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All’ufficio postale


Lunedì mattina, ore otto e trenta. Coda di vecchietti allo sportello in paziente attesa.

Il giovane uomo è sulle spine: farà tardi al lavoro, oggi ha una riunione importante.

“Scusi?”

“Dica?”

“Deve fare una cosa lunga? Sa, sono in ritardo.”

“No, stia tranquillo, devo solo ritirare la pensione.”

Sperava lo lasciasse passare, invece sembra fare il finto tonto.

I minuti scorrono voraci.

“Scusi!”

“Dica!”

“Le posso chiedere una cortesia? Devo pagare questa multa, è una cosa veloce, devo farlo entro oggi altrimenti scatta la penale, sarebbe così gentile da farmi passare? Tra pochi minuti ho un’importante riunione in ufficio.”

“I giovani! Sempre di fretta, eh?”

Rispondere ad una domanda con un’altra domanda è una di quelle cose che lo fanno decisamente imbestialire. Tiene la calma, per quanto possibile.

“Beh, sì, sono sempre di corsa, sa, io lavoro, ho poco tempo a disposizione, e devo riuscire ad incastrare ogni cosa! Le dispiacerebbe farmi questo favore?”

“Scommetto che la multa è per eccesso di velocità” ribatte il vecchio con sarcasmo.

“No, è per divieto di sosta, ero in ritardo e ho lasciato la macchina dove ho potuto… senta ma invece di impicciarsi dei fatti miei, non potrebbe aiutarmi? Come le dico, ho poco tempo!”

Parte una risata.

“Poco tempo? Questa è bella!”

Il nervosismo cresce dentro, sente di essere alla mercé di quel vecchio impertinente, inizia a maledire tutti i pensionati che intralciano chi lavora per versare quei contributi che pagheranno le loro pensioni.

“Mi prende in giro? Le ho appena finito di dire che tra poco ho una riunione importante, e lei fa finta di niente! Va beh, non importa, si tenga il suo maledetto posto, aspetterò il mio turno, grazie tante!”

“Perché si arrabbia tanto? Mi ha solo fatto sorridere la sua affermazione! Lei pensa di avere poco tempo, e chiede a me di darle il mio! Non le sembra strana come richiesta?”

“Per nulla! Scusi se mi permetto, ma non credo che lei stamattina abbia cose importanti da fare, dopotutto è in pensione. Io invece devo lavorare, ho un sacco di impegni e non trovo mai il tempo per incastrarli tutti! Sì, è proprio come le dico, ho decisamente poco tempo, mentre lei che è in pensione ne ha quanto ne vuole.”

Il vecchio si abbandona ad un’altra risata sonora, prima di ribattere.

“Mi sembra che lei sia un poco confuso! Quanti anni ha? Mi permetta, gliene do una trentina, è così?”

Trattiene a stento il nervosismo.

“Ne ho trentadue, e allora? Insomma, possibile che voi anziani non riusciate a capire i problemi dei giovani?”

“Trentadue anni! Un virgulto! Sa quanti ne ho io?”

Non risponde.

“Ottantuno. Quanto crede possa possa vivere un uomo?”

Non risponde, lo sguardo piantato su una mattonella del pavimento.

“Diciamo novant’anni? Arroghiamoci per un istante il ruolo della Provvidenza e diciamo così. Diciamo che io e lei camperemo fino a novant’anni, Dio mi perdoni la presunzione. Ebbene, se per un attimo alza la testa e guarda la faccenda un poco più dall’alto, è sempre dello stesso avviso? E’ sempre della convinzione di avere meno tempo di me?”

Una breccia si apre nel muro di intransigenza del giovane, che rimane in silenzio.

“La verità è che lei, rispetto a me, ha moltissimo tempo, ma lo sta sprecando. E questo crea in lei l’illusione di averne poco. Lei, come la maggior parte dei giovani, come ho fatto pure io, insegue dei falsi miti. Il lavoro, la carriera, poi la famiglia, poi le ferie in estate e la settimana bianca in inverno. E poi, quando sarà stanco di tutto questo, la pensione, ultimo, fallace obiettivo di vita. Ed allora si troverà al mio posto, in fila ad uno sportello, a riflettere sulle tante cose che avrebbe potuto fare e invece non ha fatto perché sempre impegnato ad inseguire qualcosa che le sfuggiva di mano. Non faccia il mio errore, si svegli, e sfrutti il tempo che ha a disposizione per vivere!”

Passano alcuni minuti in silenzio, mentre la fila avanza pigramente. Il giovane osserva i raggi del sole che filtrano obliqui dai vetri, poi volge lo sguardo al cellulare, titubante.

Quindi fa partire la chiamata.

“Pronto? Ciao, sono io… senti, ho avuto un contrattempo, mi spiace… non credo riuscirò ad arrivare in ufficio oggi… senti, puoi dire a Lucia di andare al posto mio in riunione?  Lei sa tutto… mi spiace tanto, ci vediamo domani… ciao… sì, ok, va bene… ciao.”

Attende il proprio turno in riflessivo silenzio, paga la multa, sale in auto e con calma e serenità inizia a guidare in direzione della riviera.

E’ tempo di ascoltare il silenzio della risacca.

La mia ex moglie (forse non lo sai ma pure questo è amore)


Un tempo ero sposato.

Non si trattava di una donna, ma di un’azienda; eh, sì, lo ammetto, sono un po’ strano. Ma, a ben riflettere, non molto: perché, se ci pensi, il rapporto di lavoro dipendente (quanto è brutta questa parola!) è molto simile al vincolo matrimoniale: non è ammessa l’infedeltà, visto dalla parte dell’imprenditore è praticamente inscindibile, e ti obbliga a passare assieme almeno otto ore al giorno (in verità molte di più di quante ne passeresti col coniuge).

Dopotutto un’azienda è, a tutti gli effetti, un essere ‘senziente e pensante’, con una volontà propria che scaturisce dagli equilibri di forza degli individui che la compongono, talvolta polarizzati dalla presenza di un capo carismatico.

Perché il divorzio? Beh, i motivi sono elencati in un articolo che scrissi al tempo della separazione. In breve, dopo tredici anni, la mia vita lavorativa era diventata una routine: io e te, tu ed io, che barba, che noia. Ma, soprattutto, era diventata opprimente: obblighi di varia natura (orario, procedure da seguire, aspettative a cui adeguarsi) mi facevano sentire in prigione, per quanto il lavoro in sé continuasse a piacermi, e capi e colleghi continuassero ad essere persone gradevoli con cui confrontarsi.

Da qui la decisione di licenziarmi. Presa non senza dubbi, sofferenza e paure di sorta. Che successe poi? Dopo un breve intervallo di riflessione, mi sono armato di partita IVA e ripresentato sul mercato del lavoro, stavolta come lavoratore autonomo.

Così è ricominciata la collaborazione con la mia ex, in veste rinnovata; collaborazione che dura ormai da tre anni, e che ha ridato smalto ad un rapporto ormai logoro. Perché il problema non era lei, non ero io, ma il legame malato che ci univa.

Oggi in pratica continuo a fare lo stesso lavoro di prima, ma da spirito libero: niente più vincoli di orario, di presenza fisica in ufficio, di procedure da rispettare; nessun obbligo di fedeltà (nel frattempo ho svolto anche lavori minori per altre aziende), solo obiettivi di risultato.

Adesso mi presento saltuariamente in azienda, ma ci vado volentieri, a volte anche più del necessario (e la battuta ormai scontata dei colleghi non si fa attendere: ‘sei di nuovo qui?’).

Quanto ho imparato da questa esperienza è evidente: non siamo nati per stare in gabbia, ma per esprimere liberamente la nostra individualità. Eppure viviamo in una società che ci opprime con i suoi tentativi di incasellarci in ruoli standard, uguali per tutti: dipendente, coniuge, amico.

Esiste ovviamente la necessità pratica di creare rapporti stabili, ma si è scelto la via più semplicistica per saldare il legame: la coercizione. Ma così non funziona, non può funzionare. Così si creano solo persone infelici e frustrate. La stabilità deve basarsi su fondamentali solidi, su un collante che vada al di là degli obblighi di legge o di contratto.

Il nuovo rapporto con la mia compagna di lavoro non si scioglierà finché io potrò dare qualcosa a lei, e lei qualcosa a me. Forse terminerà già a partire da domani, forse no. Ma non importa. Se non altro è genuino, perché da entrambe le parti c’è la consapevolezza che nulla è per sempre.

Finché buon senso non ci separi.

L’aumento di stipendio


Quest’anno hai lavorato bene, sei stato produttivo: il tuo superiore ti ha convocato per comunicarti che ti verrà dato un aumento di stipendio.

Gioisci, non vedi l’ora di tornare a casa per dirlo a tua moglie: finalmente potrete permettervi quella casa in collina che avete sempre sognato. Oggi per te è un gran giorno, ti prepari a festeggiare e non sospetti nemmeno lontanamente di essere stato imbrogliato!

Ti ho appena gettato addosso una secchiata d’acqua gelata? Mi spiace, ma così stanno le cose. Riflettiamo assieme.

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Quest’anno hai lavorato bene, giusto? Quindi il tuo tempo vale di più, perché in un’ora hai dimostrato di fare più cose, o di farle meglio. In ogni caso, ha un maggior prezzo, e lo testimonia il fatto che vieni appunto pagato di più.

Ma c’era un’altra strada per premiarti: mantenere inalterato lo stipendio totale e farti lavorare di meno, in proporzione.

Questa seconda alternativa è notevolmente migliore per te, perché incrementa il tempo a tua disposizione che, forse non lo hai ancora metabolizzato appieno, è limitato. Potrai poi decidere se impiegarlo nel tuo hobby preferito oppure nuovamente nel lavoro, perché in fondo quello che fai in ufficio ti piace (ricadendo nel caso precedente ma, differenza fondamentale, come risultato di una tua libera scelta).

Questo sarebbe il vero premio per aver lavorato bene, ma la soluzione è così scomoda che si cerca di tenerla nascosta il più possibile, e ci si riesce così bene che quello che sto adesso scrivendo ti sembrerà a dir poco delirante (questo è il posto giusto per farlo d’altra parte).

L’aumento di stipendio ha sostanzialmente aggiunto una nuova sbarra alla cella in cui sei prigioniero. Già, perché con quei soldi in più che ti ritroverai sul conto si attiverà quello che in economia si chiama effetto reddito: aumenteranno i tuoi consumi. E andrai a fare il mutuo per comprare la casa in collina, di fatto rendendo indispensabili quei cinque euro aggiuntivi: non potrai più farne a meno, e siccome ti sentirai in obbligo per il riconoscimento ricevuto, che percepirai come un invito a fare ancora meglio in futuro, lavorerai ancora di più. La prigione mentale in cui ti ritrovi sarà più forte, le barriere all’uscita saranno aumentate: avrai più da perdere di prima, quindi sarai meno libero.

Così funziona il sistema che ci tiene incatenati: sfrutta i nostri bisogni, la maggior parte dei quali fittizi e irreali, per tenerci inchiodati, saldi al nostro posto. Compito del marketing è quello di creare nuovi bisogni, convincerti che al giorno d’oggi una macchina per affilare il burro è indispensabile. Milioni di burattini che vanno a lavorare per pagare le rate del SUV che serve loro per andare a lavorare.

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Poi forse un giorno aprirai gli occhi, forse quando sarà troppo tardi ed il tuo tempo sarà agli sgoccioli, e allora ti renderai conto che non eri tu a volere la casa in collina, ma era lei a volere te. Che non sei stato tu ad acquistarla, ma lei che si è impossessata di te. Che la vera ricchezza non si raggiunge aumentando la capacità di acquisto, ma eliminando i falsi bisogni. Ma a quel punto la campana suonerà, e tu non avrai più tempo per porre rimedio.

Non aspettare quel momento, fallo ora!

Io non appartengo più


Oggi è il mio ultimo giorno da lavoratore dipendente.

Non appartengo più ad un’azienda che in tredici anni mi ha dato tanto, creata da un uomo con pregi e difetti, ma che è sicuramente fuori dal solco, grazie al quale ho vissuto momenti di crescita, scoramento, entusiasmo, incazzatura, gratificazione. E’ anche grazie a lui se ho imparato ad essere pragmatico, a copiare con creatività l’esistente reinventandolo in modo innovativo, e soprattutto il fatto che la realtà può essere bella o brutta, dipende da come la sai descrivere e comunicare agli altri: una minaccia o un’opportunità.

Non appartengo più ad un ruolo che mi ha permesso di fare esperienze degne di rispetto, portandomi in svariate parti d’Italia nonché all’estero: Danimarca, Irlanda, Bulgaria…

Non appartengo più ad una cerchia di colleghi ai quali puoi voltare la schiena senza temere sorprese, persone semplici, affidabili, giocose, vicine. Parti di me. Con loro gli ormai tradizionali barbecue di primavera e cene di Natale bootleg sono diventati un modo per uscire dagli schemi del formalismo aziendale, momenti di relazione fra persone, dove la parola collega, a ben vedere, è decisamente fuori posto. A questa cerchia di amici mi piacerebbe continuare ad appartenere, se lo vorranno.

Perché dunque abbandonare un ambiente così gradevole? Intendiamoci, non vorrei sembrare troppo mieloso: va comunque tenuto presente che il ricordo stempera i momenti negativi, livella l’esperienza eliminando le code della gaussiana. Se avessi scritto le mie considerazioni in particolari momenti della mia carriera aziendale avresti trovato questo articolo molto più colorito. Ma non è questo il punto.

Il punto è che non appartengo più ad un modo di pensare il lavoro che ritengo ormai vecchio, fatto di orari, attenzione ai mezzi e non al risultato, apparente sicurezza; nel quale si pensa che quest’ultima scaturisca magicamente da un contratto formale, dall’ala protettiva di un sindacato. Come se un pezzo di carta potesse impedire alla democratica falce della vita di operare indiscriminatamente.

In questi anni ho maturato la convinzione che la vera Sicurezza derivi dalla crescita personale, dall’evoluzione della propria essenza, che ci rende più forti ed in grado di affrontare le difficoltà, imprevedibili, che la vita ci riserva. Una crescita che deve passare obbligatoriamente per la fatica. Non sentirti sicuro quando hai previsto tutto, ma quando sei in grado di gestire l’imprevisto.

Ma ho anche capito che parlare non basta: bisogna mettere in pratica. E con la decisione di non appartenere più, voglio provare a farlo. Non senza paure, certo. Il Silvio che è in me ha cercato più volte di ribellarsi (fra l’altro ho la vaga sensazione che stia introducendo forme autocelebrative in ciò che sto ora scrivendo). Ma come ti dicevo, ho deciso di non ascoltarlo più.

Preferisco provare e sbagliare, che non provare affatto. Se non sarò all’altezza del cambiamento, tornerò alla – rispettabile e dignitosa! – vita del lavoratore dipendente.

Il pendolo e le aspettative adattive


E’ da un po’ di tempo che osservo i miei stati d’umore altalenanti, alla ricerca delle loro cause e di un modo per averne maggior controllo.

Esistono in realtà varie spiegazioni del fenomeno, sulle quali non mi voglio qui soffermare; ho voluto invece trovare una mia risposta, per la formulazione della quale mi sono avvalso delle mie reminiscenze degli studi di economia, nella speranza che un probabile premio Nobel possa finalmente livellare la sinusoide delle mie energie psichiche.

No so se hai mai sentito parlare di aspettative adattive: in breve si tratta di un modo (o di una famiglia di modi) con cui si suppone gli operatori economici (produttori, consumatori) formulino le proprie opinioni circa un evento futuro. Dal punto di vista economico è molto importante capire questi meccanismi, perché da loro può ad esempio dipendere il successo di un nuovo prodotto commerciale o di una manovra finanziaria.

Ebbene, secondo questa teoria gli operatori (ma alla fine parliamo di esseri umani) formulerebbero le proprie attese circa gli eventi futuri basandosi sull’esperienza passata, il che è forse un po’ come scoprire l’acqua calda, ma lasciamo pure che anche gli economisti si guadagnino da vivere. Il punto è che, se oggi le cose mi sono andate bene, il mio umore è alle stelle e sono al massimo dei giri, e mi aspetto che domani continui così.

Ciò che mi accade oggi mi crea un’aspettativa su ciò che accadrà domani.

pendolo

Per esemplificare, supponiamo che il mio superiore giudichi positivamente un mio lavoro, mi elogi e proponga un premio produzione. Io sono contento, identifico questo giudizio sul mio lavoro con un giudizio sulla mia persona, e mi pongo mentalmente su un gradino più alto.

Il mio umore è al massimo, oggi è stata una grande giornata. Finalmente le mie capacità sono state valorizzate; chissà poi che dirà il capo quando vedrà questo nuovo progetto che sto portando a termine: lo stupirò ulteriormente, sento aria di promozione.

Ciò che è successo oggi mi crea aspettative per domani; e siccome non mi accontento, devo dare il massimo, per fare ancora meglio: so di essere sulla strada buona.

Passa una settimana, il nuovo lavoro è terminato e lo sottopongo al superiore, che lo accoglie tiepidamente; non lo denigra, mi dice che va bene, ma neppure lo esalta; suggerisce alcuni miglioramenti. Ma come, io ho dato il massimo! Perché non mi viene riconosciuto? Dove ho sbagliato?

Il mio umore inizia a declinare, la terra comincia a mancarmi sotto i piedi; oggi non è stata granché come giornata, e domani non sarà certo migliore.

In realtà si tratta puramente di costruzioni mentali che nulla hanno a che vedere con la realtà; la magagna sta tutta nell’aspettativa sul futuro: tolta quella, tolti i malesseri. Riflettendoci, non avevo alcuna ragione di pensare che anche il nuovo lavoro sarebbe stato accolto con bottiglie di champagne, solo perché ciò è accaduto col precedente; e forse anche il mio superiore si aspettava da me qualcosa di più solo perché avevo svolto bene il compito precedente, e questo ha senza dubbio contribuito ad alzare l’asticella.

Se il buon andamento di oggi mi suggerisce un buon andamento per domani e io me lo aspetto, le probabilità che domani sia percepito peggiore di oggi aumentano, anche solo per un mero fatto statistico e di prospettiva.

Non so come sia per te, ma per quanto mi riguarda tutto questo accade molto frequentemente; nonostante gli sforzi, ancora non riesco ad essere veramente libero da aspettative.

Ho ancora parecchio da lavorare sulla sinusoide.

Il Fronte di Liberazione della Gallina


Devi sapere che io ed i miei figli facciamo parte del Fronte di Liberazione della Gallina.
Di che si tratta? Presto detto. La mia anziana madre, esponente di una scuola contadina di vecchio stampo, ha un pollaio con quattro galline, che alimenta quotidianamente fornendo loro mangime ed acqua in abbondanza, spesso anche pastoni a base di pane e crusca. Le galline non devono fare il benché minimo sforzo per sopravvivere (produrre uova rientra nel loro ciclo biologico, non si può certo configurare come attività lavorativa), a loro non manca nulla se non la possibilità di razzolare liberamente nell’ampio prato nel retro della casa.
Ora, è risaputo che il pollo allevato a terra produce uova di migliore qualità rispetto a quello allevato in cattività o peggio in batteria, quindi è iniziata prima blandamente, poi sempre più intensamente, una battaglia per liberare le galline dal giogo del pollaio, che nell’ottica del Fronte rivoluzionario deve rappresentare un ricovero per la notte, non una prigione.
Passando nei pressi di casa mia potresti vedere pertanto scene divertenti e un po’ surreali in cui un’anziana donna raduna le galline nel pollaio e poi, dopo che si è allontanata, due bambini (ebbene si, io sono la mente del movimento e loro il braccio operativo) le liberano nuovamente portandole a razzolare nell’aia; a volte potresti assistere a discussioni animate circa l’opportunità di rimetterle nel recinto per evitare che scavino nell’aiuola o nell’orto, o circa i benefici salutari ma anche economici derivanti da un’alimentazione ricavata direttamente dalle risorse del terreno.
Credo che non si troverà mai un accordo fra la vecchia scuola di pensiero e la nuova; certo, la libertà va gestita, ci vorrà parecchio tempo prima che le galline imparino ad evitare le zone interdette, non si possono programmare come i robottini aspirapolvere. Ma i membri del Fronte non hanno dubbi: questa è la strada, per quanto difficile va percorsa fino in fondo, sentono che è quella giusta.

gallina_intelligente

L’altro giorno, rientrando in ufficio dopo la pausa pranzo e osservando la transumanza di impiegati che convergevano verso i luoghi di lavoro, non ho potuto fare a meno di attivare il collegamento: caspita, anche io sono come le galline! Mi danno il mangime in cambio delle uova (fra l’altro non mi riesce neanche troppo spontaneo farle), uova che non sono di eccelsa qualità perché prodotte in condizioni sub ottimali (luoghi chiusi, stretta vicinanza con individui dalle abitudini diverse dalle mie, orari rigidi, inevitabile scollamento fra le mie esigenze e quelle dell’azienda), ma tutto sommato non ho grosse preoccupazioni, ho l’illusione del posto fisso! E come le galline ormai abituate alla cattività, se anche la porta è aperta io non esco, perché ho paura, o forse solo per inerzia. Ho troppo da perdere a guadagnarmi la libertà? O forse non ho la piena percezione di quanto piacevole sarebbe? Certo, non si tratterebbe di libertà incondizionata, dovrei pur sempre evitare di razzolare nell’aiuola o nell’orto, dovrei fare attenzione che qualche cane sciolto non mi scambi per una pernice, però che ampio prato avrei a mia disposizione!

Le oscillazioni della vita


La nostra economia sta attraversando un periodo di crisi, non c’è media che si stanchi di ricordarcelo. Mi chiedo, ma cos’è esattamente questa crisi? E soprattutto, se adesso stiamo peggio di prima, vuol dire che un tempo stavamo meglio, eppure non ricordo alcuna notizia che dicesse: “l’economia sta attraversando un periodo di abbondanza”; ne deduco che dev’essere parecchio tempo che le cose non fanno che peggiorare… o forse la vera risposta è in questo articolo.

Sicuramente ci rendiamo più conto dei peggioramenti che dei miglioramenti… in ogni caso, è innegabile che la crisi riguardi anche le nostre vite: ti sarà certamente capitato di affrontare dei periodi negativi, in cui tutto sembra andare per il verso sbagliato…

Ebbene, con questo articolo vorrei dare una lettura fuori dal solco del fenomeno, chiamandolo col suo vero nome: opportunità.

Partiamo da qui: secondo te, data una situazione di equilibrio è possibile raggiungerne una migliore? La risposta è si, ma ad un prezzo: rompere l’equilibrio, e passare di conseguenza attraverso una fase di crisi.

Un esempio? La tua casa è mal disposta, dovresti buttar giù quel muro e aprire una porta in quell’altro. Chi ha vissuto questa esperienza non avrà esitazioni a chiamarla ‘periodo di crisi’, soprattutto se si è occupato di rimuovere la polvere lasciata in giro dai muratori. Eppure è stata una crisi necessaria, vissuta con fastidio sì, ma con la prospettiva di un futuro migliore, perché finalmente ci si è potuti comprare quella cucina che ci piaceva tanto.

Un altro esempio: sono stanco dell’attuale posto di lavoro, decido di cambiare; dovrò passare iniziali momenti di difficoltà, in cui mi trovo ad essere l’ultimo arrivato, a dovermi ambientare, privo di punti di riferimento; ma dopo qualche mese, quando sarò entrato a far parte degli ingranaggi della nuova macchina, sarò ripagato di tutti gli sforzi.

Ogni fase di assestamento deve passare per un brutto periodo, e la mia lettura vuole che sia vero anche il viceversa: ogni brutto periodo deve significare una transizione verso un equilibrio migliore.

Ecco come la vedo io:

crisi

Come vedi, nella figura sono rappresentati gli alti e i bassi della vita, ma con un’importante caratteristica: ogni punto di massimo è più alto di quello precedente; potrai obiettare che potrebbe anche essere il contrario, cioè che sia più basso, ma io ribatto che questo è quello che accade a chi insiste a riempirsi la bocca con la parola crisi e a piangersi addosso invece di cogliere le opportunità.

Credo fermamente che le persone che hanno raggiunto il successo (qualsiasi cosa significhi questa parola, raccomandati esclusi) abbiano ragionato così.

A chi è sportivo, questa figura ricorderà anche il meccanismo della super compensazione: a seguito di uno sforzo prolungato, le energie del corpo si abbassano raggiungendo una soglia minima. Segue poi una fase di recupero in cui si riacquistano le forze, che è fondamentale nell’allenamento: in questa fase, il corpo non ritorna esattamente ai livelli potenziali in cui si trovava prima, ma un po’ al di sopra: è per questo che periodi di sforzo opportunamente intervallati da periodi di riposo producono un miglioramento della risposta fisica.

E se questo vale per il corpo, perché mai non dovrebbe applicarsi al cervello, o alle dinamiche della vita? Il corpo umano non è che un’applicazione di principi di funzionamento universali su cui poggia ogni fenomeno fisico.

Illazioni, certo, speculazioni. Mica ho le prove scientifiche di ciò che dico.

Ma se poi funzionasse?

I lavori socialmente utili


Qualche giorno fa i miei figli mi hanno chiesto perché devo andare a lavorare.

La prima risposta che mi è venuta in mente è stata qualcosa del tipo ‘lo stipendio ci serve per mangiare’; poi mi sono reso conto che sarebbe stata una non risposta, perché in linea di principio soggetta alla contro domanda: perché mai dovrebbero darti dei soldi per quello che fai?

Allora, con un colpo di genio, ho placato la loro sete di sapere dicendo che tutto quello che abbiamo, dal cibo al computer (per chiamare in causa qualche elemento a loro caro) lo possediamo in virtù del fatto che qualcuno ha lavorato o sta lavorando per mettercelo a disposizione. Se il contadino non lavorasse la terra, non avremmo la verdura, o il grano, che grazie a qualcun altro diventa farina e poi pasta.

Insomma, il senso del lavoro di ognuno è legato al fare qualcosa per gli altri, per ricevere direttamente o indirettamente qualcosa in cambio; l’introduzione della moneta ha poi semplificato questo meccanismo, forse al prezzo di snaturarlo un poco, ma il succo non cambia: noi lavoriamo per essere utili alla società al fine ultimo di trarne vantaggio.

-o-o-

Qualche tempo dopo, osservando alla fine della mia giornata lavorativa la collega delle pulizie che entrava nel mio ufficio, ho pensato che grazie a lei io posso lavorare in un ambiente confortevole e salutare, e mi sono riaffiorati alla memoria i discorsi fatti qualche tempo prima con i bambini.

In quel momento è maturata una riflessione: l’utilità sociale della collega delle pulizie è intrinsecamente legata al fatto che qualcun altro lavora; se gli uffici fossero vuoti, non ci sarebbe bisogno di pulire alcunché. La collega ha quindi sì un’utilità sociale, ma indiretta: non sta producendo qualcosa a beneficio del consumatore finale. Sta lavorando per chi lavora.

Non che io stia messo meglio: per inciso, faccio il programmatore, e sviluppo librerie di software, ossia ‘mattoncini’ che utilizzeranno poi altri programmatori. Quindi anche io non sto producendo nulla per il consumatore finale: lavoro per i lavoratori.

Bene, abbiamo già due (categorie di) lavoratori di cui al consumatore finale, per quella che è la percezione dei suoi bisogni, non potrebbe fregare di meno. Ma non finisce qui.

Il collega della stanza a fianco utilizza il prodotto della mia fatica per mettere insieme un’applicazione per la fatturazione. Anche lui sta lavorando per un altro lavoratore, ossia l’addetto all’ufficio vendite del grossista di libri che rifornisce, supponiamo, tutte le librerie della provincia.

Anche l’addetto dell’ufficio vendite lavora per un lavoratore, l’imprenditore grossista, il quale a sua volta lavora per il titolare del negozio di libri che hai sotto casa.

Dopo la lettura di questo mio articolo, decidi che forse è opportuno dedicarsi a qualcosa di meglio ed esci per comprare un libro.

Ed eccoti il libraio: è il primo lavoratore, fra i personaggi finora incontrati, che fatica direttamente per il consumatore finale,  l’unico ad avere la ragionevole certezza che qualcuno trarrà beneficio dal suo operato: nella fattispecie godendo di una – finalmente – buona lettura.

In quel libro confluiscono migliaia di ore, lavorate da migliaia di lavoratori diversi, che costituiscono la base di una piramide di cui tu sei il vertice. Vista al contrario, il mio lavoro si spalma su migliaia di persone che fanno parte di una piramide rovesciata di cui io rappresento con fatica la punta di appoggio inferiore; la maggior parte di loro non ha la più pallida idea della mia esistenza, né che anche un pezzettino del mio lavoro è finito in ciò che in quel momento sta consumando.

A questo punto mi sorgono una serie di domande.

  • A quanto ammonta il totale delle ore lavorate complessivamente in questa catena, e quante di queste si traducono effettivamente in un beneficio per il consumatore?
  • Quanto influisce la complessità di questo macchinario sulle inefficienze dello stesso?
  • Esiste al suo interno qualcuno che lavora ma di cui si potrebbe fare tranquillamente a meno (si badi: non perché nullafacente, ma perché impegnato in un compito che non serve)?

lavoro per il lavoro

Al di là di situazioni da cortocircuito da cui il geniale messaggio dell’immagine sopra, che pure esistono, una cosa mi pare certa: quanto più è corta la distanza, misurata in termini di numero di intermediari, fra chi lavora e chi consuma, tanto più il lavoratore ha certezza che la sua fatica serva a qualcosa. E’ un po’ come comprare verdura a chilometro zero.

Non è un problema strettamente legato ad una attività: la collega delle pulizie, a parità di lavoro, se opera a casa propria o di un privato ha una misurabilità massima della propria utilità sociale, che diventa invece dubbia quando opera nel mio ufficio; se nel mio tempo libero miglioro, in veste di programmatore,  il sito dedicato alla mountain bike, ho la (per lo meno verificabile) certezza di apportare beneficio a qualcuno (gli amici che lo consultano); lo stesso non posso dire per ciò che faccio nelle otto ore passate in ufficio.

E qui so già che, vista l’enorme stima che nutri nei miei confronti, hai delle obiezioni: mi dirai che i miei colleghi traggono beneficio dal mio lavoro, senza il quale non potrebbero fare, o farebbero con più difficoltà, il proprio. Può darsi, ma i beneficiari in quanto lavoratori, in questo ragionamento non contano: contano solo i consumatori finali.

Se io lavoro per un lavoratore, ciò che faccio ha senso solo nella misura in cui il lavoro di quest’ultimo serve ad altri, e così via fino alla fine della catena al cui estremo si trova, per definizione, il consumatore finale, l’unico degno di attenzione, l’unico che fa nascere l’esigenza nativa di lavoro altrui.

Credo che ognuno di noi debba imparare a convivere quotidianamente con la domanda: ‘ma il mio lavoro a chi serve?’, ed applicarla a tutto ciò che fa nella propria vita; non per dare giudizi di valore, ma per avere una maggiore consapevolezza del proprio ruolo nella società, e magari anticipare situazioni drammatiche quali la perdita dell’impiego, capendo per tempo se ciò che sta facendo ha o meno un futuro.

Facciamo un esempio: in Italia si discute in continuazione dell’industria automobilistica, perché rappresenta, assieme all’indotto, una grossa fetta di posti di lavoro; ma alla persona sensata che osserva le città ingorgate o le situazioni da bollino rosso nei week end di agosto, non sorge il dubbio che forse ci sono troppe auto in circolazione e che chi lavora in quell’industria sta producendo qualcosa che, considerata in quei volumi, alla società non serve?

Concludo con una domanda provocatoria: chi è più utile alla società, colui che non lavora e consuma soltanto, magari grazie ai soldi del papi, oppure l’indefesso lavoratore che produce beni che nessuno userà? Il primo ha quantomeno il merito di dare un significato alla vita di altri, godendosi il frutto, opportunamente rimunerato, della loro fatica…

La carriera di Fantozzi


In questo articolo voglio esternare il mio disaccordo su una certa concezione del mondo del lavoro, ahimé ormai consolidata e ben vista dai più; per la quasi totalità delle persone, quello che vado ora a sollevare è un non problema, un’assurdità, quasi un delirio. Pazienza, lo faccio lo stesso.

Voglio parlare di crescita sul posto di lavoro.

Immagino che queste parole avranno richiamato in te il concetto di carriera. Suvvia, è piuttosto normale: entri in azienda, lavori bene, con impegno, ottieni dei buoni risultati: insomma meriti un premio. Se sono passati tre-quattro anni e non sei cresciuto di livello, inizi a porti delle domande, magari inizi a guardarti attorno, perché mica puoi arrivare ad una certa età ed essere rimasto al palo. D’altra parte, l’azienda usa come specchio per allodole l’incentivo della promozione per ottenere risultati dai propri dipendenti. Giusto.

carriera

Se ti prendi la briga di consultare un contratto nazionale dei lavoratori, vedrai che viene effettuata una stratificazione delle mansioni in livelli: in basso c’è il ragionier Fantozzi, appena appena in grado di intendere e di volere, in alto c’è il Mega Direttore Gran Lup. Mann., depositario della verità aziendale e oltre. Non ci sono altre dimensioni lungo le quali spostarsi, solo questa. Salire o scendere. Migliorare o peggiorare. Lo stipendio si muove più o meno di conseguenza.

Quindi se sono bravo a pulire piastrelle, e lavoro in un posto dove c’è meritocrazia, dopo qualche anno mi ritroverò a coordinare un gruppo di pulitori di piastrelle. Ma io sono bravo a pulirle, mica a farle pulire ad altri. Magari potrei dar loro dei consigli su come fare, questo si.

Comunque non ho scampo: se voglio crescere in azienda, devo per forza andare in quella direzione. Quindi, siccome ho lavorato bene, mi ritrovo a ricoprire un ruolo che non mi si confa, magari a lavorare di più, ad essere più stressato, meno motivato, a dedicare meno tempo ed energie mentali alle rimanenti cose della vita. Proprio un bel salto di qualità! Comincio a chiedermi se valeva la pena di sbattersi tanto per ottenere tutto questo.

Le regole comunque sono ferree: metti caso perdessi o volessi abbandonare il lavoro, non mi è permesso di ricominciare da capo, siccome ho quasi cinquant’anni non ho accesso all’apprendistato; vorrei tanto diventare cuoco, sarebbe per me un’iniezione di entusiasmo, un ritorno alla gioventù, ma con l’esperienza di pulitore di piastrelle che mi ritrovo questa è proprio un’assurdità! Lascia spazio ai giovani, mi dicono, lascia entrare anche loro in questo tunnel a senso unico.

Allora provo a manifestare il mio malumore con conoscenti, amici e parenti. Ovviamente mi prendono per un alieno, per usare un eufemismo. Mi dicono che sputo nel piatto dove mangio, che non ho idea di quanti altri vorrebbero essere al mio posto. Certo che sono proprio strano, buttare al vento simili occasioni.

Io però non ci sto, non riesco a smettere di sognare una realtà diversa; immagino un mondo in cui, quando sai di aver lavorato bene, puoi sentirti libero di andare dal tuo responsabile a chiedere una riduzione dell’orario di lavoro, non un aumento di stipendio. Un mondo nel quale puoi vantarti con gli amici di non pulire più piastrelle perché sei stato promosso alla posizione di lucidatore di scaffali, ruolo che hai sempre sognato. Un mondo in cui alla carriera verticale (che non voglio demonizzare, beninteso, è perfettamente legittima) si affianca una carriera orizzontale.  Un mondo in cui uguaglianza significhi applicare regole identiche per tutti quelli che si trovano nelle stesse condizioni, non per tutti indiscriminatamente.

Insomma, non sarebbe più meritocratico un insieme di meccanismi che dispensino premi mirati sul singolo invece che su un’astrazione ideale uguale per tutti? Ma attenzione, non è un problema di condotta aziendale quello che io qui sollevo, perché il fenomeno ha portata più generale; il problema è culturale: è la società tutta, insomma siamo noi che ci basiamo su paradigmi mentali troppo rigidi, non rispettando l’essenza dell’individuo, dando per scontata una sola possibile scala di valori.

Anche in questo dovremmo uscire dal solco, la qualità delle nostre vite migliorerebbe sensibilmente, e non ci sarebbero forse più le tragedie da lunedì mattina.