Archivi tag: mente

La perticola di pere


Ti va di assaggiare la mia perticola di pere?

[…]

Sono contento che ti piaccia! Come dici? Vuoi conoscere la ricetta?

Piuttosto semplice. Ho messo delle pere tagliate e pezzettini in un pentolone, sulla stufa accesa. Ho aggiunto una mela, dello zenzero, un limone, anche loro tagliati a tocchetti. Ah, anche dello zucchero, e un poco di cannella.

Quando hanno iniziato a perdere consistenza, col frullatore a immersione li ho ridotti a una poltiglia, quindi ho aspettato che il tutto si addensasse per bene.

Ho versato poi il contenuto della pentola in tanti vasetti di vetro, sterilizzati preventivamente in forno, e richiusi successivamente con capsula ermetica.

Come dici? Questa è la ricetta della marmellata? No no, non è marmellata, è perticola di pere.

Vedi, se l’avessi chiamata marmellata avresti avuto delle aspettative, comparando il contenuto dei vasetti con la tua idea di marmellata. E allora avresti potuto pensare che è troppo densa, o troppo liquida, o poco zuccherata, o che ci sono troppi pezzettoni.

Insomma, non ti saresti gustato la perticola in modo genuino, senza pregiudizi.

Certo, la perticola avrebbe anche potuto non piacerti, ma lo avresti valutato unicamente in base al gusto, senza che alcuna comparazione viziasse l’esperienza. Solo sensazioni, la mente non avrebbe avuto appigli.

Sai una cosa, ho deciso che voglio imparare a relazionarmi così anche con la mia vita.

Per troppo tempo ho cercato di darle un senso, uno scopo; col risultato di ritrovarmi in costante comparazione, nel tentativo di valutare se ciò che stavo realizzando era in linea con un percorso ideale.

E’ esattamente come appiccicare l’etichetta “marmellata” sopra questi vasetti. Non è marmellata, è perticola! E il nome l’ho deciso solo dopo che i vasetti erano pronti. Sai, non ci saranno altri vasetti di perticola in futuro, è una produzione unica nel suo genere.

Capisci la differenza?

Io non so dirti se ha il sapore della marmellata, però… però mi piace!

Resurrezione


Nell’articolo Overlook Hotel ho riportato ciò che ricordavo di un sogno fatto poco tempo fa, di cui ora credo di comprendere meglio il significato.

Quel sogno mi ha messo di fronte al mio bisogno di essere riconosciuto, di avere la conferma di esistere; bisogno che ritrovo in ogni mia interazione con le persone, e mi riporta ai primi tempi della scuola elementare, quando fuori in cortile si giocava a guardie e ladri, e da ladro ero fiero di me perché nessuno mi prendeva… finché ho realizzato che nessuno mi stava inseguendo, non mi consideravano proprio!

Adesso ho compreso che cercare la conferma della mia esistenza negli altri è un’illusione, così come cercare di essere ben voluto: nessuno mi vede veramente per ciò che sono, perché tengo nascosti molti miei aspetti per paura di non essere accettato e amato, col risultato di convogliare l’amore altrui verso un avatar virtuale, distogliendolo da me.

Che valore può avere la benevolenza di chi mi circonda, quando nel mio intimo so che regge su una finzione? Il vero amore nasce dall’accettazione incondizionata dell’altro, soprattutto degli aspetti spiacevoli; trovare il coraggio di essere me stesso ha il vantaggio di filtrare chi davvero mi ama, la paura che non resti nessuno è ciò che continua a tenermi nella recita.

Ma tutti questi sono solo giochetti della mente: alla fine esiste una sola, inoppugnabile conferma della mia esistenza: le mie sensazioni, le mie emozioni mi dicono costantemente che io ci sono, che sono vivo.

Cercavo prove nel posto sbagliato. La dissoluzione delle persone del sogno, la mia solitudine, la mia morte, rappresentavano solo la fine dell’ego.

Io sono altro. Chiudo gli occhi e sento che ci sono.

Non c’è bisogno di ulteriori conferme.

Anestesia


D’estate il condizionatore è fisso sui venti gradi, perché non sopporto il caldo afoso.

D’inverno il termostato è regolato sui ventidue, perché fuori fa un freddo cane.

Per salire al quinto piano prendo l’ascensore, mentre per ridiscendere al piano terra… pure.

Al mare la sabbia è calda e ci sono i sassi: ho bisogno delle apposite ciabatte prima di avventurarmi in acqua.

Provo fastidio per il tempo piovigginoso perché mi rattrista, e io non voglio sentire tristezza.

Per fare la spesa a due isolati da casa serve la macchina, le buste piene pesano.

Appena entrato in casa accendo il televisore, mi fa compagnia: il silenzio e la solitudine mi spaventano.

Bevo per dimenticare: ciò che mi è capitato mi fa rabbia, mi fa sentire frustrato.

La morte è un tabù: forse toccherà anche a me, ma fra cent’anni. L’idea mi fa paura, e la paura non mi piace.

Temo perfino i miei successi, perché ho il terrore di ricadere nel fosso dopo aver goduto del panorama in vetta.

Ho piallato ogni picco, verso l’alto o verso il basso: è diventato tutto piatto, ho anestetizzato emozioni e sensazioni; il mio corpo vive in una bolla artificiale dove tutto è nella media, e non appena accenna a lamentarsi, a segnalarmi che qualcosa non va, mi premuro di rimuovere quanto prima la causa del suo disagio.

Vivo circondato da una miriade di protesi, e alleno il solo muscolo del pensiero: seguo le sue regole, prendo per buone le sue previsioni, la razionalità mi fa sentire protetto e al sicuro. Queste sono le uniche sensazioni che gradisco.

Finché un bel giorno, come un bambino capriccioso e bisognoso di affetto, il corpo si mette a urlare, ammalandosi, e mi costringe a dargli quell’attenzione che da troppo tempo gli nego.

Allora mi rivolgo ai dottori, torno a cercare l’anestetico più adatto, perché ascoltare il corpo fa male, soprattutto se si è perso l’allenamento a farlo.

Messaggi


Rama entrò nell’abitazione del maestro spirituale pieno di rabbia, rancore e delusione; la vita lo stava mettendo a dura prova e aveva bisogno di qualcosa a cui aggrapparsi. Lo aggredì provocatorio.

“Maestro, dammi la prova dell’esistenza di Dio!”

L’uomo si alzò dalla sedia senza degnarlo di uno sguardo e aprì la finestra. Si udiva lo scrosciare del torrente provenire da lontano, e un vezzoso dialogo fra due pettirossi nascosti da fronde attigue dell’albero di fronte all’abitazione.

La rabbia di Rama aumentò.

“Maestro, mi stai ignorando! Ti ho detto di darmi una prova!”

Gli si avvicinò, e lo strinse in un forte abbraccio.

Rama si divincolò furente, indietreggiò e puntò il dito.

“La verità è che nemmeno tu hai le prove, sei solo un ciarlatano, mi hai ingannato!”

Il maestro allora prese un tronchetto di legno dal cesto vicino alla stufa e lo scagliò con forza contro Rama, il cui braccio destro, colpito dal fendente, iniziò a sanguinare.

Una scossa di dolore si irradiò a partire dalla ferita e risalì fino al petto, come un’ondata di calore improvvisa. Il cuore iniziò a battere furiosamente, Rama lo sentiva in gola.

“Maestro! Perché mi hai fatto questo? Perché mi stai scacciando?”

L’uomo rispose, pacato.

“Ti ho dato per tre volte ciò che hai chiesto. L’Universo ti parla sempre, ti manda in continuazione i suoi messaggi, e lo fa attraverso le sensazioni del tuo corpo; ma finché dai retta al rumoroso chiacchiericcio della mente, non puoi ascoltarli.
E allora, l’unico modo che ha l’Universo per avere la tua attenzione è quello di gridare più forte. Questo è accaduto oggi.”

Rama comprese il significato di tutto il dolore che gli riempiva la vita, e se ne andò senza aggiungere altro.

Matematica e realtà


Voglio sottoporti una riflessione su quello che per me è un fatto sconcertante, un assunto che il mondo scientifico dà ormai per scontato, una evidenza a cui ci si è abituati a tal punto da aver smesso di sorprendersi.

La matematica è indubbiamente una creazione del pensiero umano, una pura astrazione. Non esiste alcun fenomeno concreto in natura che si possa identificare col concetto di integrale, o limite, o derivata.

Eppure, la matematica è il solo linguaggio che la scienza usa con sorprendente efficacia per descrivere il mondo fisico: partendo dalla traiettoria parabolica di un sasso lanciato in aria, passando per le equazioni della relatività generale, fino ad arrivare alla funzione d’onda che descrive la probabilità di localizzare un elettrone in un determinato punto dello spazio.

Ma non c’è bisogno di scomodare la fisica delle particelle, ci si può limitare alla vita quotidiana: nel frigo ho sei uova, ne prendo due distrattamente e le metto in padella: le vedo, sono due, davanti a me che friggono; le conto indicando col dito: uno, due; senza bisogno di applicare lo stesso procedimento con quelle rimaste posso con totale certezza affermare che sono quattro; per farlo astraggo, passando dal mondo reale a quello dei numeri, e applico una regola di cui ormai mi fido ciecamente:

6 – 2 = 4

quindi prendo il risultato, un numero puro, torno nel mondo della realtà e mi comporto come se in frigo ci fossero veramente quattro uova: ad esempio non inserendole nella lista della spesa che mi accingo a fare.

La descrizione che ho appena fornito è banale, ha sottolineato l’ovvio: eppure il perché quest’ovvio funzioni da sempre non è per nulla scontato e merita una attenta riflessione.

Perché le leggi della fisica seguono così fedelmente una creazione del pensiero? Forse perché il pensiero è nato a partire dall’esperienza del mondo che ci circonda e ha imparato a generalizzare?

In molti casi è così, come in quello delle uova: l’operazione avrebbe funzionato anche in caso di mortadelle, canguri o pinguini (forse ti starai chiedendo: passi per il pinguino, ma perché mai dovrei avere un canguro nel frigo? Ma non divaghiamo, di questo parlerò in un prossimo articolo).

Non sempre però la matematica si occupa di generalizzazioni a partire da esperienze nel mondo reale: si muove spesso da queste, come nella teoria degli insiemi o nella geometria, ma poi si arriva così lontano, nel processo di pensiero, da raggiungere concetti talmente astratti da aver perso ogni collegamento pratico con la vita quotidiana, al punto che si è portati a domandarsi perché i matematici perdono tanto tempo con le masturbazioni cerebrali.

Salvo poi scoprire, a posteriori, che quel particolare costrutto matematico descrive alla perfezione un nuovo fenomeno fisico appena osservato, o in molti casi è in grado di prevederne altri, mai osservati, che si deduce debbano esistere in base al puro ragionamento, come nel caso dei buchi neri o del bosone di Higgs.

Insomma, è un po’ come se matematica e realtà fisica fossero due aspetti di uno stesso fenomeno, uno nel campo del pensiero e l’altro in quello dell’esperienza concreta.

E a questo punto mi stuzzica un’idea affascinante: e se anche la realtà fisica fosse una creazione del pensiero? Se la matematica riflettesse il mondo delle potenzialità offerte dalla nostra mente, e la realtà fisica una sua concretizzazione?

Ovviamente l’idea non è mia, molte tradizioni esoteriche sostengono che la mente crea la realtà, e ultimamente anche alcune frange più progressiste della scienza avanzano questa ipotesi; parlo ad esempio di Federico Faggin, padre fra l’altro del microprocessore e della tecnologia touch, quindi una persona con i piedi ben piantati a terra, che sta dedicando la sua vita a dimostrare che la coscienza crea la realtà, e non viceversa come comunemente si crede.

Se questa ipotesi fosse vera, si spiegherebbe fra l’altro questo affascinante mistero… o forse è più funzionale la lettura rovesciata: l’esistenza di questo affascinante mistero non potrebbe essere un indizio del fatto che le cose stanno proprio così?

Il qui e ora di una salita in bicicletta


Il sole è alto sull’orizzonte, fa caldo e la salita che sto affrontando è piuttosto lunga, non sono neanche a metà.

Ho già parecchi chilometri alle spalle e inizia a farsi sentire un lieve fastidio al ginocchio; il piede sinistro duole già da un po’: accidenti, dovevo prendere le scarpe più grandi di un numero… col caldo e lo sforzo i piedi gonfiano e poi fanno male.

Almeno non ci fosse quest’afa… e ora ci si mettono pure i tafani, vogliono banchettare con me.

La mente vaga, mi ripropone le numerose letture in cui si suggerisce di stare nel qui ed ora, perché nel qui ed ora non puoi avere problemi, i problemi ci sono solo quando ti proietti nel futuro o ti ancori al passato.

Non posso fare a meno di pensare: caro amico che scrivi queste belle cose, vorrei che adesso fossi qui al mio posto, poi vediamo che dici; per me, stare nel presente in questo frangente non fa che aumentare il disagio; meglio fuggire con la mente altrove, distrarsi, anestetizzarsi immaginando la bella birra fresca che mi aspetta nel frigo al mio rientro.

Improvvisamente una nuova visione della realtà spazza via tutto: non ho capito affatto cosa significhi vivere nel qui e ora, per questo sto soffrendo la salita.

“Fa caldo”, “la salita è ancora lunga”, “sento un lieve fastidio al ginocchio”, “il piede sinistro duole”, “quest’afa è insopportabile”, “i tafani mi stanno divorando”. Etichette. Giudizi. Proiezioni dal passato. Mi sto lamentando, non sto affatto vivendo nel qui e ora.

Il qui e ora è fatto di sensazioni, e le sensazioni precedono ogni etichetta che la mente può attribuire; nel momento in cui dico “ho caldo” sono già nel giudizio, sono già sul piano mentale, ho perso il contatto con la sensazione, sono nel passato e non più nel presente.

Nel presente c’è solo la sensazione pura, priva di connotazioni o catalogazioni; per catalogarla devo recuperare dall’archivio delle esperienze passate il fascicolo contenente qualcosa di analogo a ciò che sto vivendo, leggere l’etichetta che vi avevo apposto e quindi attribuirla anche all’esperienza attuale, che a questo punto scivola via dal presente, perdendo tutta la sua unicità, per piombare nel passato, indistintamente, assieme alle altre cose già viste, ammantandosi di un opaco alone di preconcetti.

Dopo questo insight, provo non senza difficoltà a cambiare approccio: ascolto solo ciò che sento, senza giudicarlo, senza catalogarlo. Mi immergo nel mare degli input percettivi, mi lascio trasportare dalle sue onde impetuose. Non c’è più fatica, non c’è più caldo, non c’è più dolore.

Solo questa magnifica esperienza.

(Ancora giudizi! La mente ci prova sempre!)

Solo questa esperienza.

Grazie, vita.

Poligoni e circonferenza


La realtà in cui sono immerso è come una circonferenza.

La mia mente razionale non è in grado di comprendere quella forma, ragiona in modo lineare, per poligoni; quanto più riesco a raffinare i processi di pensiero, tanto maggiore è il numero dei lati che approssimano la circonferenza e tanto migliore è di conseguenza l’approssimazione.

r5

r6

r7r8

Ma sempre di approssimazione si tratta.

Le parole sono etichette appiccicate sopra ad ogni lato del poligono; quante più parole riesco a padroneggiare, tanto più vasta è la realtà che posso cogliere a livello cognitivo.

La realtà è continua, la mia mente la vede discreta. La realtà è analogica, la mia mente la semplifica con un processo di digitalizzazione.

Non riuscirò mai a percepire la realtà nella sua globalità, a meno che non metta da parte il pensiero razionale, e con esso le parole, e mi abbandoni alle sensazioni, senza alcuna pretesa di catalogare o etichettare.

A meno che non smetta di pensare.

Ispirazioni aspirando


Sto passando l’aspirapolvere.

Le mie deviazioni maniacali esigono che ogni centimetro quadrato del pavimento sia stato visitato dallo strumento pulente: decido di assecondarle, perché la mia mente sentenzia che ogni tipo di lavoro, anche il più insignificante, va fatto per bene.

Ok, mente, ti presto ascolto.

Lei è molto brava nell’affrontare problemi di questo tipo, ha subito trovato un valido criterio per non trascurare nemmeno un angolo di mattonella: suddivide il pavimento in aree più piccole; il rettangolo delimitato da tre muri laterali e dalla linea immaginaria che dal bordo del letto arriva allo spigolo della porta, quello individuato dalla nicchia della porta finestra, il piccolo corridoio fra il letto e il muro, e così via.

Mi risulta così facile aggredire l’enorme vastità dei quaranta metri quadri del pavimento di casa mia: divide et impera! E’ più agevole controllare zone di piccola dimensione, per poi passarle in rassegna nella loro totalità.

Mi rendo conto che ogni volta lo schema di suddivisione si ripete uguale a sé stesso, potrei addirittura attribuire delle etichette ad ogni area: la Zona Lato Finestra, la Zona Lato Armadio, l’Accesso al Bagno, e via di seguito.

Cosa hanno di reale queste zone? Nulla. Sono solo suddivisioni di comodo, funzionali ad una più agevole applicazione del trattamento igienizzante; di fatto esiste una sola, unica, indivisa superficie ricoperta di mattonelle.

Eppure, via via che me ne servo, queste suddivisioni acquisiscono realtà per me, e alla fine mi comporto come se avessero un’esistenza autonoma. Difficilmente i miei automatismi operativi acconsentiranno a procedere secondo frazionamenti alternativi, altrettanto arbitrari.

Da questa considerazione muovo il passo generalizzante successivo: la mia mente non si comporta così solo per questo tipo di frivola parcellizzazione, ma lo fa in continuazione, lo fa per tutto.

Ogni separazione è arbitraria, tanto quanto quella operata sul pavimento. Serve solo alla mia mente per muoversi, per trovare dei criteri di gestione dell’ambiente circostante; diversamente, non saprei in che direzione andare.

Un libro, una tazza, una sedia, un tavolo: sono solo classificazioni di comodo nella mia mente. Ho lavato la tazza e poi l’ho messa sopra il tavolo. Wow, fico, che efficacia!

Nulla di reale esiste, al di fuori di ciò che decido io con le mie suddivisioni arbitrarie quanto illusorie.

Un metodo potente ed efficace, lo devo ammettere. Ma molto, molto pericoloso, se non ne sono cosciente.

Andrà tutto bene un cazzo!


Non ci sono dubbi, l’epidemia rientrerà. Svilupperemo gli anticorpi, come singoli e come comunità. Torneremo a vederci nei pub affollati, ad abbracciarci, ad insultarci negli ingorghi cittadini.

Ma c’è un altro virus che in questi giorni così surreali si sta diffondendo, e pochi lo vedono; è un virus che non si propaga di corpo in corpo, ma di mente in mente, e le moderne tecnologie dell’informazione gli offrono potentissimi canali per dilagare incontrastato.

Avrai certo notato sui social gli innumerevoli post sull’epidemia, talvolta allarmistici, talvolta di speranza, talvolta meramente di servizio, talvolta moralizzatori (ah, quanto ci piace indicare la retta via agli altri!).

In questo fenomeno io ho notato, limitatamente a quel che può valere il mio remoto angolo di osservazione, una società che si lascia facilmente attraversare da queste ‘ondate’ informative: lo strumento principe è l’emozione che, scatenata da un articolo sui social, o da un messaggio in una chat, innesca nell’inconsapevole lettore la compulsione a condividere dopo aver ingoiato l’informazione per intero, senza averla masticata, digerita, assimilata

L’informazione circola quindi velocemente, e non senza effetti pratici, perché provoca nelle persone comportamenti pilotati e per nulla coscienti.

L’anticorpo a queste forme di epidemia è la consapevolezza, e i dati di fatto mi lasciano pensare che nella nostra società sia presente in livelli davvero bassi.

Il nostro corpo è sicuramente più intelligente della nostra mente (anche se da bravi sapiens sapiens crediamo di essere al top dell’evoluzione grazie a quest’ultima), e non ci metterà molto a prendere delle contromisure contro il Covid-19; ma la mente nemmeno sa di avere un problema, tanto è distratta dalla preoccupazione di proteggere il corpo. E anche se realizzasse di averlo, non è poi così forte da resistere alle compulsioni, diciamocelo; è molto abile a inventare scuse per occuparsi d’altro.

E se oggi il virus mentale che circola è tutto dedicato alla pandemia, quando questo tipo di emergenza sarà passato ne circolerà un altro; d’altra parte fino a qualche settimana fa circolavano i virus sull’immigrazione, sul  terrorismo, sui crocifissi nelle scuole.

Per non parlare dell’enorme numero di vittime provocato una ottantina di anni fa dal virus della razza ariana: il Covid-19 gli fa un baffo.

Concludendo: le giuste forme di profilassi che stiamo adottando, unitamente alla intelligenza del nostro sistema immunitario, ci tireranno sicuramente fuori da questa situazione drammatica. Ma se l’umanità resta all’attuale livello di inconsapevolezza, che il fenomeno Covid-19 ha reso ai miei occhi particolarmente evidente, perché mai dovrei aspettarmi che le cose migliorino?

Il sovrano addormentato


Il re governava con saggezza e rettitudine il piccolo regno di Anéros, che da parecchi anni si sviluppava florido e felice.

Era affiancato da un valido consigliere, alquanto abile nel fare di conto, al quale chiedeva aiuto ogniqualvolta fossero richieste le sue impareggiabili qualità logiche e calcolatrici, per trovare soluzione a quei piccoli o grandi problemi pratici che l’attività di ogni sovrano incontra nel quotidiano .

Il regno traeva sostentamento dal lavoro contadino: ogni suddito disponeva di un adeguato appezzamento di terreno, dei cui frutti beneficiava direttamente la famiglia e, in via residuale, la casa regnante, quale giusto compenso per l’attività di governo, nonché tutte le rimanenti figure ausiliarie.

Fra queste, un ruolo molto importante era ricoperto dai cosiddetti commedianti: poliedrici personaggi il cui compito era intrattenere, svagare, motivare, nei momenti difficili rincuorare la popolazione, indossando di volta in volta la veste di giullare, di canterino, di giocoliere, di attore comico o drammatico.

La semplicità di quella struttura sociale garantiva stabilità, equilibrio e abbondanza al regno, i cui membri si sentivano amati e valorizzati, ciascuno nella propria peculiare individualità, dal sovrano, che aveva cura di non trascurare nessuno ed era sempre pronto ad ascoltare le esigenze di ogni suddito.

Un brutto giorno il re, in un momento di particolare affaticamento, ebbe la cattiva idea di delegare una decisione al proprio consigliere; quest’ultimo si sentì molto onorato di quell’investitura, e mise in campo tutte le proprie forze ed energie per non deludere le aspettative del committente.

Riuscì nel compito con grande successo, e il re fu molto soddisfatto della decisione presa in sua vece dal proprio aiutante, al punto da ripetere l’esperimento, che sembrava non avere alcuna controindicazione: il consigliere era ben contento di sentirsi, anche solo per un momento, nel ruolo del sovrano, e quest’ultimo si sentiva sollevato da una fatica che diventava via via più grande con l’avanzare dell’età.

Imboccata questa strada, non si tardò a raggiungere il punto in cui divenne in discesa, una discesa dalla forte pendenza che faceva aumentare la velocità e rendeva sempre più difficile tornare indietro.

Fu così che il re, reso pigro dalla diminuzione del carico di lavoro, cessò del tutto di occuparsi del proprio regno, lasciando carta bianca al consigliere.

Quest’ultimo, viste le eccelse doti logiche e la predisposizione naturale ad eseguire con efficienza i compiti minimizzando i costi e massimizzando i ricavi, non tardò a trovare delle regole che gli permettessero di prendere decisioni in automatico, senza la minima fatica: aveva infatti capito che dopo un po’ i casi da affrontare si ripetevano nella struttura di base, ed era pertanto possibile attingere a un sia pur lungo elenco di casistiche per associare in automatico ad ogni problema la soluzione più appropriata, sfruttando l’esperienza del passato per evitare la fatica contingente.

Grazie a questa intuizione geniale venne stilato il manuale del regnante, un pesante e voluminoso tomo che elencava tutti i possibili problemi del popolo con le rispettive decisioni da adottare.

Si venne così a delineare un nuovo equilibrio, nel quale il sovrano restava a letto fino a tardi, si alzava solo per mangiare e poi poltriva pigramente spostandosi dal trono alle numerose poltrone presenti nel castello, per poi tornare a letto la sera in un ripetitivo trascinarsi senza meta.

Il consigliere, dal canto suo, si pasceva nel delirio di onnipotenza, avendo a tutti gli effetti preso il posto del re.

Ma gli automatismi a cui ricorreva per governare il regno non erano per nulla infallibili: le problematiche che di volta in volta emergevano non erano sempre perfettamente corrispondenti alle casistiche contemplate dal manuale, anche se ad un primo sguardo superficiale poteva sembrare così.

I sudditi cominciarono ad avvertire un crescente malessere, mentre i commedianti iniziarono ad esagerare le proprie messe in scena, spargendo talvolta paura e panico ingiustificato fra la popolazione, talvolta euforia eccessiva, stimolando e favorendo comportamenti contraddittori che portarono a conflitti interni al regno.

Gruppi di contadini si schierarono in una fazione di euforici che volevano sempre e solo gioia e felicità; altri in una fazione di sofferenti che anelavano alla fatica e al lavoro duro e disprezzavano coloro che pensavano diversamente; molte altre fazioni vennero a crearsi, e ciascuna traeva energia dal commediante di riferimento che di volta in volta portava in scena l’emozione predominante, sotto la regia delle cieche regole del consigliere.

Ben presto il caos si diffuse in tutta la collettività, che aveva perso unitarietà per ritrovarsi frammentata in una molteplicità di correnti in contrasto fra loro; le lotte intestine e le ribellioni dei contadini divennero vere e proprie malattie in seno al regno, che ormai, gravemente malato, si avviava al declino.

Il destino non era ancora segnato, ma per evitare il peggio era indispensabile che il re si risvegliasse, e togliesse lo scettro del potere dalle mani dello scellerato consigliere.

************

E tu, caro lettore, cosa ne pensi? Anche tu, come me, ti senti come il sovrano addormentato col corpo in balia delle emozioni? Anche tu, come me, reputi che sia finalmente giunto il momento di disubbidire alle rigide regole imposte della mente ?