Credo che conoscere sé stessi sia un po’ come disegnare la propria immagine idealizzata su un grande foglio bianco.
Si inizia con qualcosa di semplice, e per un po’ si resta appagati.
Poi si avverte la necessità di espandere quei contorni che appaiono limitanti, e altri segni vengono tracciati sul foglio, che gradualmente si va a riempire di linee, curve, sfumature.
Questa attività occupa buona parte della propria vita, e tuttavia quell’immagine continua a lasciare un retrogusto di insoddisfazione, nonostante l’impegno profuso.
Si inizia così a sospettare che, per quanto ci si impegni, il disegno non sarà mai completo.
Allora si attraversa un periodo di smarrimento, di sconforto, di frustrazione.
Poi, anche grazie a quel periodo buio, una sorta di ‘clic’ interiore suggerisce di spostare l’attenzione dai segni sul foglio agli spazi bianchi, dal primo piano allo sfondo.
Questo cambio di prospettiva permette di trascendere il campo, uscire dalle due dimensioni del disegno e comprendere di essere l’intero foglio.
A quel punto appare evidente, e tutto sommato banale, che tutti i segni tracciati servivano solo ad arrivare a questa presa di coscienza, e che non c’era una forma migliore di altre; quale che fosse stata l’immagine avrebbe comunque svolto la sua funzione, forse in un modo tanto più efficace quanto più insoddisfacente poteva sembrare.
Ma per arrivare a questa conclusione, quei segni andavano tracciati.
Nel lontano dicembre 2013 ero agli inizi di un percorso di crescita personale che, dopo una profonda e dolorosa fase di auto osservazione e introspezione, mi ha portato a pubblicare l’articolo La distruzione di Silvio.
Silvio rappresentava una parte scomoda della mia personalità, limitante e foriera di problemi,e quell’articolo era una formale dichiarazione di guerra nei suoi confronti: per evolvere dovevo assolutamente liberarmene, dovevo farla fuori.
Sono passati un po’ di anni da allora, e posso dire con orgoglio di essere cresciuto, almeno un poco.
Ti starai forse domandando se sono finalmente riuscito a liberarmi di Silvio.
Nemmeno un po’, è tuttora presente e più che mai bisognoso di attenzioni. La mia crescita non sta in questo, ma nel fatto che mi sono accorto di non pensarla più come allora.
Sono profondamente convinto che cambiare opinione sia l’indice più genuino di crescita personale, pertanto non vivo questo cambio di rotta come una sconfitta ma come un successo.
E non mi sento nemmeno di affermare che allora stessi sbagliando, per nulla. Perché data la situazione di vita in cui mi trovavo sette anni fa (sette: per certe tradizioni esoteriche questo numero ha significati ben precisi), date le informazioni a mia disposizione, data tutta una serie di variabili al contorno, quello era il miglior atteggiamento che mi potessi permettere. Come d’altronde quello proposto nel presente articolo è il migliore per il contesto di vita attuale, e mi auguro proprio che non sia definitivo, di poterlo trascendere in futuro (trascendere, non disconoscere!) per evolvere ulteriormente.
Cosa penso dunque di Silvio oggi?
Penso che sia un bambino che ha sofferto tanto e che si comporta così solo perché vuole attenzioni, quelle attenzioni che nessuno gli ha mai dato; vuole il riconoscimento di cui ha bisogno. Io sono l’unico che può accoglierlo, perché solo io lo conosco così bene. Tentare di allontanarlo non può che sortire l’effetto contrario: farlo urlare ancor più forte, perché lui ha bisogno di essere visto.
E poi, a pensarci bene, Silvio è stato un mio valido alleato per molti anni: è nato per proteggermi dal mondo di allora, e se bene o male oggi sono qui è anche grazie a lui.
No, Silvio non deve essere fatto fuori! Va coccolato, ringraziato, ascoltato quando serve: perché bisogna riconoscere che può ancora rivelarsi un valido alleato.
Credo proprio che io e Silvio diventeremo buoni amici.
Il re governava con saggezza e rettitudine il piccolo regno di Anéros, che da parecchi anni si sviluppava florido e felice.
Era affiancato da un valido consigliere, alquanto abile nel fare di conto, al quale chiedeva aiuto ogniqualvolta fossero richieste le sue impareggiabili qualità logiche e calcolatrici, per trovare soluzione a quei piccoli o grandi problemi pratici che l’attività di ogni sovrano incontra nel quotidiano .
Il regno traeva sostentamento dal lavoro contadino: ogni suddito disponeva di un adeguato appezzamento di terreno, dei cui frutti beneficiava direttamente la famiglia e, in via residuale, la casa regnante, quale giusto compenso per l’attività di governo, nonché tutte le rimanenti figure ausiliarie.
Fra queste, un ruolo molto importante era ricoperto dai cosiddetti commedianti: poliedrici personaggi il cui compito era intrattenere, svagare, motivare, nei momenti difficili rincuorare la popolazione, indossando di volta in volta la veste di giullare, di canterino, di giocoliere, di attore comico o drammatico.
La semplicità di quella struttura sociale garantiva stabilità, equilibrio e abbondanza al regno, i cui membri si sentivano amati e valorizzati, ciascuno nella propria peculiare individualità, dal sovrano, che aveva cura di non trascurare nessuno ed era sempre pronto ad ascoltare le esigenze di ogni suddito.
Un brutto giorno il re, in un momento di particolare affaticamento, ebbe la cattiva idea di delegare una decisione al proprio consigliere; quest’ultimo si sentì molto onorato di quell’investitura, e mise in campo tutte le proprie forze ed energie per non deludere le aspettative del committente.
Riuscì nel compito con grande successo, e il re fu molto soddisfatto della decisione presa in sua vece dal proprio aiutante, al punto da ripetere l’esperimento, che sembrava non avere alcuna controindicazione: il consigliere era ben contento di sentirsi, anche solo per un momento, nel ruolo del sovrano, e quest’ultimo si sentiva sollevato da una fatica che diventava via via più grande con l’avanzare dell’età.
Imboccata questa strada, non si tardò a raggiungere il punto in cui divenne in discesa, una discesa dalla forte pendenza che faceva aumentare la velocità e rendeva sempre più difficile tornare indietro.
Fu così che il re, reso pigro dalla diminuzione del carico di lavoro, cessò del tutto di occuparsi del proprio regno, lasciando carta bianca al consigliere.
Quest’ultimo, viste le eccelse doti logiche e la predisposizione naturale ad eseguire con efficienza i compiti minimizzando i costi e massimizzando i ricavi, non tardò a trovare delle regole che gli permettessero di prendere decisioni in automatico, senza la minima fatica: aveva infatti capito che dopo un po’ i casi da affrontare si ripetevano nella struttura di base, ed era pertanto possibile attingere a un sia pur lungo elenco di casistiche per associare in automatico ad ogni problema la soluzione più appropriata, sfruttando l’esperienza del passato per evitare la fatica contingente.
Grazie a questa intuizione geniale venne stilato il manuale del regnante, un pesante e voluminoso tomo che elencava tutti i possibili problemi del popolo con le rispettive decisioni da adottare.
Si venne così a delineare un nuovo equilibrio, nel quale il sovrano restava a letto fino a tardi, si alzava solo per mangiare e poi poltriva pigramente spostandosi dal trono alle numerose poltrone presenti nel castello, per poi tornare a letto la sera in un ripetitivo trascinarsi senza meta.
Il consigliere, dal canto suo, si pasceva nel delirio di onnipotenza, avendo a tutti gli effetti preso il posto del re.
Ma gli automatismi a cui ricorreva per governare il regno non erano per nulla infallibili: le problematiche che di volta in volta emergevano non erano sempre perfettamente corrispondenti alle casistiche contemplate dal manuale, anche se ad un primo sguardo superficiale poteva sembrare così.
I sudditi cominciarono ad avvertire un crescente malessere, mentre i commedianti iniziarono ad esagerare le proprie messe in scena, spargendo talvoltapaura e panico ingiustificato fra la popolazione, talvolta euforia eccessiva, stimolando e favorendo comportamenti contraddittori che portarono a conflitti interni al regno.
Gruppi di contadini si schierarono in una fazione di euforici che volevano sempre e solo gioia e felicità; altri in una fazione di sofferenti che anelavano alla fatica e al lavoro duro e disprezzavano coloro che pensavano diversamente; molte altre fazioni vennero a crearsi, e ciascuna traeva energia dal commediante di riferimento che di volta in volta portava in scena l’emozione predominante, sotto la regia delle cieche regole del consigliere.
Ben presto il caos si diffuse in tutta la collettività, che aveva perso unitarietà per ritrovarsi frammentata in una molteplicità di correnti in contrasto fra loro; le lotte intestine e le ribellioni dei contadini divennero vere e proprie malattie in seno al regno, che ormai, gravemente malato, si avviava al declino.
Il destino non era ancora segnato, ma per evitare il peggio era indispensabile che il re si risvegliasse, e togliesse lo scettro del potere dalle mani dello scellerato consigliere.
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E tu, caro lettore, cosa ne pensi? Anche tu, come me, ti senti come il sovrano addormentato col corpo in balia delle emozioni? Anche tu, come me, reputi che sia finalmente giunto il momento di disubbidirealle rigide regole imposte della mente?
Quello che mi piace di una sfera è che sulla sua superficie qualsiasi punto può essere considerato un centro; è così che da sempre immagino l’infinito, ed è questa la forma che sembrerebbe avere l’Universo in cui viviamo.
Quando negli anni trenta Edwin Hubble osservò che le galassie si stavano allontanando una dall’altra, ebbe la curiosa impressione che la nostra Via Lattea fosse al centro dell’espansione, un pensiero decisamente in odore di geocentrismo tolemaico per essere aderente alla realtà.
L’ipotesi che l’Universo sia in realtà la superficie di una sfera a quattro dimensioni ci sottrae da quella presunzione di centralità che da sempre cerchiamo di arrogarci: immaginando dei puntini disegnati sulla superficie di un palloncino, infatti, se questo si gonfia (l’equivalente dell’Universo che si espande), ogni puntino si allontana da tutti gli altri e può essere ragionevolmente considerato come il centro dell’espansione, anche se si tratta solo di un mero gioco di vedute.
Ed è attraverso questa metafora che mi piace guardare all’illusione del mio ego: dal mio punto di vista tutto ruota attorno a me, e mi sento a buon diritto al centro di ogni cosa, e lo stesso immagino capiti a te… ma siamo solo dei puntini sulla superficie della sfera della vita: tutti sono al centro, ma non lo è nessuno.
Beh… ‘solo’ è un po’ riduttivo: siamo dei meravigliosi puntini su quella superficie, ma se impariamo a collocarci nella giusta ottica capiamo che la nostra vera essenza è la sfera, e non il puntino.
Mi capita talvolta di osservarmi e di notare una forte contraddizione.
Da un lato tengo comportamenti che tradiscono una bassa autostima ed una scarsa fiducia in me: penso che il mondo sia un posto difficile in cui vivere, mi guardo intorno e vedo tanti problemi e poche sfide, raramente mi metto alla prova, temo i riflettori, evito la competizione per paura della classifica.
Dall’altro lato, invece, mostro di valutarmi assai: difendo strenuamente la mia persona verso l’esterno, non accetto di essere svilito in pubblico, prendo le osservazioni nei miei riguardi come affronti personali e sono attaccato alle questioni di principio, perché è necessario che il mondo sappia che a me nessuno può mettere i piedi in testa; guidato da questi valori, scivolo talvolta nella supponenza e nell’arroganza.
Mi sono domandato come spiegare questa apparente incoerenza, e mi sono anche dato una risposta: non esiste alcuna contraddizione, perché ci stiamo riferendo a due diverse immagini di me.
I comportamenti del primo tipo nascono da una scarsa considerazione di quella che ritengo essere la mia immagine privata, ciò che penso di essere veramente, mentre quelli del secondo tipo sono relativi all’immagine pubblica, ossia il modo in cui credo di essere visto dagli altri.
Capita spesso che quanto minore sia la considerazione dell’immagine privata, tanto maggiore sia l’esigenza di lustrare per bene e difendere l’immagine pubblica, nel tentativo di compensare o nascondere quello che viene ritenuta una situazione di difetto.
Peccato che sia l’immagine privata sia quella pubblica non siano altro che rappresentazioni mentali che non hanno alcunché di reale; sono solo immagini, per l’appunto, nascono dall’identificazione con i nostri processi razionali e vanno a consolidare una rappresentazione distorta ed illusoria del sé: un falso io che prende il nome di ego.
L’ego è un’ostacolo formidabile allo sviluppo. E’ a causa sua che temiamo tanto il giudizio altrui, che ingaggiamo lotte senza quartiere col vicino di casa, che ci affanniamo in assurde battaglie per difendere posizioni di principio, che rinunciamo ad un’impresa prima ancora di averla cominciata per paura del fallimento.
L’ego nasce spesso come risposta ad un bisogno di accettazione (da parte dei genitori, in particolare) e viene nel tempo ad assumere un’identità a sé stante, inizia a vivere autonomamente a spese del nostro vero io, che viene schiacciato e compresso dall’esuberanza delle due immagini mentali in antitesi.
L’ego è l’attore che vive la vita al nostro posto: l’abbiamo ingaggiato come controfigura e ne abbiamo perso il controllo.
Magari otteniamo successi, raggiungiamo brillanti traguardi, e tuttavia ci sentiamo insoddisfatti; perché? Perché abbiamo soddisfatto i bisogni dell’ego, e non quelli della nostra anima (termine che qui uso senza alcuna accezione mistica o religiosa, ma solo per etichettare la vera essenza di ciascuno di noi).
Anzi, mi capita spesso di osservare quanto il successo sia insidioso da questo punto vista: quante persone conosco dall’ego spropositato, ingigantito dalle conquiste e prigionieri della necessità di mantenere la propria immagine pubblica ai livelli di prestigio raggiunti? Quanta ansia può creare una situazione del genere se per di più l’immagine privata è completamente diversa ed insinua il dubbio che il successo ottenuto sia immeritato?
Ho iniziato a mettere sotto i riflettori queste mie battaglie interiori, le vedo negli altri e capisco che sono fonte di inutile sofferenza perché impediscono di vivere la vita in modo pieno.
L’ego è stata una mia valida difesa per anni, non lo voglio demonizzare, mi ha offerto protezione e gli sono grato: ma adesso è giunto il tempo di crescere; già… ma se non sono ciò che credevo di essere, allora chi sono io?
Mi piace immaginarmi come una sfera; sulla superficie si trovano i miei diversi stati d’animo, che si materializzano nei tanti falsi io con i quali tendo ad interagire con l’ambiente, le varie maschere dell’ego, mentre al centro si trova il mio vero io, la mia essenza.
La sfera ruota, e di volta in volta mostra una faccia diversa: di fronte ad uno stesso evento potrò allora rispondere con fastidio, o con entusiasmo, o con piacere; la mia reazione dipenderà dalla posizione della sfera, non dall’evento in sé.
Ecco come l’amore che provo per qualcuno (o quello che credo tale) possa improvvisamente trasformarsi in odio, dopo una mezza rivoluzione della sfera; ecco come una passione diventa improvvisamente un fastidio, un’attrazione diventa di colpo repulsione.
Tutto questo capita perché vivo in superficie, dove il mare è increspato dalle impetuose onde delle emozioni; ma se riuscissi a scendere in profondità, raggiungere il centro, dove tutto è quiete… la rotazione della sfera non avrebbe più la minima influenza sul mio atteggiamento col mondo, ed io potrei finalmente essere io.
Ti è mai capitato di provare fastidio per qualcuno? Uno di quegli individui che sanno tirare fuori il peggio di te, in grado di rovinarti la giornata, che decisamente non sopporti?
Non aspetto la tua risposta, credo di conoscerla.
Mi auguro d’altra parte che ti sia anche successo di godere della compagnia di una persona che, tutto al contrario, è in grado di farti stare bene, con cui hai una buona sintonia; si parla allora di amicizia e, se appartiene al sesso a te complementare, capita che questo stato d’animo tenda normalmente a sfociare nell’innamoramento.
E mentre per la prima categoria la ricetta è (relativamente) semplice, basta starne lontani (sarà poi così semplice?), per la seconda sorgono talvolta alcune complicazioni. Infatti, poiché imputi il tuo benessere a quella persona, potresti vivere nell’angoscia di perderla: da qui forme di gelosia o di possessività, o più in generale di indebita invadenza nell’altrui sfera esistenziale (eccesso di protezione, asfissiante presenza, consigli non richiesti, ecc…). Arrivando alla conclusione paradossale che, quanto più la persona ti è cara, tanto più rischi di farle del male.
Quella che ti propongo qui ora è un tentativo di lettura diversa; supponiamo che le persone in oggetto non siano le depositarie delle leve per influenzare i tuoi stati d’animo, buoni o cattivi che siano, ma agiscano semplicemente da specchio.
Ossia, chi ti fa incazzare possiede semplicemente delle caratteristiche in grado di attivare un aspetto di te che non sopporti. Lei/lui non c’entra, sei tu a fare tutto il lavoro. Semplicemente, attraverso di lei/lui, viene ad esprimersi una parte di te.
Poco piacevole vero? Concedimi per un istante il beneficio di crederci incondizionatamente: se è davvero così, allora esiste una parte di te che decisamente non ti piace. Sempre se è così, si deduce che ogniqualvolta qualcuno ti fa incazzare sei di fronte ad una buona occasione per capire un poco di più sulla tua essenza; ammesso che tu abbia il coraggio di farlo.
La bella notizia è che nessuno può neppure essere il depositario della tua felicità: le persone che ti fanno stare bene attivano parti di te, che magari non sai di avere, che anche in situazioni di totale solitudine ti permetterebbero di stare altrettanto bene.
Certo, tu dirai: ma se lui/lei non ci fosse più, io non potrei più attivare queste parti di me.
Non è vero. Se il meccanismo in te esiste, è sufficiente che tu trovi il modo di stimolarlo. Sarà senz’altro una grossa difficoltà, lo ammetto, ma se la tua felicità dipendesse esclusivamente da un altro che non c’è più sarebbe molto peggio, sarebbe un’impossibilità.
Lo so, è difficile entrare in quest’ordine di idee. Ma vuoi davvero delegare la tua felicità agli altri? In fondo sei l’unica persona che da sempre è stata e sempre resterà a fianco a te, per tutta la vita…
L’altro giorno ho visitato una mostra sulle opere di Leonardo Da Vinci e di fronte a tanta genialità non ho potuto fare a meno di misurare la distanza fra la sua e la mia persona; questo, invece di infondermi ottimismo sulle immense potenzialità dell’essere umano, ha generato in me tutta una serie di emozioni negative fondamentalmente derivanti dalla mia stupida presunzione, che ho poi analizzato più in dettaglio per capirne la natura; ho deciso di condividere la supposta diagnosi con te, con due scopi: da un lato diffondere la conoscenza di certi meccanismi della mente umana (potrà tornare utile per uscire dal solco), dall’altro puntare i riflettori su una delle mie (tante) personalità che lavorano nell’ombra a mio discapito, nella speranza che metterla alla berlina possa in qualche modo sottrarle energia vitale.
Partiamo dunque dall’esistenza di un io, di cui ero già a conoscenza ma che in quest’occasione si è delineato più nitidamente, che voglio assolutamente far fuori perché mi sta causando parecchi problemi. Te lo presento, tanto per tenere le distanze userò un nome di fantasia, lo chiamerò Silvio. Silvio è cresciuto in me grazie all’educazione, alla scuola, alle esperienze di vita. Mi piace pensare che quando sono nato Silvio non c’era: non è lapalissiano, intendo dire che non fa parte della mia essenza, è venuto dopo.
Silvio è un bambino che va molto bene a scuola, è uno di quei primi della classe che stanno antipatici a tutti ma che fa comodo avere per amici nel momento del bisogno. Quando non hai capito qualcosa sui compiti chiedi a lui, lui ti risolve il problema e si sente fiero. In classe è una star, fuori è nessuno. Lui ne è consapevole, infatti nel suo ambiente ostenta sicurezza, quasi è sbruffone, fuori invece si fa piccolo piccolo, non è mai protagonista, sta sempre sullo sfondo e spesso si sente una macchia che ne altera l’omogeneità. Una delle sue fantasie preferite, quando è fuori dalla scuola che aspetta il pulmino e osserva gli altri bambini giocare, è che arrivi un robot nemico da Vega e attacchi la terra, e lui si trasformi nel supereroe alla guida del robot buono e lo sconfigga fra lo stupore di tutti (per la cronaca ed i meno giovani: si tratta ovviamente di Goldrake).
La madre esalta queste sue doti di bravo studente con chiunque, lo porta in palmo di mano, quando Silvio ha cinque anni lei dimostra ad un conoscente, che domandava come mai Silvio non andasse all’asilo, che non ne ha bisogno, “perché, vede, sa già l’alfabeto”! E come prova Silvio lo recita tutto orgoglioso, invertendo la enne con la emme perché così gli è stato insegnato. Al di fuori di ciò che non è scuola (territorio che la madre non riesce a frequentare in quanto poco scolarizzata), Silvio viene invece protetto e aiutato, perché “è piccolo, non è capace”.
Silvio sviluppa poco a poco una dissociazione fra mondo della scuola (il mondo platonico delle forme dove tutto è perfetto, e per ogni problema c’è soluzione, che Silvio peraltro sa di non avere difficoltà a trovare) e mondo reale (imperfetto, spiacevole, pieno di domande a risposta multipla che a Silvio non piacciono).
In questo contesto, Silvio sogna di dimostrare un giorno a questo mondo che adesso lo ignora che lui è il migliore. E lo fa sviluppando il suo muscolo più pronunciato, quindi studia, legge, si accultura. All’università va alla grande, la sua vita sociale è al top, è un leader, un punto di riferimento!
Quando arriva l’età delle domande sul senso della vita si innamora della fisica, legge libri divulgativi sulla teoria della relatività, la teoria quantistica. Preferisce la matematica alle discipline umanistiche, perché in quel mondo astratto e perfetto fatto di dimostrazioni rigorose si sente al sicuro. Poi scopre l’informatica. Un algoritmo è la sublimazione della perfezione: nulla può uscire dai binari impostati, tutto funziona come un orologio svizzero, non sono ammesse eccezioni, è bello vedere la pulizia di un flusso di operazioni che si susseguono esattamente come hai pianificato! E’ bello avere un interlocutore che esegue alla lettera e senza discutere tutte le istruzioni che gli fornisci!
Per Silvio non sono ammesse soluzioni sub ottimali; le sue azioni devono risolvere il problema in modo perfetto: non gli interessa avvicinarsi all’obiettivo, magari procedendo per approssimazioni successive; o lo centra subito o niente. Avvicinarsi soltanto rappresenta già una sconfitta. Silvio ha anche un’immagine da difendere: nel suo campo deve primeggiare; altrove non vale la pena di sbattersi, non gli interessa. E’ un territorio impuro, lui non si abbassa.
Quindi prima di intraprendere un’azione occorre pensarci bene, perché non si può fallire. E in effetti Silvio riesce quasi sempre nelle poche cose che fa.
Detto questo, va da sé che i punti di riferimento di Silvio non possono che essere figure d’eccellenza, quali appunto Leonardo; ma il suo benchmark preferito è sicuramente Einstein. Qualsiasi opera un uomo possa compiere è poca cosa di fronte a quello che questi uomini hanno fatto, e rappresenta un obiettivo non centrato. Qualsiasi impresa diversa da queste (e nel concreto per Silvio tutte ovviamente lo sono) non vale la pena. Ogni attività di Silvio quindi viene portata avanti senza quella convinzione e quell’energia che sarebbe necessaria, perché tanto è poca cosa… una goccia nel mare, simile a tante altre.
Ecco, in soldoni questo è Silvio: questo è il personaggio a cui ho deciso di dare battaglia, la dichiarazione di guerra formale è rappresentata da questo articolo.
Ti assicuro che è molto forte e subdolo, perché si infila senza farsi notare in ogni cosa che faccio e talvolta mi sprona (‘Dai, fai vedere chi sei! Dimostra a tutti come sei bravo’) talaltra mi frena (‘Per quanto ti impegni, non farai mai qualcosa che sia davvero grande! Riposati che non ne vale la pena’), sbattendomi da un lato all’altro dello spazio delle possibilità. Il suo principale aspetto negativo è che mette davanti a tutto la necessità di dimostrare i propri primati, impedendomi di affrancarmi dal bisogno del benevolo giudizio altrui.
Se sei genitore, fai il possibile per evitare che dentro ai tuoi figli crescano simili personaggi, altrimenti li costringerai a combattere da adulti dure battaglie (ammesso che si rendano conto della necessità di farlo, beninteso).
Per quanto mi riguarda, comunque, il nemico è individuato, adesso è ben visibile, pronto per essere colpito.
Dimostrerò a tutti quanto sono bravo a farlo fuori.