Osservo la mia meta, lassù in alto, avvolta dalle nuvole. Mi accingo ad affrontare la dura salita sperando che non piova, le condizioni meteo in vetta non sembrano essere delle migliori. Però almeno fa fresco.
Dopo circa un’ora e mezza di cammino una leggera nebbiolina inizia ad avvolgermi; manca poco ormai. La nebbia diventa sempre più fitta, mi abbraccia nel suo manto umido quasi a volermi proteggere.
Una riflessione si fa strada fra i miei pensieri: questa che ora chiamo nebbia è quella che là in basso, alla partenza, chiamavo nuvola.
Cos’è dunque? Nebbia o nuvola?
Non importa.
Lei è sempre stata qui, indifferente ad ogni tentativo di catalogazione, ben consapevole che i mutevoli punti di vista altrui potranno forse cambiarle nome, ma non riusciranno mai a imbrigliarne l’essenza, a impedirle di manifestarsi per ciò che è.
Quello che mi piace di una sfera è che sulla sua superficie qualsiasi punto può essere considerato un centro; è così che da sempre immagino l’infinito, ed è questa la forma che sembrerebbe avere l’Universo in cui viviamo.
Quando negli anni trenta Edwin Hubble osservò che le galassie si stavano allontanando una dall’altra, ebbe la curiosa impressione che la nostra Via Lattea fosse al centro dell’espansione, un pensiero decisamente in odore di geocentrismo tolemaico per essere aderente alla realtà.
L’ipotesi che l’Universo sia in realtà la superficie di una sfera a quattro dimensioni ci sottrae da quella presunzione di centralità che da sempre cerchiamo di arrogarci: immaginando dei puntini disegnati sulla superficie di un palloncino, infatti, se questo si gonfia (l’equivalente dell’Universo che si espande), ogni puntino si allontana da tutti gli altri e può essere ragionevolmente considerato come il centro dell’espansione, anche se si tratta solo di un mero gioco di vedute.
Ed è attraverso questa metafora che mi piace guardare all’illusione del mio ego: dal mio punto di vista tutto ruota attorno a me, e mi sento a buon diritto al centro di ogni cosa, e lo stesso immagino capiti a te… ma siamo solo dei puntini sulla superficie della sfera della vita: tutti sono al centro, ma non lo è nessuno.
Beh… ‘solo’ è un po’ riduttivo: siamo dei meravigliosi puntini su quella superficie, ma se impariamo a collocarci nella giusta ottica capiamo che la nostra vera essenza è la sfera, e non il puntino.
Mi capita talvolta di osservarmi e di notare una forte contraddizione.
Da un lato tengo comportamenti che tradiscono una bassa autostima ed una scarsa fiducia in me: penso che il mondo sia un posto difficile in cui vivere, mi guardo intorno e vedo tanti problemi e poche sfide, raramente mi metto alla prova, temo i riflettori, evito la competizione per paura della classifica.
Dall’altro lato, invece, mostro di valutarmi assai: difendo strenuamente la mia persona verso l’esterno, non accetto di essere svilito in pubblico, prendo le osservazioni nei miei riguardi come affronti personali e sono attaccato alle questioni di principio, perché è necessario che il mondo sappia che a me nessuno può mettere i piedi in testa; guidato da questi valori, scivolo talvolta nella supponenza e nell’arroganza.
Mi sono domandato come spiegare questa apparente incoerenza, e mi sono anche dato una risposta: non esiste alcuna contraddizione, perché ci stiamo riferendo a due diverse immagini di me.
I comportamenti del primo tipo nascono da una scarsa considerazione di quella che ritengo essere la mia immagine privata, ciò che penso di essere veramente, mentre quelli del secondo tipo sono relativi all’immagine pubblica, ossia il modo in cui credo di essere visto dagli altri.
Capita spesso che quanto minore sia la considerazione dell’immagine privata, tanto maggiore sia l’esigenza di lustrare per bene e difendere l’immagine pubblica, nel tentativo di compensare o nascondere quello che viene ritenuta una situazione di difetto.
Peccato che sia l’immagine privata sia quella pubblica non siano altro che rappresentazioni mentali che non hanno alcunché di reale; sono solo immagini, per l’appunto, nascono dall’identificazione con i nostri processi razionali e vanno a consolidare una rappresentazione distorta ed illusoria del sé: un falso io che prende il nome di ego.
L’ego è un’ostacolo formidabile allo sviluppo. E’ a causa sua che temiamo tanto il giudizio altrui, che ingaggiamo lotte senza quartiere col vicino di casa, che ci affanniamo in assurde battaglie per difendere posizioni di principio, che rinunciamo ad un’impresa prima ancora di averla cominciata per paura del fallimento.
L’ego nasce spesso come risposta ad un bisogno di accettazione (da parte dei genitori, in particolare) e viene nel tempo ad assumere un’identità a sé stante, inizia a vivere autonomamente a spese del nostro vero io, che viene schiacciato e compresso dall’esuberanza delle due immagini mentali in antitesi.
L’ego è l’attore che vive la vita al nostro posto: l’abbiamo ingaggiato come controfigura e ne abbiamo perso il controllo.
Magari otteniamo successi, raggiungiamo brillanti traguardi, e tuttavia ci sentiamo insoddisfatti; perché? Perché abbiamo soddisfatto i bisogni dell’ego, e non quelli della nostra anima (termine che qui uso senza alcuna accezione mistica o religiosa, ma solo per etichettare la vera essenza di ciascuno di noi).
Anzi, mi capita spesso di osservare quanto il successo sia insidioso da questo punto vista: quante persone conosco dall’ego spropositato, ingigantito dalle conquiste e prigionieri della necessità di mantenere la propria immagine pubblica ai livelli di prestigio raggiunti? Quanta ansia può creare una situazione del genere se per di più l’immagine privata è completamente diversa ed insinua il dubbio che il successo ottenuto sia immeritato?
Ho iniziato a mettere sotto i riflettori queste mie battaglie interiori, le vedo negli altri e capisco che sono fonte di inutile sofferenza perché impediscono di vivere la vita in modo pieno.
L’ego è stata una mia valida difesa per anni, non lo voglio demonizzare, mi ha offerto protezione e gli sono grato: ma adesso è giunto il tempo di crescere; già… ma se non sono ciò che credevo di essere, allora chi sono io?
Ogni volta che, dopo abbondanti piogge, passo davanti a questa cascatella, non posso fare a meno di fermarmi a guardarne la bellezza; è accaduto anche qualche giorno fa, e in quell’occasione mi sono tornate alla memoria riflessioni che espressi in uno dei miei precedenti articoli.
La vedi quella roccia? La foto non rende appieno, ma ti assicuro che è parecchio dura, e tuttavia è stata scavata assai profondamente; volendolo personificare, quel ruscello è riuscito in un’impresa davvero eccezionale.
Lo sai perché?
Per la sua costanza, dirai: certo, è vero, questa è la prima cosa che salta agli occhi, gutta cavat lapidem; ma scendiamo un poco più al di sotto della superficie.
Sempre seguendo la metafora della personificazione, ti chiedo: secondo te, il ruscello ha mai dubitato per un istante di farcela? Si è mai chiesto se ne valesse la pena? Si è mai sentito in affanno, in preda all’ansia e spaventato dall’enorme lavoro che aveva da compiere?
Tu risponderai: ma il ruscello non si è mai posto alcun obiettivo di scavare la roccia, questo è avvenuto per il solo fatto che il suo corso passava in quel punto. Non c’è alcuna intenzionalità in tutto questo, la metafora non regge più, se spinta così lontano.
Bravo, ha centrato il punto! Il ruscello non ha alcun obiettivo, semplicemente segue il suo corso, si limita ad essere sé stesso; e tuttavia, guarda che bel risultato ne è venuto fuori!
E allora mi domando: non sarà forse il caso che pure io abbandoni affanni, preoccupazioni, ansie da prestazione… e mi limiti semplicemente ad essere me stesso? Potrebbe essere interessante scoprire a quali grandi imprese porta tutto ciò, non credi?
Ma l’acqua gira e passa e non sa dirmi niente
di gente e me o di quest’aria bassa.
Ottusa e indifferente cammina e corre via
lascia una scia e non gliene frega niente.