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Liberazione: la negazione del dovere.


Adesso puoi andare,
non ho più bisogno di te.
Questo grazie a te.
Grazie.

Con queste parole libero virtualmente mia madre, e con lei tutte le figure femminili che nel corso della mia vita hanno a tratti giocato il suo ruolo perché io l’ho proiettato su di loro.

Sono parole emerse nel mio campo di consapevolezza al termine di un ritiro sciamanico con la pianta madre, e curiosamente assieme a loro è emerso anche un legame inaspettato con un pensiero, apparentemente non correlato, che mi frulla in testa da un po’ di tempo.

Si tratta di un problema di pura logica, estratto dal novero delle masturbazioni cerebrali con cui spesso mi diletto, e riguarda la negazione del verbo ‘dovere’ e il legame col verbo duale ‘potere’.

Esiste infatti una terra di confine in cui ‘dovere’ e ‘potere’ danzano armonicamente senza che l’uno implichi o escluda l’altro, ma questo viene normalmente ignorato; detto diversamente, fra ‘dovere’ e ‘non dovere’ da qualche va collocato ‘potere’.

Supponiamo che io ti dica: “devi aiutarmi”.

Qual è la negazione logica di questa frase? Ovviamente: “non devi aiutarmi”.

Ma attenzione, la lingua italiana è ambigua, e il significato va oltre il senso strettamente logico del costrutto linguistico. Perché dal punto di vista semantico “non devi aiutarmi” viene normalmente inteso come “hai il dovere di non aiutarmi”, ossia, per ricondurla alla sintassi logica, “devi non aiutarmi”, espressione che nella lingua italiana difficilmente si trova.

Di conseguenza, “non devi aiutarmi” viene di fatto usato con un duplice significato:

  • non hai l’obbligo di aiutarmi (ma, volendo, puoi)
  • hai l’obbligo di non aiutarmi (quindi non puoi)

e nella mia esperienza di solito il secondo prevale.

Come si collega questo con la frase iniziale?

Posso evidenziarlo meglio grazie ad un passaggio di ruolo: esco da quello del figlio ed entro in quello del genitore, quale peraltro sono, immaginando di sentirmi dire queste parole.

Ecco che avverto una sgradevole sensazione: mi sento allontanato. Mi sento non più gradito. Perché? Perché confondo il ‘non devi’ col ‘devi non’, e questo trasforma una frase che libera in una frase che obbliga.

Mi sono perso tutta quella zona di mezzo, nella quale posso muovermi ma mi sono invece precluso, che sta fra il ‘devo’ e il ‘devo non’, ossia la zona del ‘posso’.

Si tratta di un passaggio non da poco, perché sposta il fuoco dai limiti alle possibilità.

Un passaggio che, scusa il gioco di parole, regala POTERE.

L’esame imprevisto


E’ venerdì di una tarda mattinata primaverile. Il professore di matematica, prima di uscire dall’aula, comunica agli studenti che un giorno a caso della settimana successiva si farà una verifica a sorpresa. Insiste particolarmente sul fatto che sarà proprio a sorpresa: fino a che non entreranno in aula, gli studenti non avranno modo di sapere se quel giorno si terrà o meno la prova.

Gli studenti sono molto intelligenti e hanno una razionalità piuttosto spiccata quindi, dopo un primo momento di panico generalizzato, si consultano e arrivano ad una conclusione alquanto rasserenante: il fatto che si faccia la verifica è logicamente impossibile.

Il loro ragionamento è il seguente.

Venerdì non potrà essere il giorno prescelto, perché il prof. ha detto che non potremo sapere quando si farà la verifica fino al momento in cui lui entra in aula; ma se entro giovedì noi non avremo fatto la verifica, potremo concludere che si terrà il giorno rimanente, venerdì; questo contraddice quanto ha detto il professore, perché in quel caso conosceremmo il giorno con molte ore di anticipo. Quindi non potrà essere venerdì: il prof. è integerrimo e quando promette una cosa la rispetta. Restano dunque quattro giorni possibili.

Ma per lo stesso motivo dobbiamo escludere anche giovedì, perché se entro mercoledì non si è fatta la verifica, e venerdì è stato escluso, allora non resta che giovedì. Mercoledì pomeriggio sapremmo per certo che la prova sarà giovedì. Ma il prof. ha assicurato che non sarà così, quindi anche il giovedì è escluso.

Beh, ma ripetendo a ritroso il ragionamento, si arriva ad escludere ogni giorno, perfino il lunedì. Conclusione: è impossibile che si possa tenere alcuna verifica sotto queste condizioni.

Soddisfatti del loro ragionamento, ineccepibile sotto ogni profilo logico, passano un week-end all’insegna dello svago e della spensieratezza. E i fatti danno loro ragione, fino a mercoledì compreso. Ma giovedì, inaspettatamente, ecco la verifica, proprio come il professore aveva annunciato! Che brutta sorpresa!

Adoro questo racconto, un poco surreale, perché evidenzia le limitazioni della logica: dove hanno commesso l’errore? Da nessuna parte, il loro ragionamento è ineccepibile! E sta proprio qui il paradosso, perché se non fossero stati così arguti, avrebbero tenuto un comportamento meno razionale ma, di fatto, più efficace!

Tutto questo per evidenziare ancora una volta che la logica, e più in generale la razionalità sono strumenti utili, ma nella vita non sempre sufficienti; talvolta essere irrazionali ci porta più lontano.

Riferimenti bibliografici:

Paul Watzlawick, Don D. Jackson, Beavin Janet Helmick – Pragmatica della comunicazione umana

L’incompletezza Gödeliana, che göduria!


Nell’articolo precedente ho esposto alcune limitazioni della logica, strumento principe utilizzato dalla mente occidentale per effettuare ogni tipo di valutazione; voglio adesso giocare il carico da dieci.

Non intendo tediarti con pesanti disquisizioni matematiche, impresa che peraltro non sarei in grado di portare avanti in modo rigoroso, quindi rimarrò sul piano metaforico: supponiamo che tu sia invitato ad una festa organizzata da un amico, il quale ti ha informato che saranno presenti sei uomini e quattro donne, tu e lui compresi.

Da questa informazione iniziale puoi dedurne altre:

  • in totale sarete in dieci
  • i maschi saranno meno delle femmine
  • non è vero che le femmine saranno più dei maschi
  • non sarà possibile effettuare balli di coppia senza lasciar fuori qualche maschio
  • ecc.

Ovviamente le deduzioni hanno valore fintanto che la proposizione iniziale rimane vera: assumendo che il tuo amico sia affidabile, ti senti di poter mettere tranquillamente la mano sul fuoco circa la validità delle tue deduzioni: è un po’ come se tutte quelle informazioni fossero già implicitamente presenti nella prima.

Ebbene, tutta la matematica ragiona così: esistono poche informazioni iniziali, assunte per vere data la loro ovvietà (ma già qui si potrebbe discutere), e a partire da queste si costruisce l’enorme impianto teorico che poi ci viene freddamente propinato sui banchi di scuola.

Si parte dunque da un limitato insieme di enunciati (“saranno presenti sei uomini e quattro donne”), su questi si applicano delle regole per derivarne altri (“i maschi saranno meno delle femmine”), e poi si usano gli strumenti della logica per capire se sono veri o falsi.

Detto in altri termini, a partire da un insieme di affermazioni iniziali (e una serie di regole combinatorie) puoi derivarne un insieme più grande; tutte saranno valide dal punto di vista lessicale, ma solo alcune saranno vere (ad esempio, “le femmine saranno più dei maschi” è valida dal punto di vista lessicale, ma non vera in base all’assunto di partenza).

I matematici fino ai primi del novecento avevano un obiettivo ambizioso e, visto col senno di poi, presuntuoso: fissare un numero di affermazioni iniziali ritenute vere senza bisogno di dimostrazione perché ovvie (assiomi) e su queste costruire tutto l’impianto teorico della matematica; il capofila di questa missione era il tedesco David Hilbert.

Ma ecco improvvisa la doccia fredda, come un fulmine a ciel sereno; nel 1929 un altro matematico (l’austriaco Kurt Gödel, il mio mito) se ne esce fuori col suo teorema di incompletezza che sancisce in modo definitivo: non è proprio il caso di sbattersi ulteriormente nell’impresa, perché è logicamente impossibile!

Curioso vero? I limiti della logica dimostrati usando la logica stessa.

Insomma, Gödel dimostra che non è possibile, nemmeno in linea di principio, stabilire un elenco di affermazioni iniziali dalle quali poi si possano dedurre la verità o falsità di tutte le altre: esisterà sempre un’affermazione che sappiamo essere vera ma senza poterlo dimostrare!

Come facciamo allora a sapere che è vera? Perché usiamo informazioni aggiuntive che non appartengono all’elenco di partenza, e quindi “vediamo” cose che il sistema di affermazioni e deduzioni non “vede”; noi osserviamo la questione “dal di fuori”: ecco i vantaggi dell’essere distaccati.

Beh, dirai, ma allora è semplice: basta aggiungere questa affermazione mancante all’elenco, ed ecco che tutto va a posto…

Eh no, controbatte l’amico Kurt: è sempre possibile trovare un’altra affermazione, sintatticamente valida, di cui non si riesce a dimostrare la verità restando entro i limiti del sistema di assiomi, ma che noi sappiamo essere vera.

Non so se mi hai seguito fino in fondo, ma la portata di tutto questo è eccezionale!

Intanto dimostra che la nostra intelligenza va oltre la logica, perché riesce a vedere realtà non raggiungibili da una fredda sequenza di deduzioni; in secondo luogo ci tranquillizza su catastrofici scenari futuri nei quali i computer prendono il sopravvento: finché si baseranno su ferree procedure booleane rimarranno dei meri, stupidi servitori.

Ma soprattutto evidenzia che l’essere umano è dotato di un dono, la creatività, che va oltre ogni logica (per l’appunto!).

Ciò che più mi fa riflettere su tutto questo è il modo in cui Gödel è riuscito a dimostrare il suo teorema; non ho le conoscenze né le capacità per spiegartelo in modo rigoroso, ma ha a che fare con l’autoreferenzialità: è riuscito a trovare, usando le regole del sistema, un’affermazione che parla di sé stessa (alla guisa della famosa citazione di Parmenide “questa frase è falsa”).

Questa situazione circolare ha mandato in tilt il sistema dimostrandone la debolezza, un po’ come un programma per computer che entra in loop bloccandosi; eppure, per arrivare a dimostrare questo, noi esseri umani siamo in qualche modo in grado di aggirare queste limitazioni… e mi piace pensare che è proprio in questa sorta di capacità di essere autoreferenziali che risiede la nostra potenza!

L’auto coscienza, l’auto osservazione, la consapevolezza di sé è lo strumento per mandare in tilt gli auto… matismi (!) e prendere finalmente il controllo della nostra vita, affrancandoci dalla schiavitù dei programmi mentali che ci hanno installato nel tempo attraverso l’educazione.

Temi forse che questo ti possa condurre alla pazzia? Il rischio è concreto, finché rimani aggrappato alle certezze della logica…

Il paradosso di Zenone


Ne esistono svariati, quello di cui voglio qui parlarti riguarda il movimento e argomenta che per spostarsi da un punto A ad un punto B, percorrendo un segmento di lunghezza finita, occorre per forza di cose passare per un punto intermedio, chiamiamolo C.

Ma prima di arrivare in C occorrerà passare per il punto intermedio che lo separa da A, chiamiamolo D. Prima di arrivare in D bisogna passare per il punto intermedio E, e così via all’infinito, perché questa iterazione si può operare un numero arbitrario di volte, ad libitum.

Ne consegue che prima di raggiungere B bisogna percorrere un numero infinito di segmenti sempre più piccoli di lunghezza finita, pertanto non si potrà mai raggiungere la meta: il movimento è, secondo questo modo di vedere, impossibile, perché la somma di infiniti pezzettini, per quanto piccoli, è un numero infinito.

L’evidenza dei fatti suggerisce il contrario, ed infatti parecchi anni dopo Newton e Leibniz sveleranno l’arcano con l’introduzione del calcolo infinitesimale: una somma infinita di segmenti sempre più piccoli può essere finita, se la “velocità” con cui si riducono i segmenti è tale da contrastare la “velocità” con cui il loro numero cresce.

Per fortuna in questo intervallo di tempo, durato secoli, nessuno si è sognato di rimanere immobile in attesa che un rinnovato impianto teorico rendesse possibile il movimento: forse perché in pochi erano a conoscenza del problema.

Ma non mi interessa qui tanto l’oggetto dell’argomentazione in sé, quanto le sue implicazioni pratiche: ovviamente nessuno è così folle da non muoversi solo perché un ragionamento logico afferma che non è possibile… ma l’assurdità, in questo caso specifico, è particolarmente evidente.

Nella realtà dei fatti osservo quotidianamente attorno a me immobilità di ogni genere, basate su argomentazioni mentali molto simili a quella che ti ho esposto, anche se meno palesi nel loro essere prive di fondamento.

La mente è abilissima a dimostrarci impossibilità di ogni tipo, basandosi per l’appunto su ragionamenti logico deduttivi: è impossibile trovare lavoro, è impossibile passare l’esame, è impossibile arrivare ad una soluzione… e noi ci crediamo ciecamente, senza sottoporre a verifica alcunché, quando a volte sarebbe sufficiente andare contro, e provare: muovere un passo e dimostrare a sé stessi che si è spesso di fronte solo ad un vincolo mentale.

Il pensiero logico nella nostra cultura viene idolatrato, ma non è in grado di spiegare la realtà: si basa su strumenti provenienti dal passato e per forza di cose ignora quelli futuri (come il calcolo infinitesimale dell’esempio citato); il mondo è molto più ricco e articolato di quanto la nostra mente, nella sua infinita presunzione, vorrebbe farci credere; pertanto esiste un’unica, vera fonte di conoscenza: l’esperienza.

Come diceva Einstein, chi dice che è impossibile non dovrebbe disturbare chi ce la sta facendo.

Le soluzioni di mia moglie


Le attitudini logico-matematiche di mia moglie sono decisamente inferiori alle mie, su questo tema la sfotto benevolmente dai tempi dell’esame di statistica all’università.

Quando ci troviamo a risolvere un problema congiuntamente, spesso propone soluzioni argomentandole con motivazioni che a me paiono decisamente irrazionali, ed il più delle volte logicamente inconsistenti; la tentazione conseguente è quella di archiviarle nel cesto delle stupidaggini.

Eppure, l’evidenza empirica dimostra che spesso le sue idee sono valide, mentre le mie, provenienti da una rigorosa dimostrazione, appena accettabili o addirittura inapplicabili. Quanto più il problema da risolvere è di difficile soluzione, tanto più il suo approccio è valido ed il mio fallace.

Per quanto il mio orgoglio maschile tenti di appellarsi a giustificazioni, invocando quale spiegazione dei fatti quella che eufemisticamente chiamo buona sorte, la legge dei grandi numeri mi punta contro prove schiaccianti: dev’esserci qualcosa, nel suo approccio, che lo rende di gran lunga più efficace del mio.

Diciamo che esistono, grossolanamente parlando, due metodi per affrontare un problema, che chiamo rispettivamente ordinato e disordinato; provo a spiegartelo usando come esempio il calcolo dell’area del cerchio.

Dai tempi delle scuole inferiori sappiamo che l’area del cerchio è calcolabile con la ben nota formula

raggio x raggio x 3,14

che rappresenta un approccio ordinato alla risoluzione del quesito.

Esiste però un metodo più divertente, e meno rigoroso, per ottenere lo stesso risultato: disegni il cerchio su un foglio di medie dimensioni, che appoggi su una superficie piana, vi lasci cadere sopra un buon numero di chicchi di riso, gettandoli a caso, e poi calcoli la frazione di quelli caduti all’interno della figura su quelli totali. Se conosci l’area del foglio, con questa frazione sei in grado di conoscere approssimativamente l’area del cerchio.

Circle area

Ecco, lo so, stai pensando quello che penso io quando mia moglie mi presenta le sue soluzioni. Improponibile! Molto meglio la formula esatta, precisa, rigorosa della prima strada.

Comincio col farti osservare che questa non è poi così precisa: dopotutto 3,14 è un’approssimazione del vero pi-greco, che come è ben noto contiene infinite cifre decimali. Ma al di là di ciò, il vero punto è un altro: calcolare l’area del cerchio è facile; il metodo ordinato è palesemente di gran lunga migliore.

Ma se l’area che devi calcolare è quella della figura seguente? Quale formula tirerai fuori dal cilindro?

strange area

Per questo genere di faccende, il metodo analitico non aiuta; quando il problema è confuso, destrutturato, dai margini sfumati, la logica non ti può aiutare. Occorre in questo caso lasciare da parte la mente e ricorrere al cuore: che poi è una metafora poetica per riferirsi all’uso di una parte del cervello sommersa, spesso bistrattata, che lavora dietro le quinte e talvolta, quando le diamo ascolto, ci propone soluzioni geniali sotto forma di intuizioni. Delle quali la mente razionale cerca poi tronfiamente di appropriarsi con una razionalizzazione a posteriori.

Questi processi mentali sotterranei hanno purtroppo un grosso svantaggio: scaturiscono dal di fuori della nostra area di consapevolezza e non sono verbalizzabili; senti che la spiegazione deve essere quella, ma non sai perché, né da dove è arrivata. Quando provi a descriverla, tiri fuori argomentazioni strampalate della cui validità non riuscirai mai a convincere il tuo interlocutore: prova a farti spiegare nel dettaglio da un camionista come fare una manovra in uno spazio angusto con un autotreno.

Proprio quello che accade con mia moglie (non mi riferisco all’autotreno); lei è in grado di risolvere i problemi difficili della nostra famiglia, io me la cavo egregiamente con quelli facili. Per com’era iniziata ai tempi dell’università, non avrei mai immaginato una simile disfatta.

Riferimenti bibliografici:

Guy Claxton – Il cervello lepre e la mente tartaruga. Pensare di meno per capire di più

Luciano De Crescenzo – Ordine & disordine