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Attenzione, energia… counseling


Voglio ora sottoporti una mia congettura rigorosamente ascientifica, in voluta controtendenza perché mai come in questo periodo lo slogan ‘io credo nella scienza’ è diventato virale, frase palesemente contraddittoria visto che il metodo scientifico presuppone di non credere ad alcunché e sottoporre tutto a verifica sperimentale.

Io un tempo facevo parte di questi talebani idolatri, oggi invece credo nella fantasia: e la mia fantasia mi ha portato alla riflessione che ora ti sottopongo.

Partiamo da un crudele esperimento, ordinato da Federico II di Svevia nel medio evo, volto a determinare quale fosse il linguaggio naturale dell’essere umano. A tal fine venne isolato un gruppo di neonati da privare di ogni forma di interazione umana, al di fuori di ciò che era giudicato il minimo indispensabile per la loro sopravvivenza fisica. Le mie incontrollate associazioni mnemoniche mi portano al lockdown, ma questa è un’altra storia.

Ebbene, il tragico esito di questo esperimento fu la morte di tutti i neonati!

Questo significa che oltre al sostentamento puramente materiale (cibo, acqua, aria) l’essere umano si nutre anche di altro, che mi piace individuare nell’attenzione umana.

Ho peraltro letto un interessante articolo nel quale si afferma che il nutrimento che traiamo dai cibi è costituito sia dai singoli elementi chimici che costituiscono l’alimento, sia dall’energia di legame che va a determinarne la forma, ossia da quella struttura in-forma-tiva che, a parità di costituenti, fa sì che una mela sia diversa da una pietra. Se vogliamo brutalizzare, possiamo riferirci ad essa come ai fotoni rimasti intrappolati nella mela, e all’informazione che ne codifica l’essenza.

Alla luce della mia congettura fantasiosa, a questi due costituenti se ne va ad aggiungere un terzo che, con riferimento all’esempio della mela, potremmo definire romanticamente come l’amore del contadino, e che più prosaicamente altro non è che l’attenzione da lui impiegata nella coltivazione del frutteto.

Per questo sono convinto che un cibo cucinato con amore (leggasi con attenzione) sia migliore di un cibo industriale; per questo le verdure del mio orto sono più saporite (per me) di quelle comprate dal fruttivendolo, che a loro volta sono migliori di quelle del supermercato.

Per questo un’attività svolta in uno stato di presenza, ossia ponendo attenzione al compito specifico ed evitando che la mente divaghi, risulta di qualità superiore.

E tristemente aggiungo: per questo le moderne forme di tecnologia, come lo smarfon da cui probabilmente stai leggendo questo articolo, tentano di catturare la nostra attenzione quanto più possibile, col risultato di distogliere una preziosa forma di energia che potremmo invece dedicare a scopi ben più proficui.

E allora?!? Perché stai ancora leggendo!?! E va beh dai, ti perdono, e poi ho quasi finito!

Concludo osservando: per questo l’attività di counseling, grazie al suo ascolto attivo, è così nutriente per l’individuo, perché l’attenzione che viene dedicata è una forma preziosissima di energia, un’energia che è sempre più difficile da trovare nella moderna società delle avanzate tecnologie.

La recita della propria vita


Ieri sera ho concluso un corso di recitazione tenuto dal bravissimo Mauro Pirovano, ineccepibile professionista ma soprattutto persona umanamente squisita e dalla sensibilità fuori dall’ordinario.

E’ stata un’esperienza che mi ha arricchito enormemente, ma voglio qui parlare di quello che a mio avviso è stato per me il principale valore aggiunto del corso.

In queste serate Mauro ci ha ripetuto più volte che, per essere naturali quando si recita una parte, occorre cercare di vivere realmente la situazione che si sta portando in scena; il suo consiglio ricorrente è stato: visualizza la scena, perché al pubblico trasmetti l’immagine che stai creando nella tua mente; pensa a come ti sentiresti realmente se fossi in quel frangente, se vuoi essere credibile.

Tutti noi partecipanti ci siamo impegnati in questo ottenendo discreti risultati: a sua detta eravamo molto naturali, in particolare nelle scene improvvisate. Lo penso immodestamente anche io, ma altrettanto immodestamente aggiungo: perfino troppo.

Intendo dire che, almeno per quanto mi riguarda, sfruttando l’alibi della recitazione davo libero sfogo alle mie emozioni, pur se artificialmente costruite, lasciando che fluissero prive di inibizioni e descrivessero fedelmente come sarei stato qualora mi fossi trovato nella situazione portata in scena.

La differenza fondamentale è che nella finzione di queste serate di corso mi sono sentito libero di mostrarmi in pubblico, mentre se il fatto fosse accaduto realmente questo non sarebbe successo: avrei mascherato ciò che provavo per paura di mettermi a nudo di fronte al prossimo, paura che invece non aveva ragione di essere nel momento in cui sapevo trattarsi di palese simulazione.

Capisci cosa voglio dire? Pur nella finzione della recitazione, mi sono mostrato molto più genuinamente al prossimo di quanto lo faccia solitamente nella realtà! Il corso mi ha fatto capire di avere paradossalmente recitato molto più nella vita reale che non su quel temporaneo palcoscenico. Nella vita reale sono finto, sul palcoscenico ero vero!

teatro

Questa considerazione mi ha aperto un mondo: dove sta la realtà, e dove sta la finzione? Chi sono veramente io dunque? Quanto conosce di me – il vero me – chi mi circonda?

La triste verità è che la maggior parte della mia vita è una recita, perché ho troppa paura di scoprire le carte col prossimo; dovevo iniziare un’attività di recitazione, per comprendere che interpreto da sempre un ruolo che non è mio, ma tarato su quelle che giudico essere le aspettative altrui nei miei confronti.

Paradossale, cervellotico, illusorio ma tremendamente reale!

E tu? Come sei messo tu?