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La caffettiera e il tostapane


Se ne stava in disparte, in un angolo della cucina, tutta sola. Un sottilissimo e appena visibile filo di ragnatela univa l’estremità del manico al suo corpo metallico dalla vita stretta.

Lui si avvicinò a lei con circospezione, e con tutta la delicatezza di cui era capace le chiese: “Perché non ti unisci a noi? La colazione non è la stessa senza di te, mi hanno detto che sei tu quella che dà la carica!”

Lo guardò lasciandosi andare ad un sospiro; le faceva un immenso piacere quell’invito, che sapeva però di non dover accettare: non voleva fare ancora del male.

“Mi spiace, non posso. Tu sei nuovo e non puoi sapere, ma non succedono cose piacevoli quando mi scaldo.”

“Davvero? E che succede mai? E dai, una colazione senza caffè è triste, priva di energia! C’è bisogno di te per iniziare la giornata con grinta!”

Aveva difficoltà a ritornare a quei momenti di dolore, ma chissà perché quell’incontro fece leva sulla sua voglia di parlare, di aprirsi. Aveva però bisogno ancora di una spintarella, che provò a invitare.

“Mi piacerebbe molto stare con voi, ma l’ultima volta che ho partecipato sono successi fatti molto spiacevoli. Dentro di me ci sono brutte cose, cose che è meglio non vedere. Cose che possono fare del male. Faresti meglio a starmi lontano.”

Lui era molto giovane, impregnato di quell’ardore e curiosità che rendono talvolta spavaldi e incoscienti.

“E che sarà mai! Vuoi raccontarmi l’accaduto? Sono curioso di conoscere ciò che hai dentro!”

“Io…”

Era in bilico fra il dire e non dire; fra la voglia di farlo e il giudizio sull’inopportunità di svelarsi così ad uno sconosciuto. Vinse la prima.

“C’è una forza mostruosa dentro me, una forza dirompente. Finché non mi scaldo, tutto è tranquillo. Ma quando mi scaldo questa forza cresce a dismisura, e per quanto io cerchi di trattenerla ad un certo punto non ce la faccio più. E allora esplodo in un boato terrificante, la mia parte superiore si stacca volando contro il soffitto e il mio calore si propaga con violenza tutto attorno, e faccio del male, molto male! Faccio del male a chi mi sta vicino! Per questo sarebbe meglio se tu stessi alla larga.”

“Wow! Sei potente! Anche io mi scaldo ma non sono capace di nulla del genere. E quante volte è successo?”

Si sentì spiazzata da quella domanda inattesa.

“Quante… quante volte? Beh… una volta.”

“Una sola volta? E prima di quella volta che succedeva?”

“Prima ero meno forte, non riuscivo a trattenere e così… ciò che avevo dentro fluiva fuori, un orribile liquido nero, bollente, accompagnato da un borbottio fastidioso.”

“Ma tu sai che sei proprio una sciocca?”

“Perché?”

“Senti, io sono giovane e inesperto e non so nulla di te, non conosco nulla del mondo. Ma posso dirti ciò che sento, ora: sento che ciò che hai dentro non è né bello né brutto, e non può fare del male. A meno che tu non decida di trattenerlo: allora sì, che diventa dannoso!

Ma questo non accade solo a te, accade a tutti: nasciamo perfetti, sai? Sono i giudizi, l’educazione, la morale a convincerci di non esserlo. E allora tratteniamo, sopprimiamo delle parti di noi, le teniamo nascoste perché abbiamo paura di non essere accettati, di non andare bene. E queste parti represse, che invece esistono e vogliono attenzione, ad un certo punto iniziano a gridare. Solo allora diventano dannose.

Ma la loro dannosità non è intrinseca, non credi? Se fossero lasciate libere di esprimersi, potrebbero donare la loro utilità al mondo. Dammi retta, siamo proprio sciocchi a comportarci così.

Datti un’altra possibilità, lasciati andare, non trattenere: vedrai che non farai del male a nessuno, e anzi l’energia che hai dentro aiuterà qualcuno ad affrontare meglio la giornata!”

Non pareva molto convinta, ma qualcosa si era mosso. Aveva trovato qualcuno che la accettava per quello che era e non aveva paura di lei. Forse era questa la via? Forse tutto il male che sentiva di avere dentro era per davvero solo causato dall’oppressione e dal giudizio?

Di una cosa era certa: aveva trovato un nuovo significato, del tutto inatteso e fino ad allora sconosciuto, per la parola amore.

Due pillole di teatro prima dei pasti


Credo che fare teatro sia profondamente terapeutico, e vorrei spiegarti in che senso lo è stato e lo è tuttora per me, con la precisazione che me ne occupo a livello amatoriale e che quanto vado ora a raccontare sono considerazioni legate alla mia esperienza ed in quanto tali limitate alla mia persona.

Partiamo da un fatto piuttosto evidente: i condizionamenti sociali ci hanno fin dalla più tenera età educati a non esprimere molte delle nostre emozioni, o a manifestarle in modo blando: è vietato piangere, è vietato mostrare rabbia, è vietato farci vedere spaventati.

Anche esprimere gioia, in molti contesti, è considerata un’attività deprecabile: talvolta è più tollerata la compagnia di una persona triste, che magari ci fa sentire utili nei suoi confronti mentre ci prodighiamo in attività consolatorie, di quella di una persona felice, che ci mette involontariamente di fronte alle nostre presunte inadeguatezze.

Ma reprimere le emozioni è un po’ come trattenere uno starnuto: è parecchio dannoso; perché quello che non esplode, implode: l’energia deve in qualche modo trovare una via di sfogo.

Da qui tutta una serie di manifestazioni psicosomatiche più o meno correlate alla nostra condizione di animali repressi.

Torniamo dunque al teatro: recitare non è ripetere a memoria un copione. Se devi mettere in scena una parte triste, devi essere triste. Se la parte è rabbiosa, devi essere incazzato. Se non sei, dentro, ciò che vuoi esprimere, il pubblico lo avvertirà, e per quanto tecnicamente tu sia bravo, non riuscirai a trasmettere nulla. Questo è quanto mi hanno insegnato nei pochi anni di corso, questo è quello che ho verificato sul campo nel mio piccolo.

Quale miglior ambiente protetto, dunque, per esprimere le emozioni represse senza sentirsi per questo giudicati? Finalmente posso essere libero di incazzarmi, e quanto più lo farò in modo realistico, tanto meglio verrò giudicato; non è fantastico? E non si tratta semplicemente di fingere, perché il lavoro va fatto bene: bisogna proprio trovarsi in quello stato.

Certo, talvolta può far male: una attore professionista mi raccontava che quando deve recitare parti tristi attinge al suo archivio di ricordi dolorosi, per portarsi nel giusto stato d’animo.

Ma il nostro corpo ha bisogno anche di questo: ha bisogno di soffrire, gioire, deprimersi o esaltarsi liberamente, e il teatro offre un contesto protetto in cui si può (anzi, si deve) finalmente fare senza controindicazioni.

Accidenti! Ma dovevo proprio arrivare a recitare per essere finalmente me stesso?

Follia


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Riso. Dolore.

Lasciami sciogliere quel grumo di pensieri,

bambina dispettosa che sbirci in fondo al mio cuore

non ti permetterò di portarmi via l’amata sofferenza.

Cattivo. Buffo.

L’equilibrio grottesco della vita

sfuma ogni mio tentativo di tracciare una linea.

Essere felice, o soffocare per non dissolversi?

Ah, potessi riscrivere tutto da capo,

per lasciare il foglio bianco!

 

La sfera


Mi piace immaginarmi come una sfera; sulla superficie si trovano i miei diversi stati d’animo, che si materializzano nei tanti falsi io con i quali tendo ad interagire con l’ambiente, le varie maschere dell’ego, mentre al centro si trova il mio vero io, la mia essenza.

La sfera ruota, e di volta in volta mostra una faccia diversa: di fronte ad uno stesso evento potrò allora rispondere con fastidio, o con entusiasmo, o con piacere; la mia reazione dipenderà dalla posizione della sfera, non dall’evento in sé.

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Ecco come l’amore che provo per qualcuno (o quello che credo tale) possa improvvisamente trasformarsi in odio, dopo una mezza rivoluzione della sfera; ecco come una passione diventa improvvisamente un fastidio, un’attrazione diventa di colpo repulsione.

Tutto questo capita perché vivo in superficie, dove il mare è increspato dalle impetuose onde delle emozioni; ma se riuscissi a scendere in profondità, raggiungere il centro, dove tutto è quiete… la rotazione della sfera non avrebbe più la minima influenza sul mio atteggiamento col mondo, ed io potrei finalmente essere io.