Saltuariamente tengo lezioni di mountain bike ad un allievo dotato di molta determinazione, si impegna con costanza per riuscire.
Talvolta lo filmo affinché possa rivedersi mentre compie il gesto tecnico, troviamo sia funzionale all’apprendimento.
Talvolta pubblico le sue gesta sui social, per gratificare un poco il mio e suo ego, farmi conoscere in quanto insegnante, e anche diffondere la passione per questo sport che amo.
Capita un giorno che ci imbattiamo in un esercizio di tecnica, su fondo bagnato e fangoso, che risulta particolarmente difficoltoso: per quanto si impegni, non riesce ad eseguirlo correttamente. La frustrazione è alle stelle.
Capita che, molto umilmente, il mio discente decida di lasciar comunque filmare e pubblicare l’apparente sconfitta, perché è utile mostrare anche quelle, oltre alle vittorie.
Capita che qualcun altro veda il filmato e trovi il coraggio di mettersi in gioco, cimentandosi in un’attività che lo spaventava da tempo proprio per lo spauracchio dell’insuccesso. Alla fine, visto da fuori, non riuscire in un’attività non gli sembra più così drammatico, c’è addirittura chi non teme di mostrarlo in pubblica piazza!
Allora mi chiedo: in base a cosa valutiamo i nostri successi? Quanto è stato utile non riuscire in quell’esercizio e comunicarlo al mondo?
Nel caso specifico l’apparente fallimento ha avuto una valenza di portata ben più ampia di quella che avrebbe avuto un’esecuzione impeccabile, e sorprendentemente inattesa!
La mente non ha strumenti adeguati per definire il successo, questa è la verità.
Lasciamo dunque che succeda quel che deve succedere, se vogliamo che sia successo.
Da mesi sentiva di voler dare una svolta alla propria vita, che fino ad allora gli era parsa sterile e priva di scopo, e questa sembrava essere finalmente l’occasione giusta.
Aveva molta paura, temeva per la sua stessa esistenza, temeva di soffrire, ma più di tutto temeva il fallimento: trovare il Simbolo dell’Anima era una missione tentata da molti, compiuta da nessuno.
Non aveva dubbi: preferiva la morte in quel deserto arido, piuttosto che trovarsi nuovamente di fronte al punto interrogativo di un’esistenza priva di direzioni.
L’albero secco dai nodosi rami attorcigliati, che aveva scelto come porto di imbarco per il suo viaggio di ricerca, si faceva sempre più piccolo alle sue spalle, mentre lui avanzava determinato, rimuovendo senza posa le pesanti pietre scure che trovava numerose lungo il cammino, quasi che il simbolo cercato si trovasse sotto una di queste.
Il sogno ricorrente che lo aveva condotto lì era chiaro: era giunto su questa terra per riportare alla luce il Simbolo dell’Anima, da lasciare in eredità per secoli alle generazioni future.
Non sapeva esattamente come, ma dentro di lui sentiva che ‘portare alla luce’ in qualche modo significava liberare il proprio cammino da tutti quei pesanti massi scuri: forse davvero, sotto uno di essi si celava ciò che stava cercando.
Non aveva una direzione precisa: talvolta procedeva in modo rettilineo, talvolta svoltava bruscamente, come guidato da una forza invisibile che non sapeva dominare.
La gola era secca, la polvere si impastava col sudore della fronte, rendeva difficoltoso il respiro, faceva lacrimare sciupando così altre preziose gocce di liquido corporeo.
Durante la notte si accampava nel nulla, aspettando il gelido buio che con dirompente vacuità spazzava via ogni ricordo dell’afa diurna, facendogli presto rimpiangere quel sole impietoso che l’aveva oppresso fino a poche ore prima.
Vagava da giorni, continuando ininterrottamente a cercare sotto i massi roventi, spostandoli di lato, incespicando, avanzando sempre più tremolante.
Le riserve di acqua e cibo iniziavano a scarseggiare e delle fonti che, a quanto si diceva, dovevano trovarsi lungo il cammino, non aveva trovato alcuna traccia.
Il materializzarsi del rischio concreto sfumava lentamente l’angoscia in paura, mentre quel continuare a spostare sassi che celavano il nulla mutava l’incertezza in frustrazione.
All’alba del quinto giorno si rimise in cammino dopo una notte popolata di incubi; sapeva che quel giorno sarebbe stato l’ultimo: era stremato, ormai non gli importava più di conoscere in che modo sarebbe finita, desiderava solo che cessasse tutta quella sofferenza.
Non dovette attendere molto: la monotonia dell’orizzonte infuocato fu presto interrotta da una sagoma in lontananza, che gli pareva familiare.
Non seppe più distinguere le sensazioni e le emozioni che alla rinfusa presero possesso di lui: sollievo, delusione, rabbia, incredulità, forse anche gioia.
Era salvo! Era tornato al punto di partenza, l’albero nodoso che aveva lasciato alle sue spalle ora era laggiù, accogliente, che lo aspettava.
Aveva fallito.
Lo raggiunse scorato, si inginocchiò davanti ad esso e iniziò a singhiozzare, dando così fondo alle ultime riserve idriche del suo corpo.
Poi il rumore alle sue spalle, come di un possente battito d’ali che repentino si avvicinava dall’alto.
Poi il ritmico spostamento d’aria che lo costrinse a voltarsi.
L’enorme uccello gli sfiorò il capo e si posò sull’albero.
“Bravo Guaimas!” disse la calda voce proveniente dal petto dell’animale.
Guaimas non ebbe la forza di chiedersi se ciò che stava sentendo fosse frutto della sua immaginazione, e sibilò un timido: “Chi sei?”
“I nomi allontanano dal vero, Guaimas! Sono qui per dirti che sei stato valoroso, hai concluso la tua missione, hai finalmente dato un senso alla tua vita.”
Udendo quelle parole restò incredulo: come poteva aver portato a termine la missione, se non aveva fatto altro che vagare in circolo senza una meta, tornando esattamente al punto di partenza? E fu proprio questo che chiese al misterioso Spirito Alato, il quale per tutta risposta fece un balzo di fronte a lui, voltandosi.
“Salta sulla mia schiena e reggiti forte, Guaimas!”
Guaimas obbedì, nonostante la paura; si strinse al collo del volatile, che si alzò in volo leggiadro guadagnando rapidamente quota.
E fu così che comprese. Comprese che la sua piccola mente non avrebbe mai potuto contenere la grandiosità della sua ricerca, né tanto meno indicargli dove cercare.
Vide dall’alto l’enorme colibrì che il suo percorso aveva tracciato sull’arido terreno dell’altopiano di Nazca: vide il Simbolo dell’Anima.
Ti è mai capitato di cimentarti in un’impresa sapendo a priori che avresti fallito?
Non mi sto riferendo a quell’atteggiamento che quasi tutti abbiamo, quello che ti fa mettere le mani avanti, col quale preannunci che non ce la farai per sentirti in qualche modo nel giusto nel caso arrivi il fallimento temuto; come dire: non ce l’ho fatta, ma tranquilli sono lo stesso OK perché è tutto sotto controllo, l’avevo previsto.
No, io parlo di qualcosa di diverso: hai mai provato a fare qualcosa con la ragionevole certezza di non arrivare, per il semplice gusto di sentire cosa si prova? Per la sfida di riuscire ad accettare un fallimento? Per avere la possibilità di mettere in bacheca un insuccesso?
Ti sembra demenziale vero? Beh, confesso che un poco lo sembra anche a me, ma vediamo cosa si può salvare di questo paradosso, per darlo in pasto alla nostra mente razionale.
Mi è arrivata questa riflessione provocatoria leggendo su internet la pubblicità di un master in coaching; un tutor dall’aspetto prestante prometteva, attraverso l’uso di moderne ed innovative tecniche neuro-bla-bla, di trasformare i discenti in persone di successo. Life coach, coaching aziendale, sport coach.
Mi sono chiesto: ci sarà qualcuno che insegni piuttosto ad essere una persona di insuccesso? Perché, personalmente, è di questo che ho bisogno: imparare ad andare incontro ai fallimenti con la serenità di chi esce a comprare il latte e se trova il negozio chiuso non ne farà un dramma.
A che serve, ti chiederai? Beh, andare deliberatamente incontro ad un frontale con un treno non è di per sé particolarmente utile, ma la capacità di farlo in potenza, quella è fondamentale: perché nella vita nessun risultato è certo, tutto è questione di probabilità. E talvolta essere capaci di commettere qualche follia può condurre a risultati sorprendenti, e forse è davvero l’unico modo per uscire dalla mediocrità della vita ordinaria.
Allenare la mia resilienza, abituarmi a fallire: di questo ho bisogno, non di tecniche che mi indichino la via del successo.
Perché, se guardo indietro al passato, il campo che mi ha sempre visto vincente (quello dello studio), è stato anche lo stesso che mi ha tenuto a lungo imprigionato, sviluppando indiscriminatamente il muscolo mentale a spese dei corpi fisico e emozionale.
Le “imprese” in cui mi cimentavo erano tutte dello stesso tipo, ed ovviamente non fallivo perché il solco diventava sempre più profondo, auto convalidante. Ma alla lunga si viene a creare una zona di comfort che impedisce ogni ulteriore crescita.
Ma poi, mi chiedo: da dove nasce questa esigenza di avere successo? Il desiderio di essere vincente non lascia in qualche modo intendere che così come sono non vado bene? E se ammettiamo che ogni evoluzione deve partire da una base sicura, forse devo proprio iniziare a convivere serenamente col mio stato di (per usare l’improprio linguaggio della mente) perdente.