Credo che conoscere sé stessi sia un po’ come disegnare la propria immagine idealizzata su un grande foglio bianco.
Si inizia con qualcosa di semplice, e per un po’ si resta appagati.
Poi si avverte la necessità di espandere quei contorni che appaiono limitanti, e altri segni vengono tracciati sul foglio, che gradualmente si va a riempire di linee, curve, sfumature.
Questa attività occupa buona parte della propria vita, e tuttavia quell’immagine continua a lasciare un retrogusto di insoddisfazione, nonostante l’impegno profuso.
Si inizia così a sospettare che, per quanto ci si impegni, il disegno non sarà mai completo.
Allora si attraversa un periodo di smarrimento, di sconforto, di frustrazione.
Poi, anche grazie a quel periodo buio, una sorta di ‘clic’ interiore suggerisce di spostare l’attenzione dai segni sul foglio agli spazi bianchi, dal primo piano allo sfondo.
Questo cambio di prospettiva permette di trascendere il campo, uscire dalle due dimensioni del disegno e comprendere di essere l’intero foglio.
A quel punto appare evidente, e tutto sommato banale, che tutti i segni tracciati servivano solo ad arrivare a questa presa di coscienza, e che non c’era una forma migliore di altre; quale che fosse stata l’immagine avrebbe comunque svolto la sua funzione, forse in un modo tanto più efficace quanto più insoddisfacente poteva sembrare.
Ma per arrivare a questa conclusione, quei segni andavano tracciati.
Lo so, me ne rendo conto: sono solito perdermi in infinite masturbazioni cerebrali. La buona notizia è che godo un sacco, e in piena autonomia.
Con questa freddura mi piace introdurre un tema che mi è caro: andare oltre i propri limiti.
Quante volte mi è capitato di ritrovarmi al punto di partenza, dopo innumerevoli sforzi per cambiare qualcosa che non mi piace! Che frustrazione, sentirmi in un circolo vizioso dal quale non riesco a uscire, imbrigliato nell’incantesimo dell’eterno ritorno.
Poi, nel mio percorso formativo, mi imbatto nel paradosso del cambiamento: accettarsi come punto di partenza per cambiare. Capisco così che i limiti non vanno superati, quello è solo un puerile atteggiamento della mente: i limiti vanno trascesi.
Trascendere significa ampliare il proprio spettro di analisi, aggiungere una dimensione, sopraelevarsi sul labirinto.
Già, perché se ragiono solo in due dimensioni, effettivamente sono in un circolo chiuso da cui non posso uscire; il problema però non sta nel circolo, ma nello spazio angusto in cui mi sono arbitrariamente costretto.
Che succede se aggiungo una terza dimensione? Ecco che quel circolo, grazie alla sua stabilità che tanto mi turbava, diventa un affidabile mattone con cui posso costruire qualcosa, nello spazio più ampio nel quale mi rendo ora conto di trovarmi.
Passaggio da 2D a 3D
O magari capisco che non è affatto un circolo, ma una ‘molla’ che si innalza verso l’alto, lungo la terza dimensione, solo che non me ne accorgevo a causa della mia visuale limitata, perché una molla vista dall’alto si riduce a un cerchio. Scopro allora che non torno mai al punto di partenza, sto invece crescendo lungo una direzione che non avevo considerato.
La molla appiattita
Trascendere significa aggiungere una dimensione al problema, vederlo in una prospettiva più ampia, chiedendosi: “come posso sfruttare questa situazione che non posso cambiare?” oppure: “che insegnamento posso trarre da questa situazione? Cosa dice di me?” oppure ancora: “che vantaggio secondario garantisce questa situazione? Quale secondo fine persegue il mio inconscio mantenendomi inchiodato nello status quo?
Arrivo così a comprendere che non c’è limite al numero di dimensioni che posso aggiungere, e che il processo di crescita mi porta a sentirmi sempre e comunque stretto entro i limiti in cui mi trovo.
Ma questa non è che l’ennesima masturbazione cerebrale: torniamo così al punto di partenza.
Su un’ottava più elevata.
Conto quanto Kunta Kinte E in quanto Kunta Kinte canto Sulla mia schiena è stato tatuato un numero La mia catena è come un filo del telefono La mia condanna è che se mi fermo mi uccidono La mia fortuna è che sto camminando in circolo Sono primo io e sono l’ultimo È un fatto tipico Del gioco ciclico del ritmo mantrico
Mi capita sovente di leggere articoli o seguire video di coaching o crescita personale; qualcosa accomuna gran parte di questi: al loro termine mi sento profondamente inadeguato.
Il tono del messaggio è di solito il seguente: se vuoi raggiungere degli obiettivi, devi essere disposto a metterti in gioco; smettila di dare la colpa al mondo per i tuoi insuccessi ed inizia a lavorare su ciò che puoi fare tu per migliorare. Quanto ti stai allenando veramente? Vuoi davvero essere felice, o in fondo hai paura di ciò che potresti raggiungere? Non nasconderti dietro a dei ‘non ce la faccio’, hai molte più risorse di ciò che credi. Rimboccati le maniche, non sprecare il tuo tempo.
Tutte sacrosante verità. Ansiogene, sacrosante verità.
Il problema è che dopo averle sentite mi deprimo, perché leggo in esse un retro messaggio: guarda che così come sei non vai mica tanto bene! Anche se il loro intento è buono, finiscono inevitabilmente col farmi sentire in difetto. Il che è ovviamente vero, ed è tautologicamente legato al fatto che non sono come vorrei essere, ma questo già lo so da me, grazie… altrimenti impiegherei il mio tempo diversamente e non mi porrei il problema di evolvere.
Ma vediamo la questione da un altro punto di vista; per me crescere è un po’ come fare l’esploratore.
L’esploratore parte sempre da un campo base: è il rifugio dove sa di poter tornare in caso di bisogno. Qui si prepara, si mette in forze, quindi si spinge fuori per poi farvi ritorno al termine dell’impresa. Mette assieme le informazioni racimolate durante l’attività esplorativa e valuta se spostare il campo un po’ più in là, per ampliare gli orizzonti del mondo conosciuto. Non si sognerebbe mai di avventurarsi fuori, esposto alle intemperie e ai pericoli dell’ignoto, se non sapesse di poter fare affidamento su un posto sicuro in cui rifugiarsi.
L’evoluzione personale è l’impresa di un pioniere che necessita di una base sicura di partenza: e questa base sicura non può prescindere dall’accettazione di sé. Se ci sentiamo inadeguati, come possiamo trovare le forze per addentrarci nel mondo sconosciuto del cambiamento? Se percepiamo il nostro campo base come una tenda stracciata, piena di spifferi, nella quale entra la pioggia, come possiamo pensare di intraprendere un’efficace e determinata esplorazione dell’ambiente circostante?
Ecco dunque che entra in scena il paradosso del cambiamento: per poter cambiare, occorre preliminarmente accettarsi; accogliere con benevolenza gli aspetti di sé giudicati sbagliati, perché (anche) quello siamo noi, nel qui ed ora.
Accettare di essere ciò che non vorremmo più essere, che meravigliosa e magica contraddizione!
Già, magica: perché nel momento in cui entriamo nella quiete della resa (e non già della rassegnazione, bada bene), ecco che si liberano le energie per trascendere ciò che siamo, ed il cambiamento avviene spontaneamente, senza sforzi: come il bambino che, sicuro della presenza del genitore a pochi passi, si avventura nel mondo con gioia, senza paura.
Adesso sei cresciuto, quel genitore sei tu. Accogli con benevolenza il bambino che è in te, vedrai come ti stupirà. Ed allora evolvere non sarà più un problema, né un bisogno, ma un normale fluire dell’esistenza.
Anni fa, fronteggiando le problematiche legate ai miei due figli neonati, osservai (ahimé, il passato remoto è più che mai adeguato) che gli esseri umani sono affetti da almeno due errori di progettazione:
il cibo e l’aria entrano dalla stessa apertura, per poi prendere strade separate grazie ad una valvola (l’epiglottide) che ne decide la destinazione; questo comporta il grosso rischio di soffocamento in caso di malfunzionamento accidentale del meccanismo; sarebbe stato sicuramente più sicuro separare in modo netto gli orifizi di ingresso;
nel caso delle femmine, la vagina vicino all’ano crea problemi di infezioni della prima in caso di contaminazioni da feci; anche in questo caso, meglio sarebbe stato posizionare i due apparati in maniera differente.
Ora, la riflessione che pongo in merito al dibattito creazionismo/evoluzionismo, argomento peraltro già affrontato in un articolo precedente, è la seguente: se veramente l’essere umano non fosse un prodotto dell’evoluzione ma oggetto di creazione da parte di qualche entità senziente, ciò non evidenzierebbe le forti carenze ingegneristiche di quest’ultima? Simili svarioni non verrebbero accettati da un reparto di controllo qualità.
Mi preme puntualizzare che il mio essere a favore dell’evoluzione non vuole negare l’esistenza divina, casomai ridimensionare un poco l’ingombrate ego degli esseri umani, molti dei quali ancora convinti, nonostante le loro evidenti imperfezioni, di essere stati creati ad immagine e somiglianza di Dio.
Voglio ore condividere con te la conoscenza di una figura geometrica che ho scoperto da poco e che mi incuriosisce ed affascina al tempo stesso; il mio vuole essere uno spunto per stimolare eventuali approfondimenti.
Partiamo dal cerchio, per molte culture e tradizioni simbolo di perfezione, unità, infinito, assoluto, e suddividiamolo in nove parti uguali, numerandole come in figura.
Il numero 9 ha molte proprietà matematiche interessanti; ad esempio, prendiamo la sua tabellina: la somma di ogni cifra che la compone fa sempre 9
90: 9+0 = 9;
81: 8+1 = 9;
72: 7+2 = 9;
ecc…
Le stesse cifre della tabellina riesci a disporle sulla figura tracciata sopra, partendo dal 9 e muovendoti nelle due direzioni lungo la circonferenza, a desta e sinistra:
Adesso prendiamo il numero 7. Esso ricopre ruoli importanti in molte culture; cito alcuni esempi:
i 7 giorni della settimana;
le 7 note musicali;
i 7 chakra (centri energetici del corpo umano);
i 7 sacramenti
le 7 virtù (teologali + cardinali)
i 7 peccati capitali
il numero buddhista della completezza.
i 7 nani di Biancaneve (ooops, scusa, sto banalizzando).
Fai una ricerca in rete e vedrai quanti altri significati riuscirai ad associare a questo numero. Bene, adesso vediamo che succede se dividiamo un intero in sette parti:
1 : 7 = 0,142857142857142857…
Come vedi abbiamo ottenuto un numero periodico, ossia la sua parte decimale è un infinito susseguirsi delle cifre 142857.
La cosa divertente dal punto di vista matematico è che se sommiamo fra loro queste ‘fette’ di intero, otteniamo altri numeri periodici la cui parte decimale contiene le stesse cifre (nello stesso ordine ma in posizioni differenti):
2 : 7 = 0,285714285714285714…
3 : 7 = 0,428571428571428571…
4 : 7 = 0,571428571428571428…
5 : 7 = 0,714285714285714285…
6 : 7 = 0,857142857142857142…
Adesso individua ogni cifra della parte decimale e collega, sulla circonferenza, quelle adiacenti; ad esempio, in:
0,285714285714285714…
l’8 è adiacente al 2 e al 5, quindi traccio un segmento da 8 a 2 e uno da 8 a 5.
Ripeti l’operazione per ogni cifra, ed otterrai la seguente figura:
Restano fuori i punti 3, 6 e 9, che costituiscono i vertici di un triangolo equilatero. E qui troviamo il numero 3, il numero perfetto, anch’esso pregno dei più svariati significati. Uniamo i suddetti punti.
La figura che abbiamo ottenuto prende il nome di enneagramma, simbolo ampiamente utilizzato in ambito psicologico ed esoterico; dai più è ad oggi conosciuto come schema che rappresenta i nove tipi di personalità di base: ogni tipo psicologico può essere approssimato con una delle nove categorie che lo schema individua. In realtà lo schema è nato in ambito esoterico come schematizzazione utile per lo studio dei processi evolutivi: ogni fenomeno dinamico (uomo compreso) sarebbe accomunato da un unico modello di sviluppo, rappresentato appunto dai nove punti dell’enneagramma.
Non voglio qui addentrarmi nei vari significati che possono essere associati a questo simbolo (né ho le conoscenze per farlo), il mio scopo era solo quello di stimolare la tua curiosità; se ci sono riuscito almeno in parte posso ritenermi soddisfatto. La curiosità aiuta ad uscire dal solco.
Oggi è il mio ultimo giorno da lavoratore dipendente.
Non appartengo più ad un’azienda che in tredici anni mi ha dato tanto, creata da un uomo con pregi e difetti, ma che è sicuramente fuori dal solco, grazie al quale ho vissuto momenti di crescita, scoramento, entusiasmo, incazzatura, gratificazione. E’ anche grazie a lui se ho imparato ad essere pragmatico, a copiare con creatività l’esistente reinventandolo in modo innovativo, e soprattutto il fatto che la realtà può essere bella o brutta, dipende da come la sai descrivere e comunicare agli altri: una minaccia o un’opportunità.
Non appartengo più ad un ruolo che mi ha permesso di fare esperienze degne di rispetto, portandomi in svariate parti d’Italia nonché all’estero: Danimarca, Irlanda, Bulgaria…
Non appartengo più ad una cerchia di colleghi ai quali puoi voltare la schiena senza temere sorprese, persone semplici, affidabili, giocose, vicine. Parti di me. Con loro gli ormai tradizionali barbecue di primavera e cene di Natale bootleg sono diventati un modo per uscire dagli schemi del formalismo aziendale, momenti di relazione fra persone, dove la parola collega, a ben vedere, è decisamente fuori posto. A questa cerchia di amici mi piacerebbe continuare ad appartenere, se lo vorranno.
Perché dunque abbandonare un ambiente così gradevole? Intendiamoci, non vorrei sembrare troppo mieloso: va comunque tenuto presente che il ricordo stempera i momenti negativi, livella l’esperienza eliminando le code della gaussiana. Se avessi scritto le mie considerazioni in particolari momenti della mia carriera aziendale avresti trovato questo articolo molto più colorito. Ma non è questo il punto.
Il punto è che non appartengo più ad un modo di pensare il lavoro che ritengo ormai vecchio, fatto di orari, attenzione ai mezzi e non al risultato, apparente sicurezza; nel quale si pensa che quest’ultima scaturisca magicamente da un contratto formale, dall’ala protettiva di un sindacato. Come se un pezzo di carta potesse impedire alla democratica falce della vita di operare indiscriminatamente.
In questi anni ho maturato la convinzione che la vera Sicurezza derivi dalla crescita personale, dall’evoluzione della propria essenza, che ci rende più forti ed in grado di affrontare le difficoltà, imprevedibili, che la vita ci riserva. Una crescita che deve passare obbligatoriamente per la fatica. Non sentirti sicuro quando hai previsto tutto, ma quando sei in grado di gestire l’imprevisto.
Ma ho anche capito che parlare non basta: bisogna mettere in pratica. E con la decisione di non appartenere più, voglio provare a farlo. Non senza paure, certo. Il Silvio che è in me ha cercato più volte di ribellarsi (fra l’altro ho la vaga sensazione che stia introducendo forme autocelebrative in ciò che sto ora scrivendo). Ma come ti dicevo, ho deciso di non ascoltarlo più.
Preferisco provare e sbagliare, che non provare affatto. Se non sarò all’altezza del cambiamento, tornerò alla – rispettabile e dignitosa! – vita del lavoratore dipendente.
Qualche tempo fa ho ricevuto un commento da una collega blogger col quale mi comunicava di avere nominato Fuori dal Solco per il premio ‘The versatile blogger of the year’.
La cosa mi ha riempito di gioia, perché mi sono sentito apprezzato; la collega cura il blog d’arte La Musa Inquietante, che trovo molto ben scritto anche se non lo seguo molto perché, per mio difetto, non ho particolare sensibilità per le tematiche legate all’arte: ti invito però a dare un’occhiata!
Cliccando sul link fornitomi per vedere di che si trattava ho capito che è una specie di catena di S. Antonio: ogni blogger che sia stato nominato deve scrivere un articolo in cui citare chi lo ha scelto, pubblicare un logo, scrivere sette cose su di sé, quindi nominare altri 15 blogger e comunicarlo commentando qualcuno dei loro articoli.
Di tutte queste cose, l’unica che ho deciso di fare è la prima: ed infatti questo articolo esordisce con i sinceri ringraziamenti e apprezzamenti per La Musa Inquietante. Ma poiché voglio restare fuori dal solco, ho deciso che l’anello di catena che è in me si dovesse spezzare: preferisco invece analizzare il fenomeno per capirne meglio le dinamiche. Quello che andrò a dire potrebbe mostrare di primo acchito connotazioni negative, ma non è questo l’intento, voglio assolutamente rimanere neutro e trarre insegnamento, cerca di proseguire la lettura tenendolo a mente.
Visto con un certo spirito critico, questo fenomeno può essere considerato a tutti gli effetti un virus: si propaga di sito in sito grazie al particolare terreno fertile incontrato, cioè l’entusiasmo derivante dall’essere apprezzato. Appena ricevuta la nomination mi sono infatti sentito importante, ho iniziato a cliccare euforico qua e là per la rete in cerca di informazioni in proposito. Ma questo è un punto debole: facendo leva su di esso, è possibile portare chiunque dove più ci pare; l’obiettivo ultimo del virus non è aiutare il corpo che lo ospita, ma perpetuare la propria esistenza.
Passato qualche minuto, ho cercato di tornare con i piedi per terra e di capire come stessero le cose.
E le cose stanno come ho detto: qualcuno ha avuto l’idea geniale di trasferire nel mondo dei blog il concetto di catena di S.Antonio, dando parziale visibilità ai blogger che diffondevano il messaggio ma immensa visibilità a sé stesso! E fin qui nulla di male, dopo tutto anche i portatori sani del virus hanno ricevuto dei benefici in termini di visibilità; esistono però casi maligni, ad esempio i molti post sui social network in cui si chiede di diffondere notizie false facendo leva su emozioni forti quali pietà, compassione, rabbia. Scatena un’emozione forte in qualcuno nel modo giusto, e gli farai fare ciò che vuoi!
Ma facciamo un passo oltre: questo meccanismo è vero più in generale per le idee: se sono in grado di fare presa sul substrato che utilizzano per diffondersi (i cervelli), possono replicarsi e perpetuare la specie per secoli (vuoi un caso emblematico? Il Cristianesimo è un’idea che si propaga, assumendo ad ogni passaggio modifiche evolutive – in senso darwiniano – da più di 2000 anni!). Il genetista Richard Dawkins ha utilizzato il termine memi per identificare questa sorta di geni di secondo livello, con argomentazioni che ritengo assolutamente convincenti; i memi si propagano di cervello in cervello così come i geni si propagano di corpo in corpo, e possono essere considerati a tutti gli effetti come entità a sé stanti, che trascendono il particolare supporto che in quel momento li sta ospitando. Ti senti sminuito perché relegato al ruolo di semplice supporto delle tue idee? Scusa. Ma dopotutto è quello che siamo, hardware.
Ma torniamo a noi: che insegnamento possiamo trarre da tutto questo? Direi senz’altro quello di diffidare di ogni tipo di automaticità nella risposta agli stimoli esterni. Tutto ciò che è automatico può essere pericoloso, perché ci fa prendere decisioni che solo apparentemente sembrano nostre; è importante rendersi conto di questo fenomeno, perché sta alla base dei molti meccanismi di marketing, propaganda elettorale, demagogia e quant’altro, che ci fanno comportare come massa non pensante invece che individui coscienti.
E non puoi dire che non ci siano fulgidi esempi davanti ai nostri occhi…
La nostra economia sta attraversando un periodo di crisi, non c’è media che si stanchi di ricordarcelo. Mi chiedo, ma cos’è esattamente questa crisi? E soprattutto, se adesso stiamo peggio di prima, vuol dire che un tempo stavamo meglio, eppure non ricordo alcuna notizia che dicesse: “l’economia sta attraversando un periodo di abbondanza”; ne deduco che dev’essere parecchio tempo che le cose non fanno che peggiorare… o forse la vera risposta è in questo articolo.
Sicuramente ci rendiamo più conto dei peggioramenti che dei miglioramenti… in ogni caso, è innegabile che la crisi riguardi anche le nostre vite: ti sarà certamente capitato di affrontare dei periodi negativi, in cui tutto sembra andare per il verso sbagliato…
Ebbene, con questo articolo vorrei dare una lettura fuori dal solco del fenomeno, chiamandolo col suo vero nome: opportunità.
Partiamo da qui: secondo te, data una situazione di equilibrio è possibile raggiungerne una migliore? La risposta è si, ma ad un prezzo: rompere l’equilibrio, e passare di conseguenza attraverso una fase di crisi.
Un esempio? La tua casa è mal disposta, dovresti buttar giù quel muro e aprire una porta in quell’altro. Chi ha vissuto questa esperienza non avrà esitazioni a chiamarla ‘periodo di crisi’, soprattutto se si è occupato di rimuovere la polvere lasciata in giro dai muratori. Eppure è stata una crisi necessaria, vissuta con fastidio sì, ma con la prospettiva di un futuro migliore, perché finalmente ci si è potuti comprare quella cucina che ci piaceva tanto.
Un altro esempio: sono stanco dell’attuale posto di lavoro, decido di cambiare; dovrò passare iniziali momenti di difficoltà, in cui mi trovo ad essere l’ultimo arrivato, a dovermi ambientare, privo di punti di riferimento; ma dopo qualche mese, quando sarò entrato a far parte degli ingranaggi della nuova macchina, sarò ripagato di tutti gli sforzi.
Ogni fase di assestamento deve passare per un brutto periodo, e la mia lettura vuole che sia vero anche il viceversa: ogni brutto periodo deve significare una transizione verso un equilibrio migliore.
Ecco come la vedo io:
Come vedi, nella figura sono rappresentati gli alti e i bassi della vita, ma con un’importante caratteristica: ogni punto di massimo è più alto di quello precedente; potrai obiettare che potrebbe anche essere il contrario, cioè che sia più basso, ma io ribatto che questo è quello che accade a chi insiste a riempirsi la bocca con la parola crisi e a piangersi addosso invece di cogliere le opportunità.
Credo fermamente che le persone che hanno raggiunto il successo (qualsiasi cosa significhi questa parola, raccomandati esclusi) abbiano ragionato così.
A chi è sportivo, questa figura ricorderà anche il meccanismo della super compensazione: a seguito di uno sforzo prolungato, le energie del corpo si abbassano raggiungendo una soglia minima. Segue poi una fase di recupero in cui si riacquistano le forze, che è fondamentale nell’allenamento: in questa fase, il corpo non ritorna esattamente ai livelli potenziali in cui si trovava prima, ma un po’ al di sopra: è per questo che periodi di sforzo opportunamente intervallati da periodi di riposo producono un miglioramento della risposta fisica.
E se questo vale per il corpo, perché mai non dovrebbe applicarsi al cervello, o alle dinamiche della vita? Il corpo umano non è che un’applicazione di principi di funzionamento universali su cui poggia ogni fenomeno fisico.
Illazioni, certo, speculazioni. Mica ho le prove scientifiche di ciò che dico.
La complessità del corpo umano; il miracolo della nascita; gli ingegnosi sistemi di sopravvivenza messi a punto dalle più svariate specie animali; i delicati equilibri su cui sono basati i processi biologici: basta un piccolo ingranaggio fuori posto, e tutto il meccanismo crolla. Ti pare davvero possibile che tutto questo sia frutto del caso?
Facciamo un paragone: pensa ad un’opera letteraria, ad esempio la Divina Commedia. Immagina di dare una tastiera ad una scimmia e lasciare che questa giochi a battere dei tasti a caso. Immagina pure che la scimmia sia molto paziente, piuttosto longeva, e che continui ininterrottamente nel suo esercizio per un tempo indefinitamente lungo. Vorresti farmi credere che, prima o poi, dalla battitura della scimmia emergeranno i versi della Divina Commedia? Va be’, te lo concedo, non abbiamo limiti di tempo, la scimmia che invecchia potrà essere sostituita da un’altra più giovane, la tastiera è indistruttibile e il PC a cui è collegata ha risorse illimitate… ma vuoi davvero convincermi che alla fine, per puro caso, salterà fuori un’opera letteraria? No, non ci credo: la Divina Commedia esiste perché qualcuno l’ha progettata, è impensabile che lettere disposte casualmente vadano a comporre una tale meraviglia.
Ovviamente tu sei un evoluzionista, insisti con la tua teoria; allora ti propongo un gioco: invece della Divina Commedia, limitiamoci alla più limitata locuzione “FUORI DAL SOLCO”; inventati un meccanismo per estrarre a caso lettere, esegui più estrazioni ripetute di gruppi di 15 lettere, e fammi sapere dopo quante estrazioni avrai composto “FUORI DAL SOLCO”.
Ti ho convinto? Vedrai da solo che già arrivare ad un risultato così semplice è praticamente impossibile, figuriamoci un’intero poema. Converrai con me, pertanto, che anche la teoria dell’evoluzione va rivista in favore di una più convincente teoria della creazione.
-o-o-
L’argomentazione che ho ora presentato, che a prima vista appare piuttosto convincente, nasconde in realtà una profonda ignoranza di quelli che sono i meccanismi evoluzionistici; parte erroneamente dal presupposto che i processi coinvolti siano casuali, e da questo trae conclusioni palesemente non realistiche per confutare la teoria; è vero che le mutazioni genetiche e ambientali sono dovute al caso, ma i processi di selezione che premiano i più adatti non lo sono affatto (forse chi ha maturato l’idea opposta è stato fuorviato dalla meritocrazia italiana: non facciamoci confondere, si tratta di altra tematica, e comunque anche lì la casualità non c’entra).
In realtà, la selezione naturale opera secondo criteri che sono tutt’altro che casuali: il più adatto sopravvive e si riproduce, gli altri soccombono (ovvio, non c’è un nesso causa-effetto così rigido, magari occasionalmente si riproduce anche il meno adatto, ma la direzione in media è quella). Ho detto si riproduce; questo significa che la generazione successiva non dovrà ripartire da zero, beneficierà della situazione di vantaggio dei genitori: la selezione è cumulativa, ossia si stratificano i progressi di volta in volta fatti nel corso delle generazioni.
Per analizzare meglio il meccanismo voglio proporti una simulazione nella quale viene considerato un mondo semplificato, così riassumibile:
abbiamo una popolazione composta da dieci individui, cinque maschi e cinque femmine;
la popolazione è costante: ad ogni cambio generazionale, i genitori muoiono e lasciano posto ai figli: di questi, solo i dieci più adatti sopravvivono, per metà maschi e per metà femmine;
ogni individuo è descritto da una sequenza di caratteri alfabetici maiuscoli (il codice genetico);
per stabilire i criteri di selezione viene introdotto un individuo ideale, preso come riferimento per misurare l’adattamento ambientale; quanto più ogni elemento della popolazione si avvicina al riferimento, tanto più viene premiato dalla selezione naturale; l’individuo ideale dell’esempio è caratterizzato dal codice genetico ‘FUORI DAL SOLCO’, ma puoi cambiarlo con una sequenza di caratteri alfabetici maiuscoli a piacere;
ipotizziamo che l’ambiente sia immutabile, per cui l’individuo di riferimento non cambia;
il punteggio di adattamento di ogni individuo è pari al numero di lettere in comune con quello di riferimento.
Esistono due procedure: la selezione NON cumulativa, nella quale ogni generazione riparte da zero, innescata dal pulsante con la lettera (A), e la selezione cumulativa (darwiniana), nella quale ogni generazione trasmette ai figli parte del codice genetico, innescata dal pulsante con la lettera (B).
La procedura (A) è semplice: ogni volta vengono generati nuovi individui con caratteri scelti a caso.
La procedura (B) prevede le seguenti fasi:
generazione di una popolazione iniziale con caratteri casuali;
accoppiamento: si formano coppie in base ai rispettivi punteggi;
riproduzione: da ogni coppia nascono figli che hanno per metà i caratteri del padre, per metà quelli della madre; in più viene applicata una modifica casuale ad uno di questi caratteri (mutazione genetica);
selezione: i figli così generati vengono ordinati per punteggio (somiglianza con l’individuo ideale), di questi i primi dieci vanno a sostituire i genitori, gli altri non sopravvivono.
Ti invito a provare i due casi: cliccando più volte sul bottone (A) noterai quanto sia difficile avvicinarsi all’individuo evoluto, perché ogni volta si riparte da zero, non c’è ‘memoria’ degli errori precedenti.
La procedura innescata dal bottone (B) converge invece verso l’individuo di riferimento, e nel giro di qualche decina di generazioni raggiunge l’obiettivo.
Quindi: chi cerca di convincerti dell’improbabilità dell’evoluzione parte dal presupposto che questa sfrutti il meccanismo (A), mentre quello da chiamare in causa è il (B).
Ora ti lascio libero di sfogarti nei commenti, ma alcune precisazioni sono d’obbligo: in primo luogo, questa non dimostra affatto che la teoria dell’evoluzione è giusta, ma semplicemente che l’argomentazione che la vuole negare è sbagliata. In secondo luogo, e a questo tengo particolarmente, mi sembra piuttosto ovvio come, anche sposando la teoria dell’evoluzione, la decisione circa i criteri di selezione non spetti agli esseri umani: chi avesse aspirazioni neo naziste abbia chiaro in mente che gli esseri viventi (tutti) sono oggettodi questo meccanismo, non soggetto attivo. L’olocausto non è colpa di una teoria, ma della stupidità di chi si lascia convincere da interpretazioni distorte della stessa.
Un momento. Ho parlato di esseri viventi. Forse possiamo spingerci oltre? Forse il meccanismo ha portata più generale, forse si può applicare anche alle idee?
In natura esistono alberi altissimi, alcuni raggiungono il centinaio di metri; pare che uno studio teorico abbia stabilito che l’altezza massima raggiungibile sia attorno ai 130 metri: oltre questo limite la forza di gravità non permette un sufficiente afflusso di acqua alle parti più alte, impedendo il normale ciclo di vita della pianta.
Ovviamente per la pianta mantenere un’altezza così elevata implica un elevato consumo di risorse (acqua e sali minerali), quindi da un punto di vista evoluzionistico sarebbe conveniente mantenere dimensioni più contenute. Perché allora si verifica questa apparente contraddizione?
Una possibile spiegazione, direi piuttosto convincente, è che un’altezza maggiore significa una maggiore esposizione ai raggi solari, indispensabili per la fotosintesi clorofilliana. Immaginiamo un albero solitario in un bel prato, felice di essere irraggiato costantemente. Un giorno nasce un nuovo alberello nelle vicinanze, parzialmente ombreggiato dal primo: quest’alberello crescerà cercando di sovrastare il precedente, in modo da accaparrarsi una maggiore quantità di radiazione. Diciamo meglio: l’albero non ha alcuna volontà di crescere, non sta adottando una strategia consapevole, si tratta di un automatismo codificato nei suoi geni; alberi dai geni diversi, che implicano bassa crescita, semplicemente sono morti (o non sono mai nati perché i progenitori sono morti) perché sopraffatti da quelli con geni ad alta crescita.
Comunque: gli alberi proseguono la ricerca dei raggi solari, si riproducono, il prato è diventato una foresta; immaginiamo che si raggiunga un punto in cui tutti gli alberi hanno più o meno la stessa altezza: ci fermiamo qui? No, perché non è un equilibrio stabile: basta che uno di questi cresca un poco che subito lascia in ombra uno o più concorrenti, rimettendo in moto la corsa agli armamenti.
Se gli alberi potessero mettersi d’accordo, cosa deciderebbero? Ovviamente che non è il caso di proseguire la crescita: è una battaglia da cui tutti escono sconfitti, perché si passa da un livello in cui per vivere servono – supponiamo – 500 unità di risorse ad uno nuovo in cui ne servono 550, a parità di irraggiamento solare.
Un parallelo molto simile si trova in economia: in situazione di oligopolio (ossia quando ci sono pochi produttori di un bene, ad esempio la telefonia), gli operatori sanno che non è conveniente ingaggiare una battaglia di ribasso dei prezzi: i consumatori si sposterebbero da un produttore all’altro costringendo tutti ad allinearsi per non perdere quote di mercato, col risultato che ognuno si ritroverebbe con più o meno la stessa quantità di clienti di partenza, che pagano però un prezzo inferiore.
Ma se ci pensi, questo meccanismo è molto più diffuso, nella nostra quotidianità, di quanto si possa immaginare: nel lavoro si tende a far carriera, perciò si lavora di più per surclassare il collega e farsi bello agli occhi del superiore, col risultato che il tempo libero da dedicare ad altro è spesso ridottissimo; le aziende devono incrementare costantemente il fatturato, ogni anno deve necessariamente essere migliore del precedente, devono inoltre aumentare di dimensioni per sopravvivere, come se potesse esistere una crescita infinita. La crescita del Prodotto Interno Lordo è indice di benessere: un’economia è sana se il PIL cresce, magari poi le malattie da stress dilagano (nessun problema, si possono curare grazie al maggior reddito…).
Attenzione poi perché questa continua rincorsa alla crescita viene sfruttata dai poteri forti: il marketing, i media, i politici ti piazzano davanti la carota per farti correre, e tu lo fai senza pensare, senza riflettere, e i tuoi giorni passano e ti ritrovi vecchio con alle spalle una vita vissuta secondo canoni dettati da altri.
Perché dunque non riusciamo a capire che forse è il caso di rallentare, che bisogna concentrarsi sulla qualità di ciò che facciamo e non sulla quantità? Noi non siamo come gli alberi, noi possiamo concertare una strategia di sviluppo sostenibile… o forse no?
Voglio solleticare ulteriormente lo spirito di contraddittorio dei lettori con una considerazione finale. Un tempo la categoria femminile era meno schiava di questo meccanismo (non entriamo nel merito se per scelta o per costrizione, in questa sede non è pertinente); poi, a seguito di un femminismo secondo me male indirizzato, si è cercato di dimostrare che la donna è in grado di fare tutto ciò che fa un uomo, equiparando di fatto le due figure e ottenendo il risultato (nei casi in cui ci si è riusciti) di liberarla da una pastoia semplicemente per soggiogarla ad un’altra, quella che già da tempo vincolava l’uomo, senza raggiungere il vero salto di qualità, cioè quello di sancire le capacità della donna nella sua diversità rispetto all’uomo.
Oggi vediamo donne in carriera che hanno più testosterone di Schwarzenegger, adottano atteggiamenti aggressivi al pari dei loro colleghi maschi, hanno la sensibilità e capacità di ascoltare di una pentola: per forza hanno raggiunto la parità con gli uomini, morfologia a parte sonodegli uomini. Tutto questo mi sembra un clamoroso passo indietro mascherato da passo avanti…