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Moralismo e morale


Esiste a mio avviso una profonda differenza fra valori morali e moralismo.

I primi sono i punti di riferimento che guidano la mia condotta, i criteri attraverso i quali cerco di discernere ciò che è funzionale, per me, in un dato contesto.

Dico ‘per me’ in senso lato, perché è evidente che un comportamento che danneggia il prossimo o più in generale l’ambiente si rifletterà, prima o poi, sulla mia persona; di conseguenza, anche in un quadro di atteggiamento puramente egoistico, non posso esimermi dal tenere in considerazione le esigenze dell’ambiente che mi circonda che, di fatto, costituisce un altro aspetto di me.

Il moralismo invece è di tutt’altra natura: nasce quando ho la pretesa di imporre i miei valori al prossimo, assumendo che abbiano valenza assoluta; come se potessi arrogarmi il diritto di legiferare sulle vite altrui.

Ed è a questo proposito, moralista di turno, che ti invito a riflettere in totale onestà intellettuale, soprattutto nei tuoi confronti: nel momento in cui critichi la mia condotta, giudicandola come amorale o disdicevole, sei proprio sicuro che ti stai preoccupando dei contenuti?

Non sarà forse che, più che il mio comportamento in sé, ciò che davvero ti infastidisce è il fatto che anche tu avresti voluto fare la stessa cosa, che anche tu avresti potuto fare la stessa cosa, e non l’hai fatta?

Insomma, non è che il vero motivo per cui ce l’hai con me è che faccio da specchio al lato oscuro che è in te?

Il qui e ora di una salita in bicicletta


Il sole è alto sull’orizzonte, fa caldo e la salita che sto affrontando è piuttosto lunga, non sono neanche a metà.

Ho già parecchi chilometri alle spalle e inizia a farsi sentire un lieve fastidio al ginocchio; il piede sinistro duole già da un po’: accidenti, dovevo prendere le scarpe più grandi di un numero… col caldo e lo sforzo i piedi gonfiano e poi fanno male.

Almeno non ci fosse quest’afa… e ora ci si mettono pure i tafani, vogliono banchettare con me.

La mente vaga, mi ripropone le numerose letture in cui si suggerisce di stare nel qui ed ora, perché nel qui ed ora non puoi avere problemi, i problemi ci sono solo quando ti proietti nel futuro o ti ancori al passato.

Non posso fare a meno di pensare: caro amico che scrivi queste belle cose, vorrei che adesso fossi qui al mio posto, poi vediamo che dici; per me, stare nel presente in questo frangente non fa che aumentare il disagio; meglio fuggire con la mente altrove, distrarsi, anestetizzarsi immaginando la bella birra fresca che mi aspetta nel frigo al mio rientro.

Improvvisamente una nuova visione della realtà spazza via tutto: non ho capito affatto cosa significhi vivere nel qui e ora, per questo sto soffrendo la salita.

“Fa caldo”, “la salita è ancora lunga”, “sento un lieve fastidio al ginocchio”, “il piede sinistro duole”, “quest’afa è insopportabile”, “i tafani mi stanno divorando”. Etichette. Giudizi. Proiezioni dal passato. Mi sto lamentando, non sto affatto vivendo nel qui e ora.

Il qui e ora è fatto di sensazioni, e le sensazioni precedono ogni etichetta che la mente può attribuire; nel momento in cui dico “ho caldo” sono già nel giudizio, sono già sul piano mentale, ho perso il contatto con la sensazione, sono nel passato e non più nel presente.

Nel presente c’è solo la sensazione pura, priva di connotazioni o catalogazioni; per catalogarla devo recuperare dall’archivio delle esperienze passate il fascicolo contenente qualcosa di analogo a ciò che sto vivendo, leggere l’etichetta che vi avevo apposto e quindi attribuirla anche all’esperienza attuale, che a questo punto scivola via dal presente, perdendo tutta la sua unicità, per piombare nel passato, indistintamente, assieme alle altre cose già viste, ammantandosi di un opaco alone di preconcetti.

Dopo questo insight, provo non senza difficoltà a cambiare approccio: ascolto solo ciò che sento, senza giudicarlo, senza catalogarlo. Mi immergo nel mare degli input percettivi, mi lascio trasportare dalle sue onde impetuose. Non c’è più fatica, non c’è più caldo, non c’è più dolore.

Solo questa magnifica esperienza.

(Ancora giudizi! La mente ci prova sempre!)

Solo questa esperienza.

Grazie, vita.

La coerenza


Ti propongo questa meravigliosa litografia di Maurits Cornelis Escher, grafico e incisore olandese famoso per le sue opere paradossali e provocatorie, intitolata ‘Relatività’.

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M.C.Escher, Relatività. Litografia 1953

Finché mi soffermo su singole parti dell’immagine non noto nulla di strano; il disorientamento nasce quando considero la scena nel suo complesso: la mia mente inizia allora a vacillare e ogni saldo riferimento perde di significato; i concetti di sopra e sotto, alto e basso, destra e sinistra, solidi ancoraggi su cui baso la mia capacità di orientarmi nello spazio, vanno a farsi benedire.

Ciononostante, ogni volta non riesco a non rimanere affascinato dalla surreale armonia di quell’insieme di elementi dall’accostamento paradossale: osservando l’immagine provo una piacevole sensazione di apertura, di affrancamento da schematiche briglie, oserei dire di infinito!

Poi penso alla mia mente, a come è strutturata la mia personalità, e capisco che non sono poi diverso da quell’immagine.

Con la grande differenza che osservarmi nella mia globalità mi terrorizza: vedere tutte le mie incoerenze interne mi fa stare male, mi disorienta, appunto. E finché il disorientamento è provocato da una immagine ‘finta’, è piacevole; quando mi riguarda in prima persona, quando riguarda me, non lo è affatto. Al contrario, è terrificante.

Ecco allora che creo delle barriere, dei compartimenti stagni: i miei valori, i miei atteggiamenti, le mie convinzioni quando sono nell’ambiente lavorativo sono completamente diversi da quelli che mi attribuisco quando sono con gli amici, o in famiglia, o da solo nel bosco.

E non parlo di semplice finzione col mondo esterno, bada bene: parlo proprio di struttura mentale interna. Parlo di finzione con me stesso. Nel compiere determinate azioni in determinati contesti ignoro completamente certe mie convinzioni o certi miei valori, perché mi porrebbero di fronte ad una contraddizione e mi impedirebbero di agire.

Se togliessi ogni paratia e rimanessi fedele al principio di coerenza per me non ci sarebbe via di scampo: sarei condannato all’immobilità, perché non ci sarebbe gesto che potrei compiere in totale e sincera assenza di contraddizione.

Capisco allora che queste paratie si sono formate come difesa, sono ‘ammortizzatori’, per utilizzare la terminologia di Gurdjieff, che mi proteggono dalle sollecitazioni causate dalle mie incongruenze.

Da dove hanno avuto origine queste incongruenze? Beh, suppongo dalle innumerevoli esperienze fatte nel corso della vita, che si sono incontrate o scontrate con le mie pulsioni interiori, e nel tempo hanno originato modelli di risposta non sempre allineati fra di loro.

Ma al di là di trovare le cause, ciò che mi domando è: che fare? Rinunciare ad essere coerente, o continuare ad evitare di guardarmi nella mia totalità? O rinunciare a parti di me, nel difficile tentativo di eliminare ogni contraddizione?

La risposta a questa domanda fino a qualche anno fa sarebbe stata scontata: la coerenza prima di tutto.

Ma il fatto stesso che sia qui a fare certe riflessioni, oggi, non lascia dubbi su quale sia la cosa più utile da fare, per me, ora: accettare e contemplare con non giudicante apertura quel meraviglioso quadro di Escher che sono diventato.

Preferisco esser vinto contro il muro a torso nudo
che cantare la vittoria ben protetto da uno scudo

Nomadi, “La coerenza”

 

La caffettiera e il tostapane


Se ne stava in disparte, in un angolo della cucina, tutta sola. Un sottilissimo e appena visibile filo di ragnatela univa l’estremità del manico al suo corpo metallico dalla vita stretta.

Lui si avvicinò a lei con circospezione, e con tutta la delicatezza di cui era capace le chiese: “Perché non ti unisci a noi? La colazione non è la stessa senza di te, mi hanno detto che sei tu quella che dà la carica!”

Lo guardò lasciandosi andare ad un sospiro; le faceva un immenso piacere quell’invito, che sapeva però di non dover accettare: non voleva fare ancora del male.

“Mi spiace, non posso. Tu sei nuovo e non puoi sapere, ma non succedono cose piacevoli quando mi scaldo.”

“Davvero? E che succede mai? E dai, una colazione senza caffè è triste, priva di energia! C’è bisogno di te per iniziare la giornata con grinta!”

Aveva difficoltà a ritornare a quei momenti di dolore, ma chissà perché quell’incontro fece leva sulla sua voglia di parlare, di aprirsi. Aveva però bisogno ancora di una spintarella, che provò a invitare.

“Mi piacerebbe molto stare con voi, ma l’ultima volta che ho partecipato sono successi fatti molto spiacevoli. Dentro di me ci sono brutte cose, cose che è meglio non vedere. Cose che possono fare del male. Faresti meglio a starmi lontano.”

Lui era molto giovane, impregnato di quell’ardore e curiosità che rendono talvolta spavaldi e incoscienti.

“E che sarà mai! Vuoi raccontarmi l’accaduto? Sono curioso di conoscere ciò che hai dentro!”

“Io…”

Era in bilico fra il dire e non dire; fra la voglia di farlo e il giudizio sull’inopportunità di svelarsi così ad uno sconosciuto. Vinse la prima.

“C’è una forza mostruosa dentro me, una forza dirompente. Finché non mi scaldo, tutto è tranquillo. Ma quando mi scaldo questa forza cresce a dismisura, e per quanto io cerchi di trattenerla ad un certo punto non ce la faccio più. E allora esplodo in un boato terrificante, la mia parte superiore si stacca volando contro il soffitto e il mio calore si propaga con violenza tutto attorno, e faccio del male, molto male! Faccio del male a chi mi sta vicino! Per questo sarebbe meglio se tu stessi alla larga.”

“Wow! Sei potente! Anche io mi scaldo ma non sono capace di nulla del genere. E quante volte è successo?”

Si sentì spiazzata da quella domanda inattesa.

“Quante… quante volte? Beh… una volta.”

“Una sola volta? E prima di quella volta che succedeva?”

“Prima ero meno forte, non riuscivo a trattenere e così… ciò che avevo dentro fluiva fuori, un orribile liquido nero, bollente, accompagnato da un borbottio fastidioso.”

“Ma tu sai che sei proprio una sciocca?”

“Perché?”

“Senti, io sono giovane e inesperto e non so nulla di te, non conosco nulla del mondo. Ma posso dirti ciò che sento, ora: sento che ciò che hai dentro non è né bello né brutto, e non può fare del male. A meno che tu non decida di trattenerlo: allora sì, che diventa dannoso!

Ma questo non accade solo a te, accade a tutti: nasciamo perfetti, sai? Sono i giudizi, l’educazione, la morale a convincerci di non esserlo. E allora tratteniamo, sopprimiamo delle parti di noi, le teniamo nascoste perché abbiamo paura di non essere accettati, di non andare bene. E queste parti represse, che invece esistono e vogliono attenzione, ad un certo punto iniziano a gridare. Solo allora diventano dannose.

Ma la loro dannosità non è intrinseca, non credi? Se fossero lasciate libere di esprimersi, potrebbero donare la loro utilità al mondo. Dammi retta, siamo proprio sciocchi a comportarci così.

Datti un’altra possibilità, lasciati andare, non trattenere: vedrai che non farai del male a nessuno, e anzi l’energia che hai dentro aiuterà qualcuno ad affrontare meglio la giornata!”

Non pareva molto convinta, ma qualcosa si era mosso. Aveva trovato qualcuno che la accettava per quello che era e non aveva paura di lei. Forse era questa la via? Forse tutto il male che sentiva di avere dentro era per davvero solo causato dall’oppressione e dal giudizio?

Di una cosa era certa: aveva trovato un nuovo significato, del tutto inatteso e fino ad allora sconosciuto, per la parola amore.

Adesso però basta!


Caro Moralizzatore,

che spieghi a tutti quel che è giusto e quel che è sbagliato fare in questo drammatico periodo, io lo so che così facendo ti senti importante, ti senti il salvatore del mondo; mi fai molta tenerezza, visto da fuori sembrerebbe proprio che tu lo faccia in buona fede.

Nonostante questo ti invito ad elargirmi i tuoi preziosi precetti quando avrai percorso nelle mie scarpe tutti, e gli stessi, chilometri che ho percorso io.

Nel frattempo ti prego di tenere per te i tuoi sapienti consigli, perché ti garantisco che solo per te sono validi, visto che non puoi conoscere una virgola delle vite altrui, e scusa se mi tengo a ben oltre un metro di distanza da te ma temo la tua virulenza che, come millenni di storia hanno dimostrato, ha ben poche possibilità di cura.

Sono un bravo bambino perché non rompo le palle


Da piccolo ero proprio un bravo bambino: ubbidiente, educato, non facevo quasi mai i capricci, a scuola ero il primo della classe. Un figlio che ogni genitore vorrebbe avere, di quelli che da grandi diventano uomini da sposare.

Mia madre mi elogiava spesso per questo, soprattutto di fronte agli estranei; nel tempo mi sono convinto che queste qualità fossero mie, che fossero un tutt’uno con la mia essenza: io ero quello lì! Tanto che, qualora mi fossi permesso di deviare da quel comportamento, non avrei più capito chi sono, mi sarei perso; certo, di questo non ero consapevole allora, l’ho capito col senno di poi.

E il senno di poi mi ha posto di fronte a nuove domande: cosa faceva di me un bravo bambino? Un insieme di qualità intrinseche, che mi rendevano in assoluto migliore di altri? No, nulla di tutto questo. Ero un bravo bambino perché non creavo problemi.

Il mio essere bravo non dipendeva tanto da me, ma da chi mi stava attorno, i genitori in primis, gli insegnanti poi, e via di seguito.

Io non creavo problemi: studiavo in autonomia, se mi chiedevi di fare una cosa ubbidivo senza protestare; di me si diceva che era come non avermi, e l’intento era ovviamente complimentoso. Rileggendo quanto ho scritto finora mi viene invece da pensare: un’ameba! Che mi sta pure un po’ sulle scatole!

Sono dovuto arrivare al tramonto della decade dei quaranta per avere chiaro tutto questo, anche se una qualche parte di me l’ha sempre sospettato: sono una brava persona nella misura in cui mi adeguo agli altri.

Finché riesco a soddisfare le altrui aspettative il mio copione di vita è rispettato, e la mia immagine è integra. Ma in tutto questo non c’è alcun merito, se non quello di essere abile nel trasformismo e nella sopportazione.

Essere accettati perché ci si conforma in base all’altrui giudizio significa giocare facile, quasi barare. Visto da una nuova prospettiva potrebbe perfino definirsi ipocrita, concorrenza sleale, una svendita sottocosto per sbaragliare i competitori con un generale danneggiamento collettivo.

Il risultato è stato una rinuncia alla vita, dove per vita intendo: essere sé stessi; adesso cerco con fatica di riappropriarmi del tempo perduto, alla luce di questa nuova presa di coscienza.

Per arrivare a questo ho dovuto superare una tardivamente adolescenziale fase di ribellione, in cui cantavo con Guccini:

Non me ne frega niente
se anche io sono sbagliato
spiacere è il mio piacere
io amo essere odiato

Poi ho capito che questo atteggiamento era solo un cambiare segno alla mia tendenza: passare dall’adeguarsi all’andare contro mi legava comunque alle aspettative altrui.

Adesso cerco di liberarmi da tutta questa spazzatura ed essere me stesso, ma non è facile, perché senza quei riferimenti esterni che mi davano sicurezza ho veramente grosse difficoltà a sapere chi sono.

E suppongo che questo stia diventando il mio nuovo obiettivo di vita.

Parangelia, il parassita ti manovra nascosto nelle pieghe della mente


libro

Finalmente ce l’ho fatta!

Il lento cammino iniziato a gennaio 2014, ormai più di cinque anni fa, è giunto al termine, e l’agognata meta è stata raggiunta: il mio libro è in vendita.

Si è trattato di un lavoro catartico che mi ha permesso di sfogare la rabbia rimasta troppo a lungo repressa, un disagio causato da una società opprimente e giudicante che ha fatto di tutto, e lo sta facendo tuttora spesso in totale buona fede, per impedirmi di essere me stesso.

Ma se il ricongiungimento con la mia reale essenza è ancora lontano, ho voluto in qualche modo accelerare i tempi, immaginando una realtà parallela in cui questo è già accaduto.

Purtroppo c’è un prezzo da pagare: la società pretende la standardizzazione degli individui, chi non sta al gioco è scomodo e pericoloso, e la sentenza per chi non rientra nei canoni dalla normalità è inappellabile: pazzia!

Proprio questo accade al personaggio del mio libro, che rappresenta una sorta di estremizzazione di ciò che sono stato, sono e soprattutto vorrei diventare.

E lo diventerò solo quando avrò il coraggio di vivere per davvero una vita fuori dal solco, accettando e perdonando gli inevitabili giudizi di follia ed il conseguente allontanamento da parte di questa società a cui già da tempo sento di non appartenere più.

Giudizio e constatazione


In questo articolo voglio stimolare una riflessione sulla distinzione fra queste due parole, e parlare di come la prima rappresenti una distorsione della seconda, ponendosi rispetto ad essa, per dirla in termini musicali, su di un’ottava inferiore.

Supponiamo io dica: “il tuo maglione è rosso”. Constatazione. Sto osservando uno stato di cose, dal mio punto di vista beninteso: stanti gli strumenti di percezione a mia disposizione, posso constatare che il maglione ha quel colore.

Adesso invece dico: “hai fatto un buon lavoro, sei stato bravo”. Giudizio. Qui non solo constato un fatto, ma mi spingo oltre: mi sbilancio esprimendo la mia opinione sul fatto osservato, ed in qualche modo mi schiero, prendo posizione.

Nell’esempio riportato la differenza è piuttosto evidente; sembra addirittura che le due parole non siano neppure lontanamente imparentate.

Eppure accade spesso che le cose non stiano così, ed i due livelli si mischino portando a conseguenze non sempre vantaggiose. Tornando all’esempio precedente, potrei dire: “ma il tuo maglione è rosso!”, utilizzando un tono che, accompagnato dal contesto, sottintende: “siamo ad un funerale, non potevi vestirti in modo più sobrio? Sei decisamente irriverente!”

Per sgomberare il campo da equivoci, ti dico subito che a mio avviso il giudizio è di per sé negativo (ooops… giudizio! Scusa, volevo dire: poco utile); direttamente o indirettamente presuppone una morale, e la morale è sempre troppo soggettiva e legata a contesti socio temporali per aiutare a capire la realtà.

Non a caso, le moderne tecniche di problem solving si avvalgono proprio della sospensione del giudizio al fine di non farsi trarre in inganno dai preconcetti. Ma questa è un’altra storia.

Ciò che voglio sottolineare è come troppo spesso, nelle relazioni interpersonali ma non solo, giudichiamo invece di constatare. Siamo proprio sicuri di essere nella posizione di arrogarci tale diritto?

Ma l’aspetto peggiore è il duale della questione: poiché siamo così abituati a comportarci in tal modo, tendiamo ad osservare negli altri un atteggiamento analogo, ed ecco che ravvisiamo giudizi anche laddove non ve ne sono, e ci sentiamo in continuazione giudicati; oppure temiamo di esserlo, e per questo evitiamo di metterci in gioco.

giudice-crocifisso

Questo mi porta ad una sottile interpretazione del passo biblico:

Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati. (Matteo 7,1-2)

che, a ben vedere, non necessariamente deve essere considerato come un mero meccanismo di premi e punizioni messo in atto da una qualche divinità trascendente.

Non ci sono entità giudicanti esterne, ma sei tu stesso che, a causa della propensione al giudizio, finisci col sentirti a tua volta valutato dagli altri, a prescindere dal fatto che lo facciano realmente. Come ha giustamente osservato Salvatore Brizzi, Gesù è stato un fine psicologo.

Alla luce di ciò, lo sforzo che mi propongo da ora in avanti è pertanto quello di limitarmi ai fatti, ogniqualvolta mi trovi a fare delle valutazioni, senza andare oltre il discernimento di ciò che è utile da ciò che non lo è.

E su quest’ultimo punto direi che c’è materiale sufficiente per almeno un altro articolo.