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La spontaneità della patata


Ecco il raccolto di stamattina.

Cosa c’è di speciale? Che queste patate non le ho seminate.

O meglio, sono il frutto di tuberi di piccole dimensioni sfuggiti al raccolto dell’estate passata, rimasti silenziosi nella terra in calma attesa per tutto l’inverno, scampati ai famelici denti della moto zappa che li ha sparpagliati qua e là nel terreno, e infine spuntati a macchia di leopardo un po’ ovunque, piccole timide piantine che ho trapiantato con cura dedicando loro un’area dell’orto, fra zucche e fagioli.

La loro tenacia mi ha stupito e mi è di insegnamento.

L’anno prossimo voglio essere ancora qui, accada quel che accada!

Grazie.

Produci, consuma… crepa!


Una colossale diga trattiene enormi masse di acqua, energia immobilizzata da tempo che, se si esprimesse di colpo, potrebbe deflagrare in un’immensa esplosione che devasterebbe e cambierebbe definitivamente i connotati dell’intero mondo circostante.

Eppure il lago sembra fermo e placido, nascondendo a uno sguardo superficiale l’enorme potenziale che racchiude.

Nei momenti in cui riesco a sopraelevarmi, distaccandomi dalla percezione limitata della mia vita, posso vedere questo scenario dall’alto, e allora sento che dovrei fare qualcosa: quella diga deve crollare, il mondo è arrivato a un capolinea, il genere umano sta lentamente consumandosi nell’automatismo dei suoi meccanismi egoici.

Ma quel muro è solido, troppo solido per le mie minute forze; è un’impresa troppo grande per me, non ce la farò mai.

Poi, improvvisamente, mi vedo, e capisco chi sono.

Sono una minuscola crepa, laggiù, in un angolino in basso. Da quella crepa trasuda qualche goccia di acqua.

E poi vedo che ce ne sono altre, più distanti da me, a livello locale distribuite irregolarmente ma, su larga scala, in modo piuttosto uniforme.

Non sono solo.

E allora mi sento pervadere da un rasserenante entusiasmo.

Non è la mia forza che farà crollare il muro. E nemmeno la forza della altre, piccole, crepe. E nemmeno la totalità delle nostre forze messe assieme.

Sarà l’inimmaginabile forza del lago a distruggere la diga che lo sta imbrigliando, grazie a queste crepe che gli offrono uno spiraglio, un aggancio, uno spunto.

Non devo più affannarmi, è sufficiente lasciarsi attraversare dalle sue acque, liberare il più possibile il passaggio, perché questo io sono: un minuscolo canale che, se lasciato sgombero, si amplierà grazie alla forza stessa dell’energia che lo attraversa.

Non serve altro: lasciare scorrere. Ecco quello che accade quando dò libero sfogo alla mia creatività scrivendo un articolo, una canzone, lavorando il legno: mi connetto alla sorgente e lascio che l’energia mi attraversi esprimendosi nel mondo materiale.

E allora capisco anche le mie paure, ciò che mi fa chiudere in me stesso rallentando il flusso vitale: se la crepa si allarga, ad un certo punto si unirà con altre, perderà la propria individualità; paradossalmente, la mia illusoria esistenza è garantita da quei blocchi di cemento solido e immobile che tanto detesto, e che a loro volta tanto mi odiano ed emarginano in quanto pericolosa falla!

Ma se riesco a trascendere tutto ciò, a disidentificarmi da quella fessura nel muro, insignificante e allo stesso tempo così determinate, allora divento parte del tutto: che le forze dell’Universo esprimano la loro potenza attraverso me!

Come mi sento quando mi chiami NOVACCCS


Avevo sei anni, quando ho visto quella marea di bambini vocianti per la prima volta. Non avendo frequentato la scuola materna, fino ad allora mi ero confrontato con i soliti due o tre amichetti, sempre loro, sempre gli stessi. Quando c’erano, quantomeno, perché erano in villeggiatura nella frazione in cui abitavo e li vedevo solo nel periodo vacanziero.

L’ingresso nel mondo scolastico è stato per me un trauma, iniziato col turbinio delle grida e del calpestio nell’atrio della scuola, proseguito col severo peso giudicante della maestra che incombeva su di me, e la minaccia di bambini esuberanti che talvolta mi bullizzavano all’uscita o durante la ricreazione.

Avevo paura di quel mondo: tutti quei bimbi si conoscevano dai tempi dell’asilo, mentre io ero un estraneo timido e insicuro che stava sulle sue.

Ricordo l’episodio del gioco a guardie e ladri nel cortile: tutti si rincorrevano schiamazzando, io stavo fiero al margine, felice di non essere stato ancora preso. Poi ho realizzato: non mi prendevano perché non mi vedevano, mi stavano ignorando. O almeno è così che ho vissuto l’esperienza.

Ricordo il giorno in cui mi sono azzuffato con un compagno, durante la ricreazione: eravamo su di una panchina, ciascuno con una mano sulla faccia dell’altro, immobili, in tensione, in stallo. Io sentivo la paura crescermi dentro, sentivo le vene che si svuotano e la mente che si annebbia, sentivo che da solo non avrei potuto farcela, e urlavo disperato agli altri bambini che stavano in cerchio attorno a noi a godersi lo spettacolo: “Chiamate la maestra! Chiamate la maestra!”. Ma nessuno si muoveva.

Non sono mai stato bravo a difendermi. All’uscita, durante la mezz’ora di attesa del pulmino, cercavo di mettermi in un angolo, defilato, per non attirare l’attenzione del bullo di turno. A volte arrivava. A volte per fortuna qualche bambino più grande prendeva le mie parti. Ricordo ancora oggi i loro nomi, i loro volti. Non sono mai stato bravo a difendermi.

A otto anni il mio unico desiderio era attendere l’arrivo della sera, per potermi rifugiare nel caldo delle mie coperte e nella serenità dei miei pensieri, che sognavano un mondo felice in cui nessuno mi opprimeva.

Pensavo che quei giorni fossero archiviati, la mia mente li aveva quasi rimossi.

Li ho riportati alla luce nelle mie notti insonni di questi ultimi due anni, quando la paura interrompe il sogno ansioso che sto facendo e mi riporta allo stato di veglia, lasciandomi in bilico fra il desiderio di riaddormentarmi e quello di restare nel mondo cosciente, alla ricerca del male minore, della situazione che mi possa spaventare di meno.

E’ in quel momento che i pensieri nefasti si fanno strada, pensieri sull’inutilità di ogni mio sforzo, di ogni mio gesto: domattina non potrò entrare liberamente in quel negozio, ci sarà forse da discutere, ma io non lo voglio fare. Domani ci sarà da portare avanti quel progetto, ma il futuro di fronte a me è buio, incerto e minaccioso, e non ho energia e convinzione sufficienti per proseguire. Non so neppure se potrò usare i risparmi che i miei genitori mi hanno lasciato dopo una vita di sacrifici, perché il mondo della finanza se li è presi promettendo di restituirli, ma io ho smesso di credere a queste promesse.

L’alternativa è adeguarsi alle coercizioni del sistema, obbedire alla maestra. E neppure questo voglio fare, perché la mia anima si rifiuta, la mia vita non avrebbe significato se mi piegassi a ciò in cui non credo.

Non ho scampo, sono di nuovo schiacciato fra la maestra e i bambini che mi bullizzano, sono tornato indietro nel passato.

E proprio come allora, penso a ciò che farei se avessi una bacchetta magica. Ora lo so, cosa farei.

Farei esplodere gli edifici del potere, durante la notte, quando sono vuoti. Farei esplodere le strutture scolastiche. Farei esplodere le banche. Farei esplodere tutti gli edifici emblema di una società che da sempre mi opprime.

Seminerei il terrore, ma non morte. Vorrei vendetta.

E oggi so anche cosa si nasconde, dietro a quella parola. Se avessi la bacchetta magica, non la userei per uccidere chi mi tormenta, ma per fargli sentire quello che sto provando, fargli sentire tutta la mia paura.

E se scavo meglio, capisco che dietro al bisogno di vendetta si trova quello di essere compreso: ho un disperato bisogno che il mondo sappia come mi sento!

E allora, forse posso ottenere ugualmente ciò che cerco, senza ricorrere alle bombe; questo articolo è un primo passo verso la mia vendetta, che poi va letta per ciò che veramente è: un desiderio di connessione.

Forse ci riderai su, penserai che sono solo uno sfigato, un debole.

Ma il bullo sei tu, sei tu quello che si mette dalla parte del più forte e agisce nella tranquillità di sentirsi le spalle protette.

La mia forza si esprime nel mettere a nudo ciò che provo, e ti renderai presto conto di quanto possa essere dirompente, nel silenzio dell’oscurità.

Questo sono io.

Sono stanco, capo. Stanco di andare sempre in giro solo come un passero nella pioggia. Stanco di non poter mai avere un amico con me che mi dica dove andiamo, da dove veniamo e perché. Sono stanco soprattutto del male che gli uomini fanno a tutti gli altri uomini. Stanco di tutto il dolore che io sento, ascolto nel mondo ogni giorno, ce n’è troppo per me. È come avere pezzi di vetro conficcati in testa sempre continuamente. Lo capisci questo?

John Coffey

Resta qui al mio fianco


Nei momenti più difficili e bui, quando la personalità è messa alle strette e non ha più carte da giocare per affermare le sue egoiche posizioni, l’anima fa capolino e ci rivela chi davvero siamo.

Ritornato nell’ego, ho la presunzione di pensare che sia grazie a questo che ho potuto scrivere la mia prima canzone.

Sarò dunque autocelebrativo: ecco il messaggio di speranza che ti lascio, il mio piccolo contributo per affrontare questo oscuro periodo.

Lam
Il profumo del silenzio
            Mim
che risuona calmo e forte dentro me
Lam
echi onirici di assenzio
           Mim
liberan la mente da ogni suo perché

Do                                       Sol
Muovo passi nudi e incerti dentro il sottobosco fresco e umido
Rem
sentimenti riscoperti
                  Lam
dietro a un chiaroscuro verde pallido

Lam
La rugiada piange gocce 
             Mim
dalle foglie ai sassi, ai rovi tremuli
Lam
muschio sulle rocce
                     Mim
abbraccia soffice di caldo volti ruvidi

Do                                  Sol
Un anelito di vento annuncia fiero: il sole è dietro la collina
Rem
vibrazioni forti, quando arriveranno 
Lam
nulla sarà come prima

Sol
Sarà come prima…

Fa
A te che dici che la vita 
            Do
è un nemico duro che non lascia scampo
            Sol
io rispondo vieni, annusa quel silenzio
                 Lam
resta qui al mio fianco

Fa
A te che dici che la vita
             Do
è un cammino triste attraverso il pianto
             Sol
io rispondo siedi, senti che profumo,
                 Lam
resta qui al mio fianco

                 Sol
Resta qui al mio fianco…


Lam
Il ruggito del torrente
              Mim
riempie greve l’aria di un verso animale
Lam
scroscia impertinente 
                    Mim
rovesciando a valle strascichi di un temporale 

Do                                 
Rabbia cieca e devastante che ti avverte, 
Sol
attento: non mi puoi fermare
Rem
io sono del mondo, adesso che son nato 
Lam
nulla mi può più imbrigliare

Sol
mi può più imbrigliare…


Fa
A te che dici che la vita
             Do
è una prigione chiusa dietro al disappunto
             Sol
io rispondo guarda, senti quanta forza,
                 Lam
resta qui al mio fianco

Fa
A te che dici che la vita
                Do
è senza senso e tutto è solo disincanto
             Sol
io rispondo ascolta il battito del cuore
                 Lam
e rimani accanto

                 Sol
Resta qui al mio fianco…