C’è un vecchio gioco di prestigio che funziona più o meno così: io ti chiedo di dirmi un numero compreso fra uno e dieci, e tu scegli – supponiamo – il tre; allora ti invito a spostare il primo libro della libreria, e dietro trovi un biglietto con su scritto: “sapevo che avresti scelto il tre”. Magia!
In realtà, se tu avessi scelto il due ti avrei chiesto di guardare dietro al mobile, dove avevo messo un altro biglietto, e così via. Indipendentemente dalla tua scelta, avrei comunque indovinato.
Ecco, l’attuale sistema politico funziona più o meno così: indipendentemente dal simbolo su cui metterai la crocetta, il voto andrà a finire alle massonerie.
E anche quei nuovi movimenti che si presentano come anti sistema, in realtà stanno agendo in base alle sue regole; un sistema non si può cambiare dall’interno.
Questo è il motivo per cui alle prossime elezioni non andrò a votare; attenzione, non sto dicendo che voterò scheda bianca, perché così facendo mi muoverei lo stesso all’interno delle regole del gioco, e il mio nominativo verrebbe annotato nel loro registro.
No, io quel giorno non mi presenterò proprio, come ho già ribadito in un altro articolo io non gioco più. E se stai per obiettare che così facendo non cambierà mai niente, io ribatto: ma l’esperienza del Movimento 5 Stelle non ti ha insegnato proprio nulla?
La roulette è un gioco sbilanciato a favore del banco, a causa dello zero: se esce quello, tu perdi a prescindere che abbia puntato sul nero o sul rosso e, alla lunga, la statistica fa sì che i capitali si ammassino nelle tasche del biscazziere.
Per questo evito di giocare: il gioco è truccato, e il trucco è talmente palese da passare inosservato.
Lo stesso vale per la democrazia di questo benedetto, assurdo bel paese (cit.).
Non serve che mi arrovelli per decidere se votare destra o sinistra, tanto chi va al potere verrà deciso in tutt’altra sede, stanze dei bottoni che vanno ben oltre quel teatrino della politica che ci viene mostrato come specchietto per le allodole.
Finora mi sono sempre fatto obbligo di andare alle urne, perché per ottenere quel diritto sono morte migliaia di persone.
Adesso ho capito che sono morte inutilmente: quel diritto è fasullo, è solo un modo per far credere al popolo di avere voce in capitolo. Andare a votare non fa che sancire la validità di quelle regole, come a dire: continuate pure così, che io sto al gioco.
Ebbene, io non gioco più. Non legittimerò col mio comportamento questa colossale presa per il culo, non mi vedrete più alle urne. Nemmeno per darvi la mia scheda bianca di protesta, o con una fetta di prosciutto nel mezzo e la scritta ‘mangiatevi pure questa’, perché sarebbe comunque una mia ratifica di questo sporco gioco.
In questo difficile periodo mi chiedo: se è vero, come affermato nei percorsi di crescita spirituale che ho incontrato, che la realtà esterna è una proiezione del nostro mondo interiore, allora perché sto creando tutto questo? Esiste davvero tanta oscurità dentro me?
La risposta è sì, dentro di me c’è tanta oscurità, tanto dolore. Dolore che vuole essere visto, ascoltato. E l’errore più grande che posso compiere è credere che sia tutto là fuori, sia qualcosa da combattere, da sconfiggere.
Invece il male è dentro di me, ma la parola ‘male’ non è che un superficiale giudizio: è solo dolore che vuole essere accolto con amore. E lasciato andare.
Questa è la lezione che voglio imparare da quanto sta accadendo nella nostra bella Italia. Ma quanto è difficile!
Perché il mio ego è riluttante ad abbandonare tutti i suoi appigli, e quando si rende conto che sto per davvero arrivando a far mia l’idea che tutto è un’illusione, allora rincara la dose, e rende l’illusione tremendamente minacciosa, caricandola di una parvenza di realtà a cui diventa difficile sottrarsi.
La ‘battaglia’ interiore si gioca su questo campo: mantenere un distacco e continuare a giocare ed essere felici, nonostante tutto.
La potenza di questo atteggiamento non manca di portare le sue conferme, ed ecco che un abbraccio fra manifestanti e polizia, messo in scena al termine di un lavoro di counseling teatrale, si traduce in ‘realtà’ il giorno successivo, al porto di Genova.
Tutto questo è davvero magia.
La vita è come decidiamo che debba essere, ma per questo è necessaria molta, molta consapevolezza.
Nell’articolo Overlook Hotel ho riportato ciò che ricordavo di un sogno fatto poco tempo fa, di cui ora credo di comprendere meglio il significato.
Quel sogno mi ha messo di fronte al mio bisogno di essere riconosciuto, di avere la conferma di esistere; bisogno che ritrovo in ogni mia interazione con le persone, e mi riporta ai primi tempi della scuola elementare, quando fuori in cortile si giocava a guardie e ladri, e da ladro ero fiero di me perché nessuno mi prendeva… finché ho realizzato che nessuno mi stava inseguendo, non mi consideravano proprio!
Adesso ho compreso che cercare la conferma della mia esistenza negli altri è un’illusione, così come cercare di essere ben voluto: nessuno mi vede veramente per ciò che sono, perché tengo nascosti molti miei aspetti per paura di non essere accettato e amato, col risultato di convogliare l’amore altrui verso un avatar virtuale, distogliendolo da me.
Che valore può avere la benevolenza di chi mi circonda, quando nel mio intimo so che regge su una finzione? Il vero amore nasce dall’accettazione incondizionata dell’altro, soprattutto degli aspetti spiacevoli; trovare il coraggio di essere me stesso ha il vantaggio di filtrare chi davvero mi ama, la paura che non resti nessuno è ciò che continua a tenermi nella recita.
Ma tutti questi sono solo giochetti della mente: alla fine esiste una sola, inoppugnabile conferma della mia esistenza: le mie sensazioni, le mie emozioni mi dicono costantemente che io ci sono, che sono vivo.
Cercavo prove nel posto sbagliato. La dissoluzione delle persone del sogno, la mia solitudine, la mia morte, rappresentavano solo la fine dell’ego.
Io sono altro. Chiudo gli occhi e sento che ci sono.
Mi trovo nella sala delle feste di un lussuoso albergo.
Attorno a me molte persone, parlano e scherzano fra loro; una calda musica swing avvolge il loro vociare.
La sensazione nasce impercettibile, poi si fa più insistente: qualcosa non va, provo a interagire con loro ma sembrano non accorgersi di me.
Un brivido sale lungo la mia schiena, accompagnando il terribile sospetto che muta presto in convinzione.
Non mi vedono perché sono morto! Lo sono sempre stato, ma non lo sapevo.
La subitanea presa di coscienza cambia la mia percezione, la musica scema, uno ad uno i personaggi attorno a me si dissolvono, lasciandomi solo nel silenzio surreale di quella stanza enorme.
Un vago terrore misto a un pesante senso di solitudine si impossessano di me.
Sono morto, e sono solo: ecco ciò che mi sono sempre rifiutato di vedere.
Eravamo nel medioevo, superstiziosi, un po’ presuntuosi, convinti di essere il centro dell’Universo. Eravamo come un bambino che crede alle favole e pensa, nella sua semplicistica ingenuità, che le cose siano realmente come appaiono.
Poi siamo cresciuti: abbiamo capito che Aristotele e Tolomeo dicevano cazzate, e siamo passati ad una visione del mondo più razionale in cui la Terra ruota attorno al Sole; siamo passati all’età adulta, l’età della ragione.
Per stabilire chi ruota e chi sta fermo è necessario interpellare un giudice, un terzo super partes che decida della disputa fra i due contendenti; occorre prendere un punto di riferimento esterno: ad esempio mettersi comodamente in poltrona su Marte ad osservare.
Problema risolto, dirai tu: quale che sia il punto di riferimento esterno scelto, facendo le dovute deduzioni verrà sempre fuori che la Terra ruota al Sole; la scienza avanza, la mente ci mostra la sua inconfutabile verità.
Quanto afferma la ragione è vero, ma si tratta sempre di un punto di vista che dipende dal sistema di riferimento scelto, e che non ha nulla di intrinsecamente assoluto. Anche se il povero aborigeno terrestre è rimasto il solo a pensarla così, la sua opinione è degna di rispetto, vale quanto le altre: nel suo sistema di riferimento, la Terra è al centro.
La democrazia è tutela delle minoranze, non dispotica supremazia della maggioranza.
La teoria della relatività di Einstein insegna infatti che non ci sono punti di riferimento privilegiati, e tutto dipende dall’osservatore, persino la distinzione fra eventi passati, presenti e futuri.
Eppure, nonostante questa infinità varietà di modi per vedere le cose, la Natura riesce a conciliarli tutti: applicando le dovute trasformazioni, è sempre possibile passare da un sistema di riferimento a un altro, e le molteplici realtà possono coesistere senza escludersi a vicenda: non è fantastico? Si tratta solo di fare un piccolo (piccolo’sticazzi) sforzo per cercare di capire l’altrui punto di vista, e poi la quadra si trova.
Con questa presa di coscienza, abbiamo finalmente raggiunto l’età matura, l’età della saggezza, quella che rivaluta il bambino di un tempo e pensa che sì, in fondo valeva la pena di credere alle favole.
Il grosso cane è lì, davanti a me, e ringhia minaccioso.
Sento le gambe svuotarsi, il corpo attraversato da brividi; mi guardo attorno per cercare un’arma improvvisata, trovo un bastone a pochi passi, lo afferro.
Il ringhio si rafforza, sempre più ostile; l’animale sembra poter aggredire da un momento all’altro, sono davanti al bivio: attacco o fuga.
Cerco di assumere un atteggiamento intimidatorio, sperando di non dover ricorrere né all’uno né all’altra.
I piedi sono incollati al suolo, pesanti, di piombo. Ho paura.
Questa mi ha reso a mia volta minaccioso, e lui lo sente.
Anche lui adesso ha paura, è nella mia stessa situazione.
Ecco perché ringhia: ha paura di me. è così fin dall’inizio!
Lui è terrorizzato da me; posso avere paura di chi ne ha di me? Ha senso tutto questo? Di chi ho davvero paura?
Temo il cane che a sua volta teme me… è un circolo, in definitiva ho paura di me! Il cane non c’entra, è solo uno specchio.
Se cambio atteggiamento tutto può svanire, come una bolla di sapone; voglio crederci, voglio avere fiducia, voglio fare il primo passo e disinnescare il meccanismo.
Getto lontano il bastone, distendo i lineamenti del volto, offro la mano.
Ho in mente un’idea favolosa che voglio trasmettere scrivendo questo articolo; cerco di andare con ordine, se butto giù i concetti alla rinfusa rischio di non farti capire nulla.
Devo seguire un filo logico ma ho molte difficoltà, perché è difficile imporre una sequenza a pensieri molto legati fra loro; la tentazione di divagare è sempre dietro l’angolo.
Ad esempio ora sto pensando di entrare nell’argomento ‘X’, a cui voglio poi far seguire ‘Y’, e mi accorgo che potrei altrettanto efficacemente collegare ‘Z’, ma in tal caso la storia prende un’altra piega.
Mi sento come quando leggo un libro in cui sono presenti molte note a piè di pagina: che fare, seguire il flusso principale e poi tornare sulla nota in un secondo momento, oppure leggerla subito? Ma allora perché mettere una nota, se andava letta subito? Forse è di secondaria importanza? Allora posso scegliere di ignorarla? Ma così rimarrò sempre con la curiosità sul suo contenuto.
Ricordo anche quando da ragazzino leggevo le storie a bivi di Topolino: che bivio scelgo? Ho seguito tutte le strade alternative? Che frustrazione!
Certo, alla fine arriverò a toccare tutti i punti che interessano e il quadro ti sarà comunque chiaro, indipendentemente dalla sequenza scelta per snocciolare i concetti; forse qualcuna sarà più chiara, qualcun’altra più contorta.
Il punto è che non posso prescindere da una sequenza: devo mettere in fila gli argomenti, e prima ancora individuarli, isolarli, separarli.
Sembra un problema intrinseco alla comunicazione; è un po’ come accade nella trasmissione dati in Internet: il tuo ordine su Amazon viene suddiviso in componenti (nome destinatario, indirizzo di spedizione, articolo, quantità, ecc.) da inviare poi in sequenza, una lettera alla volta, nella rete.
Ma certo! La comunicazione! Potrebbe dipendere da questo il mio modo di vedere la realtà!
Mi sono sempre domandato perché non riesco a concepirla per quello che è, ossia un continuo, ma devo passare per una sua discretizzazione vedendo separazione laddove non esiste: questa è una sedia, là c’è un tavolo, lì una porta… illusioni! La realtà è priva di separazioni, sono io che le introduco artificiosamente, ma perché? Perché ne ho bisogno?
Anche lo scorrere del tempo è un’illusione: passato, presente e futuro coesistono in un blocco statico, almeno così insegna la teoria della relatività, eppure io mi sento in divenire, fluendo da un passato che non esiste più verso un futuro che non esiste ancora. Perché?
E se la risposta fosse proprio nella sequenza dei messaggi? Se la percezione della realtà fosse una sorta di comunicazione che avviene fra l’Universo e me?
L’Universo mi sta ‘comunicando’ come è fatto ma, esattamente come accade a me quando scrivo, non può trasmettere tutto assieme, altrimenti non capirei: allora mette l’informazione in pacchetti e li manda in una certa sequenza.
L’informazione mi raggiunge così parcellizzata e per gradi, un pezzo alla volta: questo spiegherebbe il fatto che percepisco una sedia separata da un tavolo, e una porta che si apre prima che qualcuno entri.
Una speculazione alquanto azzardata, ma estremamente affascinante.
Ma a parte questa divagazione, torniamo all’idea che volevo trasmetterti all’inizio.
Ehm…
Ecco, lo sapevo, mi sono perso nei meandri della storia a bivi, e ora non la ricordo più!
Le mie deviazioni maniacali esigono che ogni centimetro quadrato del pavimento sia stato visitato dallo strumento pulente: decido di assecondarle, perché la mia mente sentenzia che ogni tipo di lavoro, anche il più insignificante, va fatto per bene.
Ok, mente, ti presto ascolto.
Lei è molto brava nell’affrontare problemi di questo tipo, ha subito trovato un valido criterio per non trascurare nemmeno un angolo di mattonella: suddivide il pavimento in aree più piccole; il rettangolo delimitato da tre muri laterali e dalla linea immaginaria che dal bordo del letto arriva allo spigolo della porta, quello individuato dalla nicchia della porta finestra, il piccolo corridoio fra il letto e il muro, e così via.
Mi risulta così facile aggredire l’enorme vastità dei quaranta metri quadri del pavimento di casa mia: divide et impera! E’ più agevole controllare zone di piccola dimensione, per poi passarle in rassegna nella loro totalità.
Mi rendo conto che ogni volta lo schema di suddivisione si ripete uguale a sé stesso, potrei addirittura attribuire delle etichette ad ogni area: la Zona Lato Finestra, la Zona Lato Armadio, l’Accesso al Bagno, e via di seguito.
Cosa hanno di reale queste zone? Nulla. Sono solo suddivisioni di comodo, funzionali ad una più agevole applicazione del trattamento igienizzante; di fatto esiste una sola, unica, indivisa superficie ricoperta di mattonelle.
Eppure, via via che me ne servo, queste suddivisioni acquisiscono realtà per me, e alla fine mi comporto come se avessero un’esistenza autonoma. Difficilmente i miei automatismi operativi acconsentiranno a procedere secondo frazionamenti alternativi, altrettanto arbitrari.
Da questa considerazione muovo il passo generalizzante successivo: la mia mente non si comporta così solo per questo tipo di frivola parcellizzazione, ma lo fa in continuazione, lo fa per tutto.
Ogni separazione è arbitraria, tanto quanto quella operata sul pavimento. Serve solo alla mia mente per muoversi, per trovare dei criteri di gestione dell’ambiente circostante; diversamente, non saprei in che direzione andare.
Un libro, una tazza, una sedia, un tavolo: sono solo classificazioni di comodo nella mia mente. Ho lavato la tazza e poi l’ho messa sopra il tavolo. Wow, fico, che efficacia!
Nulla di reale esiste, al di fuori di ciò che decido io con le mie suddivisioni arbitrarie quanto illusorie.
Un metodo potente ed efficace, lo devo ammettere. Ma molto, molto pericoloso, se non ne sono cosciente.
Quando vieni al mondo sei tempestato da migliaia di stimoli, un vero casino! La realtà che ti trovi di fronte è grosso modo questa.
In quella marea di punti non ti riesci proprio a muovere: è necessario mettere ordine, trovare un significato, altrimenti non sai che fare. Occorrono dei criteri che ti permettano di individuare il comportamento più adeguato per poter sopravvivere.
Ecco allora che la mente, tuo principale strumento di sopravvivenza, inizia a proporti i primi collegamenti. Piano piano inizi ad individuare delle regolarità negli stimoli che ricevi e, come nel celebre gioco della settimana enigmistica, alcune figure emergono dallo sfondo; presumibilmente le prime a venire a galla sono quelle di mamma e papà.
Poi, lentamente, capisci che in quella confusione di dati ci sei pure tu; la tua interpretazione del mondo si va completando.
E colleghi i puntini, nuovamente. Ma via via che procedi a tirar giù righe, i gradi di libertà diminuiscono.
Si tratta solo di un caso, o hai collegato i “tuoi” puntini in modo da creare una forma che grosso modo si adatti a una delle altre?
Il tempo passa, tu cresci, e la porzione di mondo con cui entri in contatto si va via via ampliando: nuovi puntini da collegare, nuove esperienze da catalogare.
Ma ormai hai trovato il metodo: non hai alcuna difficoltà ad attribuire un significato alla nuova realtà allargata in cui ti sei venuto a trovare.
Ma non sempre si tratta di una realtà a cui riesci ad adeguarti, non sempre ti senti adatto; hai compreso il mondo, ma non ti piace affatto, lo senti molto diverso da te. Inizi a soffrire, a pensare di essere sbagliato. La vita da adulto è un vero disagio, quanto rimpiangi l’infanzia!
Questo stato di sofferenza e rifiuto del mondo può protrarsi indefinitamente, a meno che…
A meno che non succeda qualcosa, uno shock esterno o interno a te, che ti faccia rimettere tutto in discussione, e comprendere la verità: i puntini sono reali, ma le linee che li uniscono sono solo tue! Quanta dogmatica fede hai da sempre riposto in esse, e quanto ti sono state utili per muoverti in quel mondo confuso.
Eppure è tutto arbitrario, è tutto posticcio. Perfino l’idea che hai di te è falsata, è solo una delle infinite interpretazioni che potevi dare. E questa è la parte più dolorosa: mettere in discussione chi sei. Annullare quell’io che ti accompagna dall’infanzia per tornare al set di confusi puntini.
Per farlo devi distruggere l’immagine precedente e questo fa male, perché è un po’ come morire; ma ti permette di rimettere a nudo la tua vera essenza per poi creare uno schema nuovo, sempre arbitrario, certo, ma più funzionale al nuovo contesto.
E finalmente comprendi: tu non sei quelle linee, tu sei i puntini!
La vita è un fatto di interpretazione, tutto sta a trovare quella che ci fa stare meglio, con la consapevolezza che si tratta solo di questo, di una interpretazione appunto, e pronti a cambiarla quando le circostanze lo richiedano.
Ora sei sereno, ora non hai più resistenze, ora non c’è più sofferenza. Qualche volta provi dolore, quello è inevitabile… ma con la sofferenza hai finalmente chiuso.