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Impariamo a diventare persone di insuccesso


Ti è mai capitato di cimentarti in un’impresa sapendo a priori che avresti fallito?

Non mi sto riferendo a quell’atteggiamento che quasi tutti abbiamo, quello che ti fa mettere le mani avanti, col quale preannunci che non ce la farai per sentirti in qualche modo nel giusto nel caso arrivi il fallimento temuto; come dire: non ce l’ho fatta, ma tranquilli sono lo stesso OK perché è tutto sotto controllo, l’avevo previsto.

No, io parlo di qualcosa di diverso: hai mai provato a fare qualcosa con la ragionevole certezza di non arrivare, per il semplice gusto di sentire cosa si prova? Per la sfida di riuscire ad accettare un fallimento? Per avere la possibilità di mettere in bacheca un insuccesso?

Ti sembra demenziale vero? Beh, confesso che un poco lo sembra anche a me, ma vediamo cosa si può salvare di questo paradosso, per darlo in pasto alla nostra mente razionale.

Mi è arrivata questa riflessione provocatoria leggendo su internet la pubblicità di un master in coaching; un tutor dall’aspetto prestante prometteva, attraverso l’uso di moderne ed innovative tecniche neuro-bla-bla, di trasformare i discenti in persone di successo. Life coach, coaching aziendale, sport coach.

Mi sono chiesto: ci sarà qualcuno che insegni piuttosto ad essere una persona di insuccesso? Perché, personalmente, è di questo che ho bisogno: imparare ad andare incontro ai fallimenti con la serenità di chi esce a comprare il latte e se trova il negozio chiuso non ne farà un dramma.

A che serve, ti chiederai? Beh, andare deliberatamente incontro ad un frontale con un treno non è di per sé particolarmente utile, ma la capacità di farlo in potenza, quella è fondamentale: perché nella vita nessun risultato è certo, tutto è questione di probabilità. E talvolta essere capaci di commettere qualche follia può condurre a risultati sorprendenti, e forse è davvero l’unico modo per uscire dalla mediocrità della vita ordinaria.

Allenare la mia resilienza, abituarmi a fallire: di questo ho bisogno, non di tecniche che mi indichino la via del successo.

Perché, se guardo indietro al passato, il campo che mi ha sempre visto vincente (quello dello studio), è stato anche lo stesso che mi ha tenuto a lungo imprigionato, sviluppando indiscriminatamente il muscolo mentale a spese dei corpi fisico e emozionale.

Le “imprese” in cui mi cimentavo erano tutte dello stesso tipo, ed ovviamente non fallivo perché il solco diventava sempre più profondo, auto convalidante. Ma alla lunga si viene a creare una zona di comfort che impedisce ogni ulteriore crescita.

Ma poi, mi chiedo: da dove nasce questa esigenza di avere successo? Il desiderio di essere vincente non lascia in qualche modo intendere che così come sono non vado bene? E se ammettiamo che ogni evoluzione deve partire da una base sicura, forse devo proprio iniziare a convivere serenamente col mio stato di (per usare l’improprio linguaggio della mente) perdente. 

 

Mi considerano, ergo sum…


Voglio qui riassumere e sistematizzare un po’ di spunti che ho raccolto negli ultimi tempi in tema pedagogico.

Questo articolo ha due chiavi di lettura:

  • da genitore, come indicazione per evitare alcuni errori che invece io ho fatto a più riprese e sui quali sto attualmente lavorando;
  • da figlio, per capire il perché di certi tuoi atteggiamenti nei confronti della vita, posto che anche tu potresti essere vittima degli stessi errori. Io ho la certezza di esserlo.

Partiamo da una considerazione: cosa ti fa capire che esisti? Detto diversamente: quali sono le informazioni che ti permettono di pensare a te stesso come persona, come individuo?

Poiché l’uomo è un animale sociale, la stragrande maggioranza di questo patrimonio informativo è costituito da stimoli provenienti da altri esseri umani; nell’infanzia in particolare da genitori ed educatori. Di fatto, ti rendi conto di esistere quando ricevi dei feedback da qualcuno. Non solo, dalla tipologia di questi feedback capisci anche che genere di persona sei.

Immagina ora un bambino che riceva solo feedback di tipo negativo: questo è sbagliato, così non si fa, vieni via da lì, stai attento, adesso basta, finiscila, eccetera eccetera; che immagine di sé pensi possa costruire? Quale autostima svilupperà? Quale sarà la sua attitudine ad affrontare le difficoltà della vita?

La tendenza del genitore è spesso quella di intervenire a correzione di comportamenti che non vanno, piuttosto che a corroborare comportamenti virtuosi; se il bambino gioca a palla in un prato non viene considerato granché, se si sposta a fare l’equilibrista su un muretto viene ripreso con vigore. Alla fine si crea un meccanismo che va a filtrare i soli feedback di tipo negativo, posto che quelli di tipo positivo sono ritenuti superflui.

Piano piano si andrà a consolidare la tendenza a costruire un’immagine di sé distorta, sbilanciata a favore del giudizio negativo di sé: ‘tutto quello che faccio è sbagliato!” e quindi: ‘IO sono sbagliato’.

Capisci come, date queste premesse, la tua attitudine ad affrontare imprese ardimentose possa essere bassa? Bada bene, ‘ardimentose’ a giudizio tuo, probabilmente ‘ordinarie’ ad un giudizio obiettivo.

L’educazione tende, in totale buona fede, a soffocare le nostre potenzialità, piuttosto che ad incoraggiarle. Ma c’è di peggio.

educazione-bambino

Al bambino piace l’idea di esistere come individuo, ogni conferma della sua esistenza è gratificante. E siccome esiste quando riceve l’attenzione in particolare di mamma e papà, farà qualsiasi cosa gli permetta di ricevere questa attenzione.

Che succede quindi se mamma e papà lo considerano solo quando fa qualcosa che non va? Farà proprio quella cosa, ovvio!

Io so che i capricci per mangiare non si fanno, però se mangio tutto da bravo bambino la mamma non mi considera granché, mentre se mi lamento e dico che il pranzo non mi piace mi regala un sacco di attenzioni; cosa pensi che farò?

Qui molti genitori avranno da ridire: non è vero, quando mio figlio si comporta bene glielo faccio sempre notare. Certo. Ma vuoi per un attimo paragonare la carica di energia che metti nell’elargire un ‘bravo’ con quella che ti permette di fiondarti sul figlio che sta a tuo avviso per cascare dai due metri del muretto?

Dedica qualche tempo ad osservare queste dinamiche, ne vale la pena.

Cosa succede poi se il figlio cade e, preso dallo spavento, si mette a piangere? Forse in prima battuta lo sgridi, più probabilmente lo prendi in braccio e lo consoli, in ogni caso gli dedichi tutta la tua persona, anche se in definitiva non si è fatto nulla.

Adesso proietta quel figlio nell’età adulta: la caduta dal muretto si traduce in ‘licenziamento’. Pensi che il bambino si rialzerà per cercare una nuova occupazione, oppure si metterà a piangere andando a cercare la mamma dai sindacati?

La distruzione di Silvio


L’altro giorno ho visitato una mostra sulle opere di Leonardo Da Vinci e di fronte a tanta genialità non ho potuto fare a meno di misurare la distanza fra la sua e la mia persona; questo, invece di infondermi ottimismo sulle immense potenzialità dell’essere umano, ha generato in me tutta una serie di emozioni negative fondamentalmente derivanti dalla mia stupida presunzione, che ho poi analizzato più in dettaglio per capirne la natura; ho deciso di condividere la supposta diagnosi con te, con due scopi: da un lato diffondere la conoscenza di certi meccanismi della mente umana (potrà tornare utile per uscire dal solco), dall’altro puntare i riflettori su una delle mie (tante) personalità che lavorano nell’ombra a mio discapito, nella speranza che metterla alla berlina possa in qualche modo sottrarle energia vitale.

Partiamo dunque dall’esistenza di un io, di cui ero già a conoscenza ma che in quest’occasione si è delineato più nitidamente, che voglio assolutamente far fuori perché mi sta causando parecchi problemi. Te lo presento, tanto per tenere le distanze userò un nome di fantasia, lo chiamerò Silvio. Silvio è cresciuto in me grazie all’educazione, alla scuola, alle esperienze di vita. Mi piace pensare che quando sono nato Silvio non c’era: non è lapalissiano, intendo dire che non fa parte della mia essenza, è venuto dopo.

Silvio è un bambino che va molto bene a scuola, è uno di quei primi della classe che stanno antipatici a tutti ma che fa comodo avere per amici nel momento del bisogno. Quando non hai capito qualcosa sui compiti chiedi a lui, lui ti risolve il problema e si sente fiero. In classe è una star, fuori è nessuno. Lui ne è consapevole, infatti nel suo ambiente ostenta sicurezza, quasi è sbruffone, fuori invece si fa piccolo piccolo, non è mai protagonista, sta sempre sullo sfondo e spesso si sente una macchia che ne altera l’omogeneità. Una delle sue fantasie preferite, quando è fuori dalla scuola che aspetta il pulmino e osserva gli altri bambini giocare, è che arrivi un robot nemico da Vega e attacchi la terra, e lui si trasformi nel supereroe alla guida del robot buono e lo sconfigga fra lo stupore di tutti (per la cronaca ed i meno giovani: si tratta ovviamente di Goldrake).

La madre esalta queste sue doti di bravo studente con chiunque, lo porta in palmo di mano, quando Silvio ha cinque anni lei dimostra ad un conoscente, che domandava come mai Silvio non andasse all’asilo, che non ne ha bisogno, “perché, vede, sa già l’alfabeto”! E come prova Silvio lo recita tutto orgoglioso, invertendo la enne con la emme perché così gli è stato insegnato. Al di fuori di ciò che non è scuola (territorio che la madre non riesce a frequentare in quanto poco scolarizzata), Silvio viene invece protetto e aiutato, perché “è piccolo, non è capace”.

Silvio sviluppa poco a poco una dissociazione fra mondo della scuola (il mondo platonico delle forme dove tutto è perfetto, e per ogni problema c’è soluzione, che Silvio peraltro sa di non avere difficoltà a trovare) e mondo reale (imperfetto, spiacevole, pieno di domande a risposta multipla che a Silvio non piacciono).

In questo contesto, Silvio sogna di dimostrare un giorno a questo mondo che adesso lo ignora che lui è il migliore. E lo fa sviluppando il suo muscolo più pronunciato, quindi studia, legge, si accultura. All’università va alla grande, la sua vita sociale è al top, è un leader, un punto di riferimento!

Quando arriva l’età delle domande sul senso della vita si innamora della fisica, legge libri divulgativi sulla teoria della relatività, la teoria quantistica. Preferisce la matematica alle discipline umanistiche, perché in quel mondo astratto e perfetto fatto di dimostrazioni rigorose si sente al sicuro. Poi scopre l’informatica. Un algoritmo è la sublimazione della perfezione: nulla può uscire dai binari impostati, tutto funziona come un orologio svizzero, non sono ammesse eccezioni, è bello vedere la pulizia di un flusso di operazioni che si susseguono esattamente come hai pianificato! E’ bello avere un interlocutore che esegue alla lettera e senza discutere tutte le istruzioni che gli fornisci!

Per Silvio non sono ammesse soluzioni sub ottimali; le sue azioni devono risolvere il problema in modo perfetto: non gli interessa avvicinarsi all’obiettivo, magari procedendo per approssimazioni successive; o lo centra subito o niente. Avvicinarsi soltanto rappresenta già una sconfitta. Silvio ha anche un’immagine da difendere: nel suo campo deve primeggiare; altrove non vale la pena di sbattersi, non gli interessa. E’ un territorio impuro, lui non si abbassa.

Quindi prima di intraprendere un’azione occorre pensarci bene, perché non si può fallire. E in effetti Silvio riesce quasi sempre nelle poche cose che fa.

Detto questo, va da sé che i punti di riferimento di Silvio non possono che essere figure d’eccellenza, quali appunto Leonardo; ma il suo benchmark preferito è sicuramente Einstein. Qualsiasi opera un uomo possa compiere è poca cosa di fronte a quello che questi uomini hanno fatto, e rappresenta un obiettivo non centrato. Qualsiasi impresa diversa da queste (e nel concreto per Silvio tutte ovviamente lo sono) non vale la pena. Ogni attività di Silvio quindi viene portata avanti senza quella convinzione e quell’energia che sarebbe necessaria, perché tanto è poca cosa… una goccia nel mare, simile a tante altre.

Ecco, in soldoni questo è Silvio: questo è il personaggio a cui ho deciso di dare battaglia, la dichiarazione di guerra formale è rappresentata da questo articolo.

Ti assicuro che è molto forte e subdolo, perché si infila senza farsi notare in ogni cosa che faccio e talvolta mi sprona (‘Dai, fai vedere chi sei! Dimostra a tutti come sei bravo’) talaltra mi frena (‘Per quanto ti impegni, non farai mai qualcosa che sia davvero grande! Riposati che non ne vale la pena’), sbattendomi da un lato all’altro dello spazio delle possibilità. Il suo principale aspetto negativo è che mette davanti a tutto la necessità di dimostrare i propri primati, impedendomi di affrancarmi dal bisogno del benevolo giudizio altrui.

Se sei genitore, fai il possibile per evitare che dentro ai tuoi figli crescano simili personaggi, altrimenti li costringerai a combattere da adulti dure battaglie (ammesso che si rendano conto della necessità di farlo, beninteso).

Per quanto mi riguarda, comunque, il nemico è individuato, adesso è ben visibile, pronto per essere colpito.

Dimostrerò a tutti quanto sono bravo a farlo fuori.

Il pendolo e le aspettative adattive


E’ da un po’ di tempo che osservo i miei stati d’umore altalenanti, alla ricerca delle loro cause e di un modo per averne maggior controllo.

Esistono in realtà varie spiegazioni del fenomeno, sulle quali non mi voglio qui soffermare; ho voluto invece trovare una mia risposta, per la formulazione della quale mi sono avvalso delle mie reminiscenze degli studi di economia, nella speranza che un probabile premio Nobel possa finalmente livellare la sinusoide delle mie energie psichiche.

No so se hai mai sentito parlare di aspettative adattive: in breve si tratta di un modo (o di una famiglia di modi) con cui si suppone gli operatori economici (produttori, consumatori) formulino le proprie opinioni circa un evento futuro. Dal punto di vista economico è molto importante capire questi meccanismi, perché da loro può ad esempio dipendere il successo di un nuovo prodotto commerciale o di una manovra finanziaria.

Ebbene, secondo questa teoria gli operatori (ma alla fine parliamo di esseri umani) formulerebbero le proprie attese circa gli eventi futuri basandosi sull’esperienza passata, il che è forse un po’ come scoprire l’acqua calda, ma lasciamo pure che anche gli economisti si guadagnino da vivere. Il punto è che, se oggi le cose mi sono andate bene, il mio umore è alle stelle e sono al massimo dei giri, e mi aspetto che domani continui così.

Ciò che mi accade oggi mi crea un’aspettativa su ciò che accadrà domani.

pendolo

Per esemplificare, supponiamo che il mio superiore giudichi positivamente un mio lavoro, mi elogi e proponga un premio produzione. Io sono contento, identifico questo giudizio sul mio lavoro con un giudizio sulla mia persona, e mi pongo mentalmente su un gradino più alto.

Il mio umore è al massimo, oggi è stata una grande giornata. Finalmente le mie capacità sono state valorizzate; chissà poi che dirà il capo quando vedrà questo nuovo progetto che sto portando a termine: lo stupirò ulteriormente, sento aria di promozione.

Ciò che è successo oggi mi crea aspettative per domani; e siccome non mi accontento, devo dare il massimo, per fare ancora meglio: so di essere sulla strada buona.

Passa una settimana, il nuovo lavoro è terminato e lo sottopongo al superiore, che lo accoglie tiepidamente; non lo denigra, mi dice che va bene, ma neppure lo esalta; suggerisce alcuni miglioramenti. Ma come, io ho dato il massimo! Perché non mi viene riconosciuto? Dove ho sbagliato?

Il mio umore inizia a declinare, la terra comincia a mancarmi sotto i piedi; oggi non è stata granché come giornata, e domani non sarà certo migliore.

In realtà si tratta puramente di costruzioni mentali che nulla hanno a che vedere con la realtà; la magagna sta tutta nell’aspettativa sul futuro: tolta quella, tolti i malesseri. Riflettendoci, non avevo alcuna ragione di pensare che anche il nuovo lavoro sarebbe stato accolto con bottiglie di champagne, solo perché ciò è accaduto col precedente; e forse anche il mio superiore si aspettava da me qualcosa di più solo perché avevo svolto bene il compito precedente, e questo ha senza dubbio contribuito ad alzare l’asticella.

Se il buon andamento di oggi mi suggerisce un buon andamento per domani e io me lo aspetto, le probabilità che domani sia percepito peggiore di oggi aumentano, anche solo per un mero fatto statistico e di prospettiva.

Non so come sia per te, ma per quanto mi riguarda tutto questo accade molto frequentemente; nonostante gli sforzi, ancora non riesco ad essere veramente libero da aspettative.

Ho ancora parecchio da lavorare sulla sinusoide.

Le oscillazioni della vita


La nostra economia sta attraversando un periodo di crisi, non c’è media che si stanchi di ricordarcelo. Mi chiedo, ma cos’è esattamente questa crisi? E soprattutto, se adesso stiamo peggio di prima, vuol dire che un tempo stavamo meglio, eppure non ricordo alcuna notizia che dicesse: “l’economia sta attraversando un periodo di abbondanza”; ne deduco che dev’essere parecchio tempo che le cose non fanno che peggiorare… o forse la vera risposta è in questo articolo.

Sicuramente ci rendiamo più conto dei peggioramenti che dei miglioramenti… in ogni caso, è innegabile che la crisi riguardi anche le nostre vite: ti sarà certamente capitato di affrontare dei periodi negativi, in cui tutto sembra andare per il verso sbagliato…

Ebbene, con questo articolo vorrei dare una lettura fuori dal solco del fenomeno, chiamandolo col suo vero nome: opportunità.

Partiamo da qui: secondo te, data una situazione di equilibrio è possibile raggiungerne una migliore? La risposta è si, ma ad un prezzo: rompere l’equilibrio, e passare di conseguenza attraverso una fase di crisi.

Un esempio? La tua casa è mal disposta, dovresti buttar giù quel muro e aprire una porta in quell’altro. Chi ha vissuto questa esperienza non avrà esitazioni a chiamarla ‘periodo di crisi’, soprattutto se si è occupato di rimuovere la polvere lasciata in giro dai muratori. Eppure è stata una crisi necessaria, vissuta con fastidio sì, ma con la prospettiva di un futuro migliore, perché finalmente ci si è potuti comprare quella cucina che ci piaceva tanto.

Un altro esempio: sono stanco dell’attuale posto di lavoro, decido di cambiare; dovrò passare iniziali momenti di difficoltà, in cui mi trovo ad essere l’ultimo arrivato, a dovermi ambientare, privo di punti di riferimento; ma dopo qualche mese, quando sarò entrato a far parte degli ingranaggi della nuova macchina, sarò ripagato di tutti gli sforzi.

Ogni fase di assestamento deve passare per un brutto periodo, e la mia lettura vuole che sia vero anche il viceversa: ogni brutto periodo deve significare una transizione verso un equilibrio migliore.

Ecco come la vedo io:

crisi

Come vedi, nella figura sono rappresentati gli alti e i bassi della vita, ma con un’importante caratteristica: ogni punto di massimo è più alto di quello precedente; potrai obiettare che potrebbe anche essere il contrario, cioè che sia più basso, ma io ribatto che questo è quello che accade a chi insiste a riempirsi la bocca con la parola crisi e a piangersi addosso invece di cogliere le opportunità.

Credo fermamente che le persone che hanno raggiunto il successo (qualsiasi cosa significhi questa parola, raccomandati esclusi) abbiano ragionato così.

A chi è sportivo, questa figura ricorderà anche il meccanismo della super compensazione: a seguito di uno sforzo prolungato, le energie del corpo si abbassano raggiungendo una soglia minima. Segue poi una fase di recupero in cui si riacquistano le forze, che è fondamentale nell’allenamento: in questa fase, il corpo non ritorna esattamente ai livelli potenziali in cui si trovava prima, ma un po’ al di sopra: è per questo che periodi di sforzo opportunamente intervallati da periodi di riposo producono un miglioramento della risposta fisica.

E se questo vale per il corpo, perché mai non dovrebbe applicarsi al cervello, o alle dinamiche della vita? Il corpo umano non è che un’applicazione di principi di funzionamento universali su cui poggia ogni fenomeno fisico.

Illazioni, certo, speculazioni. Mica ho le prove scientifiche di ciò che dico.

Ma se poi funzionasse?

Cosa metti in bacheca?


Non sto parlando di quella di Facebook, ma di quella tradizionale, dove sempre tradizionalmente si mettono i trofei; nel collezionarli non ci trovo ovviamente nulla di male: mettere in bella mostra i propri successi fa bene all’autostima, anche se può attirare qualche antipatia o invidia.

Con questo articolo voglio però suggerirti di fare altrettanto con gli insuccessi: potrà sembrare un paradosso, ma se ci pensi bene gli errori possono essere molto utili; quando eseguo alla perfezione un compito, ho fatto qualcosa di positivo nell’ambiente che mi circonda, ma dentro di me poco è cambiato, a parte l’appagante sensazione di aver centrato il bersaglio; anzi, si rafforza in me l’idea che il comportamento adottato sia quello giusto, l’unico giusto: il solco diventa più profondo.

L’errore invece è un maestro, ci evidenzia le lacune, ci offre possibilità di crescita che il successo non dà; al pari del dolore fisico, che in sé è utile in quanto ci segnala situazioni di malfunzionamento, l’insuccesso ci offre la possibilità di migliorarci, a patto che si impari ad osservarlo con occhio neutro e lo si tenga sempre in bella vista.

errareumano

Ovviamente la tendenza comune è quella di rimuovere lo scivolone dalla nostra memoria, perché non ci piace l’idea di aver sbagliato, e dalla pubblica piazza, perché teniamo al giudizio altrui; ma analizziamo entrambe le questioni, e vediamo quanto solide siano le basi su cui poggiano.

Il disagio che ci porta l’aver commesso uno sbaglio non dipende dall’errore in sé, ma da come noi ci rapportiamo ad esso: razionalmente sappiamo che errare è umano, ma emotivamente tendiamo a confondere i livelli: identifichiamo la nostra persona col comportamento erroneo, arrivando alla conclusione di essere noi stessi ad avere qualcosa di sbagliato. E’ questa confusione di livelli che ci logora e ci fa vivere malamente gli insuccessi: in realtà non siamo noi, in quanto individui, ad essere messi sotto accusa, ma un nostro comportamento; non è la stessa cosa!

Se riusciamo ad essere più impersonali, ad uscire dal problema, possiamo analizzare con distacco quanto è andato storto, e applicare dei correttivi evitando di ricascarci in futuro, il tutto senza sensazioni di malessere. A questa precisazione tengo particolarmente, perché non si confondano i miei suggerimenti con istigazioni al vittimismo: guardare con serenità ai propri errori non può che apportare dei benefici, così come può farlo la lucida individuazione del dente dolorante senza per questo essere dei masochisti.

Non si tratta di vivere in uno stato di perenne autoaccusa, senza mai essere soddisfatti di sé e sottolineando sempre e solo gli aspetti negativi; tutto è questione di misura: semplicemente quando qualcosa va storto bisogna avere il coraggio di capire quel che è accaduto, guardare in faccia il problema senza fronzoli o giustificativi e applicare i dovuti correttivi.

Per quanto riguarda il giudizio altrui, invece, dobbiamo distinguere due casistiche.

Se stiamo parlando di persone intelligenti, non ci si deve preoccupare di nascondere loro un fallimento per paura di perdere posti in graduatoria: prendiamoci pure gioco di noi stessi, scherziamoci sopra, enfatizziamolo quasi: è un ottimo modo per esorcizzarlo, e non potremo che guadagnare punti ai loro occhi.

Se viceversa si tratta di persone che non brillano per acume… beh, in questo caso, perché mai preoccuparsi del loro giudizio?