Qualcuno ti consegna una busta ricoperta di immagini inquietanti, spaventose, orribili, quindi si allontana e sparisce.
Fa male tenerla fra le mani, desideri con tutte le tue forze liberartene al più presto, ma per qualche motivo sconosciuto non riesci a distruggerla.
La prima opzione che ti viene in mente è la più evidente: restituirla al mittente; allora ricerchi, o attendi impaziente, l’occasione per rincontrarlo e rendergli ciò che è suo.
Passa il tempo invano e ti solletica la tentazione di ricorrere alla seconda opzione, tanto è insopportabile il disagio che provi: consegnare la missiva a qualcun altro. Gli faresti del male… o forse no? In ogni caso ti sentiresti meglio.
Non ci riesci, non puoi fare una cosa del genere, non è giusto. Pensi allora ad una terza opzione, la più semplice e immediata: nascondere la busta da qualche parte, in modo da non vederla.
Non la vedresti, ma sapresti pur sempre che è lì, in un luogo da cui è meglio stare lontani.
Scegli infine l’opzione più dolorosa: aprire la busta e leggere il messaggio che contiene. Ci vuole coraggio, molto coraggio, ma è per questo che la busta è arrivata, è questa la sua funzione.
Apri e leggi.
Un lampo nella notte: finalmente comprendi il significato di quei disegni inquietanti, comprendi perché ti facevano paura, e questa si dissolve come nebbia al sole.
Le esperienze dolorose sono solo messaggeri e, come si dice… ambasciator non porta pena.
Adesso la busta non fa più male, la tieni affettuosamente con te.
Mi è capitato in passato di tenere colloqui di lavoro con candidati da assumere in azienda, per lo più colloqui tecnici per valutare le conoscenze della persona da collocare nel mio team di lavoro (mi occupo di sviluppo software); si è trattato di esperienze molto formative per me, una di queste è stata particolarmente significativa e la voglio ora utilizzare come punto di partenza per questo articolo.
La persona che avevamo di fronte (in quell’occasione mi trovavo con altri due colleghi inquisitori), che chiamerò amorevolmente Chef Developer, aveva dimostrato conoscenze tecniche molto superiori alla norma, rispondeva alle domande con estrema disinvoltura e padronanza della materia. Rispetto agli altri candidati dimostrava di avere una marcia in più, inutile dire che fu messo in testa alla graduatoria. Alla fine assumemmo più di una persona, ed ovviamente Chef Developer era considerato il migliore di tutti. Altri si erano dimostrati bravi sì, ma un po’ tiepidini: non avevano la carica dirompente di conoscenze dimostrata dal primo, non erano sicuri di loro stessi e si percepiva.
Passato un anno dalle assunzioni, iniziammo a tirare le prime somme. Ebbene, Chef Developer, che avrebbe dovuto spaccare il mondo, si stava invece dimostrando un fallimento, mentre altri che non erano risultati così convincenti stavano invece ottenendo ottimi risultati. Il primo continuava ad infarcire i propri referenti di chiacchere, buoni propositi, suggerimenti ed opinioni sulle soluzioni da adottare, ma quando si trattava poi di andare a verificare quanto avesse messo in pratica, poco (e male) era stato fatto.
Dove avevamo sbagliato? Non c’era dubbio che si fosse trattato di una cantonata madornale.
Con gli anni ho avuto poi modo di verificare quanto questo scollamento fra sapere e saper fare sia comune. Ad oggi ho formato la mia opinione in proposito (spero suscettibile di miglioramenti futuri) e voglio qui proportela.
Il fatto è che la conoscenza, in senso lato, va metabolizzata su più livelli. Esiste un livello intellettuale, che è quello sul quale si concentra la nostra scuola, al quale è associato il piano verbale. Esistono però almeno altri due livelli, uno motorio e l’altro emozionale, che giocano un ruolo importante, direi fondamentale, e la conoscenza va estesa anche ad essi. Cosa che normalmente non accade. Questi altri due livelli sono difficilmente verbalizzabili; chiedi ad un camionista di spiegarti come fare la retromarcia con un rimorchio: il più delle volte ti dirà: ‘si fa così’, ed inizierà a farti vedere come fa (livello motorio). Lui sa fare la manovra, ma non saprebbe metterla efficacemente nero su bianco, a prescindere dal livello scolastico.
Immagina di dover comprare un prodotto, ma di non essere sicuro della sua validità. Chiedi allora consiglio ad un amico che lo ha acquistato qualche mese fa, il quale dice che sì, è un ottimo prodotto, anche se finora non ha avuto occasione di usarlo; ha però letto più volte il libretto di istruzioni e ne è entusiasta.
Date le premesse ti fideresti del consiglio dell’amico, o cercheresti qualcuno che lo abbia usato effettivamente?
La domanda è ovviamente retorica, e vuole sottolineare questo aspetto: non puoi dire di conoscere qualcosa se prima concretamente non ne fai esperienza; soprattutto, finché questo non accade non sei in grado di sapere quali emozioni ne possano derivare (come fai a dire che non ti piace se non hai mai provato?). E sono le emozioni che guidano i nostri comportamenti, non le argomentazioni razionali. Gli esperti di marketing lo sanno bene.
Questa per me, che ho sempre ricercato nei libri tutte le risposte, è una lezione fondamentale: i libri sono utili, ma se non li completi con delle esperienze, rimangono lettera morta. A tavolino non puoi formarti delle opinioni, non puoi sviluppare conoscenza.