In tutto questo il potere non entra in gioco: essere leader significa prima di tutto avere delle responsabilità.

Troppo spesso invece ci troviamo di fronte a semplici capi nel senso riduttivo del temine, che pensano prima di tutto a soddisfare le proprie esigenze egoiche di supremazia; cedere spazio decisionale ai propri collaboratori è da loro visto come una pericolosa apertura verso la perdita di prerogative, preludio per la venuta meno del ruolo a cui tanto sono attaccati.

Da questo nasce il senso di frustrazione dei collaboratori, che cessano di formulare pensieri propri e si piegano ad esprimere ciò che immaginano che il capo si aspetti da loro (quanti livelli di costruzione mentale di una realtà inesistente in tutto questo!).

L’obiettivo vero cessa di essere quello dichiarato, ma diventa surrettiziamente la soddisfazione delle esigenze del principe. E la frustrazione provoca malessere diffuso in tutto il gruppo di lavoro, al cui interno si vengono a creare conflitti fra pari, guerre fra poveri sobillate dal malato desiderio auto celebrativo del vertice.

Quanto scrivo è piuttosto demagogico, ed immagino sia facile trovarti d’accordo con me, a patto che tu sia dalla parte del collaboratore (ma finiamola con queste ipocrisie: chiamiamolo pure dipendente). Se è così, non ti sentirai minimamente tirato in ballo dal mio dito puntato, ed annuirai deciso col capo.

Col capo?

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Curiosa questa ambivalenza terminologica, vero? Beh, non si tratta affatto di ambivalenza; e se in questo discorso ti senti privo di ogni responsabilità, allora stai sbagliando: perché anche tu sei un capo, ed un capo ben più importante di quello di cui ho fin qui parlato solo a scopo metaforico.

Intendiamoci, parlo usando la seconda persona solo per catturare la tua attenzione: in realtà non posso permettermi di esprimere alcunché su di te, le mie sono solo proiezioni; la verità è che sto parlando di me, con me, che ho in passato ricoperto il ruolo di capo egoico sul lavoro e lo sto tuttora ricoprendo nel rapporto interiore.

Ma torniamo a parlare di te; quante volte ti fermi ad ascoltare i segnali provenienti dal tuo corpo? Quante volte ti prendi cura di esso, assumendo decisioni che vadano nella direzione del suo benessere globale e non del mero appagamento del tuo edonismo? Non ti rendi conto che la tua attenzione è concentrata solo sui tuoi pensieri, sulle tue preoccupazioni, sulle tue aspettative, in pratica è cortocircuitata all’interno della mente, e non si rivolge al tuo essere nella sua globalità?

Ogni cellula del tuo corpo possiede una propria intelligenza, e te lo dimostra ogniqualvolta di procuri una ferita, che guarisce miracolosamente anche se tu, ipotetico depositario del sapere supremo, non fornisci alcuna indicazione sul da farsi.

Hai a disposizione una vastità di validi collaboratori: miliardi di cellule dotate di intelligenza, organizzate in organi, strutture, sistemi complessi. Un’enorme ricchezza, un’azienda ben avviata che tu porti al fallimento, prostituendola alle follie della mente.

Non ti rendi conto di essere pure tu in questa situazione? E la posta in gioco qui non è il budget aziendale, ma la tua vita! Non sarà forse il caso che la tua mente, capo egoico per eccellenza, inizi finalmente a delegare e la smetta una volta per tutte di spadroneggiare seminando disagio e malcontento?

Ma tu, chi sei?


Tempo fa scrissi un articolo che parlava di primo piano e sfondo. Allora non mi rendevo conto delle potenzialità a cui poteva portare questo embrione di ragionamento; a distanza di qualche anno desidero ora rivalutarlo, come punto di partenza per trattare una delle domande più delicate, difficili ed utili dell’esistenza: chi sono io?

Immagino che il collegamento fra le due tematiche non sia immediato, ma lascia che provi a spiegarmi; attenzione però: l’argomento è spinoso e per nulla facile da esporre, io poi non sono certo un maestro di dialettica, per cui se vuoi abbandonare la lettura, questo è il momento giusto!

Ma torniamo a noi; partirei proprio col domandarti: ma tu, chi sei?

Ed eccoti rispondere tronfio e sicuro alla mia domanda apparentemente banale:

Ma come chi sono, sono io! Il ragionier Luca Rossi, quello che lavora alla ACME S.p.A, figlio del dottor Mario Rossi, medico di famiglia del paese di Altavalle…

No no, aspetta! Non mi hai capito.

Intanto un ‘sono io’ autoreferenziale non aggiunge alcun contenuto informativo, e lo eviterei.

Non ho poi neppure chiesto qual è il tuo nome, dopotutto non è che un’etichetta arbitraria, una vale l’altra e, anche se ce l’hai appiccicato dalla nascita… non contribuisce certo ad individuare la tua identità: non è che una parola… con dignità di nome proprio di persona, certo, ma alla fine pur sempre un’etichetta: negli Stati Uniti ti sarebbe toccato Luke… che è diverso da Luca, giusto?

Non ti ho neppure chiesto che lavoro fai: ti trovi alla ACME S.p.A. perché lì ti hanno condotto gli eventi, ma potevi benissimo lavorare in banca no? Hai il diploma di ragioniere…

Già, in effetti non ti ho neppure chiesto qual è il tuo titolo di studi… guarda che lo so che, se fosse dipeso da te, ti saresti iscritto al liceo e non a ragioneria… ma dovevi arrivare in fondo ai cinque anni col famoso pezzo di carta in mano, per tranquillizzare i tuoi genitori.

Già, i genitori… beh, loro sono sicuramente più legati a te, se parliamo di identità… i loro geni sono dentro alle tue cellule, ed i loro insegnamenti dentro alla tua struttura neurale… ma individuare un’entità attraverso un’altra non fa che spostare il problema altrove, in una ricorsione infinita prima di utilità: chi sono allora i tuoi genitori? Chi sono i tuoi nonni? E così via. Tant’è che, per spiegare meglio chi è tuo padre, hai sentito l’esigenza di precisarne il nome, la professione ed il luogo in cui esercita. Insomma, una risposta che necessita di altre spiegazioni non è poi una gran risposta.

Giacché hai avuto la pazienza di seguirmi fin qui, adesso voglio vibrarti il colpo fatale: sappi che tutte quelle che hai elencato sono solo false identità che contribuiscono pesantemente a mantenere vivo il tuo stato di infelicità, e sarà opportuno per il tuo bene-essere abbandonarle quanto prima!

Ricordi quando da piccolo ti attribuivano quel fastidioso nomignolo, e tu ti arrabbiavi tanto? Lo sai perché? Perché nella tua mente stavano attaccando il falso io che credevi di essere, rappresentato dal tuo nome che veniva storpiato. Attaccano il mio nome, quindi attaccano me. Dolorosa falsità. Errore di interpretazione.

E lo sai perché sei così legato al posto fisso, e continui a lavorare in ACME anche se sei infelice e vorresti fare tutt’altro? Perché sei convinto di essere quello che fai di lavoro.  Altro che balle sulla sicurezza economica. Se perdi il lavoro, perdi la tua identità. Quante depressioni fra i neo pensionati che non sanno più chi sono. Ma tu non sei il ragioniere, tu fai il ragioniere…

Hai poi mai udito le barzellette sui titoli di studio? Quelle che se la prendono con ingegneri, fisici e matematici in particolare… sono tutti modi per stuzzicare la suscettibilità di alcune persone favorendo un sorriso in altre; e su cosa si basa il giochino? Sull’attacco di una falsa identità, basata sul titolo di studio!

E adesso cominciamo a fare sul serio, gran figlio di puttana!

Pesante vero? Quale insulto peggiore riusciresti ad immaginare? Anche qui, si sta cercando di attaccare una tua falsa identità. Tu non sei tua madre né, tanto meno, l’attività che esercita. E se davvero si occupasse del mestiere più antico, lo stesso varrebbe per lei: fa la puttana, non è una puttana.

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Ti sembrano sofismi, vero? Eppure ragionare in un modo o nell’altro fa la differenza, provare per credere. Perché se davvero non pensi di essere tutto ciò, qualsiasi cosa accada che lo metta in discussione non ti toccherà più di tanto. Non è filosofia, ma pratica di vita.

Se mi stai seguendo, la tua mente sta lentamente sfrondando tutta una serie di falsi io, e sta riducendo all’osso tutte le possibilità, forse abbandonando l’astrazione per arrivare alla fisicità: io sono quello alto un metro e ottanta, con gli occhi verdi ed i capelli castani, il naso pronunciato, magro e poco muscoloso. La stempiatura sta cominciando ad essere fastidiosamente evidente.

Ebbene, mi spiace deluderti, ma sospetto fortemente che tu non sia neppure nulla di tutto ciò. E questo è più difficile da digerire, lo so. Eppure, tu hai gli occhi verdi, non sei i tuoi occhi verdi. Tranquillizzati, non sei neppure la tua stempiatura incipiente. Ricordi il Vitangelo Moscarda di pirandelliana memoria, col suo naso che pende verso destra?

Ma allora, se ti chiedo di abbandonare tutte queste false sicurezze, che cosa rimane alla fine?

Questo articolo è insidioso perché, se lo fai tuo fino in fondo, rischi di creare un vuoto che porta allo smarrimento e forse alla depressione. Ma io so che difficilmente gli attribuirai una qualche validità, perché questo metterebbe a rischio le tue certezze, ti priverebbe di punti di riferimento. Non sei abbastanza folle per farlo.

Per me, che invece non disdegno un pizzico d follia, è stato effettivamente così, finché non ho trovato un modo per riempire quel vuoto; provvisoriamente, perché nessuna risposta deve mai essere quella definitiva.

E l’ho colmato grazie a letture che facevano leva sulla distinzione fra primo piano e sfondo; forse avrai iniziato ad intuire dove voglio andare a parare, ma direi che per il momento ho scritto ed annoiato a sufficienza: è il caso di terminare qui, con l’impegno di proseguire i miei deliri in uno dei prossimi articoli.