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Il vicolo cieco


Qualche giorno fa la mia amica Lisa mi ha raccontato un fatto che mi ha riempito di ottimismo e mi ha fatto riflettere, lo voglio qui condividere con te; beh, in verità lei non si chiama così, uso degli pseudonimi per proteggere la privacy, e per lo stesso motivo non ti racconterò tutti i dettagli della vicenda, ma lascerò inalterato il succo della storia.

Lisa ha per molti anni rivestito un ruolo di aiuto nei confronti di Filippo, che si trovava e si trova tuttora in uno stato di bisogno; inizialmente questo la faceva stare bene, si sentiva utile ed in pace con sé stessa; fra i due si era venuto a creare un legame molto forte, nel quale Filippo era però di fatto dipendente da lei.

Col passare degli anni questa situazione è venuta a pesare a Lisa, che ha iniziato a non provare più lo slancio e la passione che fino ad allora le avevano fatto vivere con gioia quella relazione di aiuto.

Negli ultimi tempi si era resa conto di non riuscire più a ricoprire un ruolo che adesso viveva come un dovere, ma abbandonare Filippo avrebbe significato dargli un dolore immenso, di questo lei era certa; e di riflesso pure lei sarebbe stata malissimo.

Insomma, era imprigionata in una situazione senza via di uscita: questa la sentenza della sua parte razionale.

Improvvisamente, ecco il fatto inaspettato: un’altra persona entra nella vita di Filippo, una persona che catalizza tutte le sue attenzioni; si tratta di un evento eccezionale nella sua improbabilità, un evento davvero imprevedibile, e tuttavia accade; contemporaneamente lei tocca il fondo, capisce che non ce la fa proprio più ad andare avanti in quella situazione, e forte dei nuovi accadimenti prende la decisione: comunica a Filippo che non potrà più aiutarlo.

Sta malissimo per qualche giorno, tormentata dai sensi di colpa… poi poco a poco il ritorno alla normalità. Gli scenari catastrofici presagiti, nei quali lui avrebbe provato un immenso dolore per l’abbandono(?) di lei, non si verificano, anche grazie alla presenza in scena del nuovo protagonista.

Insomma, quella che a priori sembrava una situazione senza via di uscita, alla fine non si è rivelata tale.

A posteriori.

Quando Lisa mi ha raccontato della sua decisione coraggiosa mi sono sentito pervaso da un’ondata di ottimismo e rinnovata fiducia nella vita, ed ho maturato le riflessioni che ora sto condividendo con te.

Perché era così convinta di non avere via di scampo? La risposta che mi sono dato è: perché usava la mente per analizzare la situazione. Il cuore (forse l’anima?) le suggeriva che avrebbe dovuto cambiare, ma la mente intimava che non era possibile, che non c’era margine di azione, tutte le strade disponibili erano precluse perché troppo costose.

Tutte? Ma la ragione non può conoscerle tutte! Essa si basa sul passato, anzi, sulla sola porzione di cui è a conoscenza, e non può fare affidamento sull’infinito bagaglio di possibilità che il futuro ha in serbo.

Insomma, la razionalità è limitata perché non possiede tutti gli elementi necessari per compiere una valutazione adeguata, e tuttavia pretende con presunzione di poterlo fare, col risultato che sovente arriva a conclusioni errate e spesso depotenzianti.

Se penso che la mia tesi di laurea si è basata in gran parte sulla teoria delle decisioni, che pretende di formalizzare dei criteri elevando appunto al rango di teoria tutta questa serie di str… ehm, stupidaggini… mi viene da sorridere e darmi una pacca affettuosa sulla spalla!

Ogni volta che la mente ti intima di lasciar perdere, che non ce la potrai fare, che stai per commettere una sciocchezza… ebbene, mandala delicatamente a quel paese e segui invece ciò che l’istinto suggerisce.

Metti da parte la presuntuosa convinzione di non potercela fare. Anche solo per gioco, così, per vedere almeno una volta che succede. E se non puoi correre e nemmeno camminare, allora impara a volare!

Grazie Lisa.

La mia azienda


La mia azienda è fatta di molte persone. Suddividere in classi è sempre fuorviante, ma tenendolo bene a mente e accettando un po’ di errori di approssimazione potremmo raggrupparle in tre categorie.

  1. Gli operai. Si occupano di creare il prodotto: non è loro richiesto grande spirito di iniziativa se non quello di portare a termine nel migliore dei modi i compiti loro assegnati.  Sono dei bravi esecutori, ma, attenzione, non si tratta di individui stupidi o ignoranti: in caso di emergenza, quando non c’è tempo per chiedere ad altri il da farsi, spetta a loro prendere le decisioni, talvolta anche di portata strategica. Perché loro sono sempre sul pezzo e hanno una velocità di intervento formidabile.
  2. Gli addetti del marketing. Sono i creativi, i sognatori, quelli con la testa perennemente fra le nuvole; spetta a loro individuare le esigenze del mercato, trovare nuove idee per soddisfarle, suggerire la rotta. Sono i trascinatori, gli entusiasti, i motivatori. Hanno il senso del bello, sanno individuare ciò che piace o non piace. Metaforicamente parlando, sono la fonte di calore dell’azienda. Senza di loro, nulla varrebbe la pena di essere fatta.
  3. Gli amministrativi, in senso lato; freddi contabili che misurano l’andamento degli affari, managers, addetti alla gestione e controllo. Spetta a loro indicare la direzione da seguire, dopo aver sistematizzato e razionalizzato l’enorme mole di idee proveniente dall’ufficio marketing.

E poi ci sono io, il proprietario della baracca. Devo occuparmi di coordinare tutti questi soggetti in modo da agevolare il loro lavoro, badando a non soffocare mai le loro potenzialità, e soprattutto facendo il modo che non ci siano sconfinamenti di competenze: ognuno faccia il suo, senza interferire presuntuosamente nel lavoro degli altri.

Ti confesso però che qualche volta cado nella trappola di identificarmi con uno o più di questi reparti, finendo col credere di essere qualcuno di loro. Questo accade soprattutto nei periodi di crisi, quando le cose vanno meno bene.

Invece dovrei essere sempre ben conscio che io non sono la mia azienda.

Certo, devo impegnarmi perché questa resti sempre in buona salute, ma i suoi problemi, in definitiva, non sono i miei. Intendo dire, forse un po’ cinicamente: se l’azienda fallisce, io resto tutto sommato in buona salute, no? Troverò il modo di sbarcare il lunario in altro modo. Morto un Papa, se ne fa un altro.

Ma ora debbo svelarti un piccolo segreto: ti ho ingannato. Nella realtà, io non ho alcuna azienda che corrisponda alla descrizione appena fornita. Però… però…

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…però a ben vedere qualcosa di simile lo posseggo:

  1. Ho un corpo, che con la sua fisicità ed istintività mi permette di muovermi e fare cose.
  2. Ho delle emozioni, che mi indicano al ritmo degli impulsi cardiaci ciò che mi piace e ciò che non mi piace.
  3. Ho una mente razionale, che interviene per fornire uno schema logico e coerente agli input altrimenti scoordinati provenienti dagli altri reparti.

Il parallelo a mio avviso è impressionante: tutto sommato io sono effettivamente titolare di una simile struttura organizzativa. Ma, quel che più conta, io non sono la struttura organizzativa.

Eppure quante volte mi identifico col mio stato di allenamento fisico? Quante volte perseguo il soddisfacimento dei miei desideri contraddittori? Quante volte idolatro al mia razionalità come se fosse l’unica sorgente di verità?

Meglio sarebbe se lasciassi a tutte queste componenti la libertà di svolgere il proprio compito, coordinandone a debita distanza l’attività.

Ma la paura che ho ad accettare di non essere tutto questo, per poi magari scoprire di essere qualcos’altro di poco piacevole o, peggio, di essere nulla, è forte… molto forte… e mi condiziona, e mi limita… mi impedisce di capire chi sono veramente!