Devi sapere che io ed i miei figli facciamo parte del Fronte di Liberazione della Gallina.
Di che si tratta? Presto detto. La mia anziana madre, esponente di una scuola contadina di vecchio stampo, ha un pollaio con quattro galline, che alimenta quotidianamente fornendo loro mangime ed acqua in abbondanza, spesso anche pastoni a base di pane e crusca. Le galline non devono fare il benché minimo sforzo per sopravvivere (produrre uova rientra nel loro ciclo biologico, non si può certo configurare come attività lavorativa), a loro non manca nulla se non la possibilità di razzolare liberamente nell’ampio prato nel retro della casa.
Ora, è risaputo che il pollo allevato a terra produce uova di migliore qualità rispetto a quello allevato in cattività o peggio in batteria, quindi è iniziata prima blandamente, poi sempre più intensamente, una battaglia per liberare le galline dal giogo del pollaio, che nell’ottica del Fronte rivoluzionario deve rappresentare un ricovero per la notte, non una prigione.
Passando nei pressi di casa mia potresti vedere pertanto scene divertenti e un po’ surreali in cui un’anziana donna raduna le galline nel pollaio e poi, dopo che si è allontanata, due bambini (ebbene si, io sono la mente del movimento e loro il braccio operativo) le liberano nuovamente portandole a razzolare nell’aia; a volte potresti assistere a discussioni animate circa l’opportunità di rimetterle nel recinto per evitare che scavino nell’aiuola o nell’orto, o circa i benefici salutari ma anche economici derivanti da un’alimentazione ricavata direttamente dalle risorse del terreno.
Credo che non si troverà mai un accordo fra la vecchia scuola di pensiero e la nuova; certo, la libertà va gestita, ci vorrà parecchio tempo prima che le galline imparino ad evitare le zone interdette, non si possono programmare come i robottini aspirapolvere. Ma i membri del Fronte non hanno dubbi: questa è la strada, per quanto difficile va percorsa fino in fondo, sentono che è quella giusta.
L’altro giorno, rientrando in ufficio dopo la pausa pranzo e osservando la transumanza di impiegati che convergevano verso i luoghi di lavoro, non ho potuto fare a meno di attivare il collegamento: caspita, anche io sono come le galline! Mi danno il mangime in cambio delle uova (fra l’altro non mi riesce neanche troppo spontaneo farle), uova che non sono di eccelsa qualità perché prodotte in condizioni sub ottimali (luoghi chiusi, stretta vicinanza con individui dalle abitudini diverse dalle mie, orari rigidi, inevitabile scollamento fra le mie esigenze e quelle dell’azienda), ma tutto sommato non ho grosse preoccupazioni, ho l’illusione del posto fisso! E come le galline ormai abituate alla cattività, se anche la porta è aperta io non esco, perché ho paura, o forse solo per inerzia. Ho troppo da perdere a guadagnarmi la libertà? O forse non ho la piena percezione di quanto piacevole sarebbe? Certo, non si tratterebbe di libertà incondizionata, dovrei pur sempre evitare di razzolare nell’aiuola o nell’orto, dovrei fare attenzione che qualche cane sciolto non mi scambi per una pernice, però che ampio prato avrei a mia disposizione!
In questo articolo voglio proporti un modo un po’ stravagante di uscire dal solco e dare una lettura alternativa alla tua vita. Come al solito, ti chiedo di portare pazienza, scardinare i tuoi preconcetti e seguire la lettura fino in fondo, anche se potrà sembrarti un po’ ridicola o sconcertante.
Immagina di essere uno scrittore dalla fantasia piuttosto fervida che produce con trasporto racconti di vita quotidiana; la narrazione usa la prima persona, in un modo così efficace e coinvolgente da risucchiare chi legge all’interno della storia, facendolo immedesimare a tal punto da distinguere con difficoltà la realtà dalla fantasia.
I racconti nascono di notte, mentre dormi: la tua mente in quel momento è infatti libera dai condizionamenti della coscienza e può prendere le strade più imprevedibili e non censurate; in un miscuglio onirico creativo, ogni notte generi il capitolo di un libro che l’indomani trascinerà il lettore in nuove esperienze di vita.
Adesso viene la parte difficile: immagina di essere tu stesso il fruitore delle storie da te prodotte; ogni mattina ti risvegli con un capitolo nuovo nuovo da leggere, ti immergi nella lettura e questa ti coinvolge, ti trascina, scatena emozioni per te reali, ti fa perdere la consapevolezza che si tratti solo di un libro… e allora ti arrabbi per l’automobilista che prevarica lo sfortunato protagonista incolonnato nel traffico, ti dispiaci per le difficoltà che deve superare, ti rallegri per gli accadimenti a lui favorevoli.
Per quanto coinvolto tu possa essere, alla fine ti rendi però conto che si tratta solo di un racconto, non della realtà, e quindi confini le tue emozioni entro i limiti di un accettabile distacco: proprio quando ti rendi conto di esserti calato eccessivamente nella parte, allora capisci che è il momento di prendere una pausa dalla lettura, per ritornare alla realtà.
Bene, se sei riuscito a seguirmi fin qui, questo è l’esercizio mentale che ti propongo: prova per un giorno a comportarti come se la tua vita fosse davvero così; stasera andrai a letto sapendo che durante la notte produrrai il capitolo che descriverà per filo e per segno quanto ti accadrà domani. E domani, ogniqualvolta succederà qualcosa, sia esso positivo o negativo, lo tratterai come un frutto della tua fantasia, con la consapevolezza di essere stato tu ad aver creato quella realtà, l’unico responsabile, l’unico che poteva fare andare le cose diversamente.
Potrà sembrarti che questo approccio così surreale ti addossi una responsabilità eccessiva, ma se rifletti ha una serie di benefici; primo fra tutti, sposta su di te le leve decisionali: sei tu l’unico che può intervenire, che può fare qualcosa, o ti rimbocchi le maniche o ti rassegni, in ogni caso non c’è nessuno all’infuori di te con cui potrai prendertela. In secondo luogo, elimina alla radice la sensazione di persecuzione presente nella maggior parte di noi, che ci crediamo vittime di un mondo ostile, quando in realtà siamo i soli responsabili di quanto ci accade.
Facciamo degli esempi di come si possa tradurre in pratica tutto ciò.
La giornata appena trascorsa non ti ha soddisfatto, torni a casa stanco e infastidito? Cerca di convogliare le tue emozioni verso sentimenti positivi, che ti predispongano benevolmente nell’attività di gestazione notturna, per fare in modo che l’episodio di domani sia più gradevole. Fai il possibile per allontanare le emozioni negative, o il tuo subconscio genererà mostri che dovrai affrontare il giorno dopo.
Il capoufficio ha comportamenti irritanti nei tuoi confronti? Sappi che sei tu a dipingerlo così, è un personaggio di tua creazione; prova ad immaginartelo più morbido, cerca di fare in modo che il corso degli eventi nella tua immaginazione prenda un’altra direzione. Visto sotto questa nuova luce, tutto appare ridimensionato, meno preoccupante: in fondo, si tratta solo di un racconto…
Mandi curricula a svariate aziende perché vuoi cambiare lavoro ma nessuno ti convoca a colloquio? Non dare la colpa alla crisi economica o all’età avanzata: in realtà il vero responsabile è il tuo subconscio, che teme il cambiamento, non intende affatto fare un salto nel buio e produce coerentemente una storia in cui nessuno ti vuole, per sollevare la tua coscienza dal peso della decisione. Sei tu a non voler cambiare, ma ti sei inventato una storia molto credibile in cui dai la colpa agli altri. Che genio letterario!
Cerca di sovvertire causa ed effetto, contenitore e contenuto: non sei tu ad essere calato nella realtà esterna, ma la realtà ad essere contenuta nella tua mente; nulla esiste realmente là fuori: tu non sei dentro la stanza, è la stanza ad essere nel tuo cervello; questo vale per ogni altra entità: il passerotto sul davanzale, la pioggia, il traffico, la crisi economica, le tensioni in Medio Oriente; tutto è frutto della tua fantasia, sei tu che stai scrivendo il libro, sei tu l’artefice, è il tuo stato mentale a generare mostri o arcobaleni, sono i tuoi incubi o i tuoi sogni notturni a fare la differenza.
Assurdo vero? Eppure non puoi provare che le cose non stiano davvero così. Mi dirai: non è vero, chiedo ad altri cosa vedono là fuori, e questi mi confermano una realtà coerente con quanto da me percepito, quindi la realtà è questa. Ti rispondo: coloro a cui chiedi lumi sono essi stessi prodotti della tua mente, e tu sei un buon narratore, mica scrivi storie campate per aria… per forza ottieni risposte non contraddittorie.
E poi rifletti: per quanto assurdo possa sembrare, se questo esercizio servisse a darti una percezione meno preoccupante e più attiva della vita, perché non provare? Non mi aspetto ovviamente che tu lo riesca a fare con vera convinzione, però puoi iniziare per gioco, anche solo per stemperare con l’aiuto della fantasia alcune situazioni difficili.
Per lo meno, così facendo affiderai a te stesso la scrittura del racconto che ti anestetizzerà la mente, e non allo sciamano di turno che predica da un pulpito o da dietro ad un altare…
Qualche giorno fa i miei figli mi hanno chiesto perché devo andare a lavorare.
La prima risposta che mi è venuta in mente è stata qualcosa del tipo ‘lo stipendio ci serve per mangiare’; poi mi sono reso conto che sarebbe stata una non risposta, perché in linea di principio soggetta alla contro domanda: perché mai dovrebbero darti dei soldi per quello che fai?
Allora, con un colpo di genio, ho placato la loro sete di sapere dicendo che tutto quello che abbiamo, dal cibo al computer (per chiamare in causa qualche elemento a loro caro) lo possediamo in virtù del fatto che qualcuno ha lavorato o sta lavorando per mettercelo a disposizione. Se il contadino non lavorasse la terra, non avremmo la verdura, o il grano, che grazie a qualcun altro diventa farina e poi pasta.
Insomma, il senso del lavoro di ognuno è legato al fare qualcosa per gli altri, per ricevere direttamente o indirettamente qualcosa in cambio; l’introduzione della moneta ha poi semplificato questo meccanismo, forse al prezzo di snaturarlo un poco, ma il succo non cambia: noi lavoriamo per essere utili alla società al fine ultimo di trarne vantaggio.
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Qualche tempo dopo, osservando alla fine della mia giornata lavorativa la collega delle pulizie che entrava nel mio ufficio, ho pensato che grazie a lei io posso lavorare in un ambiente confortevole e salutare, e mi sono riaffiorati alla memoria i discorsi fatti qualche tempo prima con i bambini.
In quel momento è maturata una riflessione: l’utilità sociale della collega delle pulizie è intrinsecamente legata al fatto che qualcun altro lavora; se gli uffici fossero vuoti, non ci sarebbe bisogno di pulire alcunché. La collega ha quindi sì un’utilità sociale, ma indiretta: non sta producendo qualcosa a beneficio del consumatore finale. Sta lavorando per chi lavora.
Non che io stia messo meglio: per inciso, faccio il programmatore, e sviluppo librerie di software, ossia ‘mattoncini’ che utilizzeranno poi altri programmatori. Quindi anche io non sto producendo nulla per il consumatore finale: lavoro per i lavoratori.
Bene, abbiamo già due (categorie di) lavoratori di cui al consumatore finale, per quella che è la percezione dei suoi bisogni, non potrebbe fregare di meno. Ma non finisce qui.
Il collega della stanza a fianco utilizza il prodotto della mia fatica per mettere insieme un’applicazione per la fatturazione. Anche lui sta lavorando per un altro lavoratore, ossia l’addetto all’ufficio vendite del grossista di libri che rifornisce, supponiamo, tutte le librerie della provincia.
Anche l’addetto dell’ufficio vendite lavora per un lavoratore, l’imprenditore grossista, il quale a sua volta lavora per il titolare del negozio di libri che hai sotto casa.
Dopo la lettura di questo mio articolo, decidi che forse è opportuno dedicarsi a qualcosa di meglio ed esci per comprare un libro.
Ed eccoti il libraio: è il primo lavoratore, fra i personaggi finora incontrati, che fatica direttamente per il consumatore finale, l’unico ad avere la ragionevole certezza che qualcuno trarrà beneficio dal suo operato: nella fattispecie godendo di una – finalmente – buona lettura.
In quel libro confluiscono migliaia di ore, lavorate da migliaia di lavoratori diversi, che costituiscono la base di una piramide di cui tu sei il vertice. Vista al contrario, il mio lavoro si spalma su migliaia di persone che fanno parte di una piramide rovesciata di cui io rappresento con fatica la punta di appoggio inferiore; la maggior parte di loro non ha la più pallida idea della mia esistenza, né che anche un pezzettino del mio lavoro è finito in ciò che in quel momento sta consumando.
A questo punto mi sorgono una serie di domande.
A quanto ammonta il totale delle ore lavorate complessivamente in questa catena, e quante di queste si traducono effettivamente in un beneficio per il consumatore?
Quanto influisce la complessità di questo macchinario sulle inefficienze dello stesso?
Esiste al suo interno qualcuno che lavora ma di cui si potrebbe fare tranquillamente a meno (si badi: non perché nullafacente, ma perché impegnato in un compito che non serve)?
Al di là di situazioni da cortocircuito da cui il geniale messaggio dell’immagine sopra, che pure esistono, una cosa mi pare certa: quanto più è corta la distanza, misurata in termini di numero di intermediari, fra chi lavora e chi consuma, tanto più il lavoratore ha certezza che la sua fatica serva a qualcosa. E’ un po’ come comprare verdura a chilometro zero.
Non è un problema strettamente legato ad una attività: la collega delle pulizie, a parità di lavoro, se opera a casa propria o di un privato ha una misurabilità massima della propria utilità sociale, che diventa invece dubbia quando opera nel mio ufficio; se nel mio tempo libero miglioro, in veste di programmatore, il sito dedicato alla mountain bike, ho la (per lo meno verificabile) certezza di apportare beneficio a qualcuno (gli amici che lo consultano); lo stesso non posso dire per ciò che faccio nelle otto ore passate in ufficio.
E qui so già che, vista l’enorme stima che nutri nei miei confronti, hai delle obiezioni: mi dirai che i miei colleghi traggono beneficio dal mio lavoro, senza il quale non potrebbero fare, o farebbero con più difficoltà, il proprio. Può darsi, ma i beneficiari in quanto lavoratori, in questo ragionamento non contano: contano solo i consumatori finali.
Se io lavoro per un lavoratore, ciò che faccio ha senso solo nella misura in cui il lavoro di quest’ultimo serve ad altri, e così via fino alla fine della catena al cui estremo si trova, per definizione, il consumatore finale, l’unico degno di attenzione, l’unico che fa nascere l’esigenza nativa di lavoro altrui.
Credo che ognuno di noi debba imparare a convivere quotidianamente con la domanda: ‘ma il mio lavoro a chi serve?’, ed applicarla a tutto ciò che fa nella propria vita; non per dare giudizi di valore, ma per avere una maggiore consapevolezza del proprio ruolo nella società, e magari anticipare situazioni drammatiche quali la perdita dell’impiego, capendo per tempo se ciò che sta facendo ha o meno un futuro.
Facciamo un esempio: in Italia si discute in continuazione dell’industria automobilistica, perché rappresenta, assieme all’indotto, una grossa fetta di posti di lavoro; ma alla persona sensata che osserva le città ingorgate o le situazioni da bollino rosso nei week end di agosto, non sorge il dubbio che forse ci sono troppe auto in circolazione e che chi lavora in quell’industria sta producendo qualcosa che, considerata in quei volumi, alla società non serve?
Concludo con una domanda provocatoria: chi è più utile alla società, colui che non lavora e consuma soltanto, magari grazie ai soldi del papi, oppure l’indefesso lavoratore che produce beni che nessuno userà? Il primo ha quantomeno il merito di dare un significato alla vita di altri, godendosi il frutto, opportunamente rimunerato, della loro fatica…
Mi sento in vena creativa: in questo articolo ho deciso di raccontarti una storia da me inventata; spero di riuscire a coinvolgerti, ma non ho molta fantasia per cui ho inserito qualche ingrediente piccante per rendere più interessante la lettura. La storia è la seguente.
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Due personaggi arrivano a Solchenburgo sul far della sera, mentre Guglielmo è seduto alle porte della città. Non appena li vede si alza, va loro incontro e dice: «Signori, venite in casa mia: vi passerete la notte, vi farete una doccia e poi, domattina, ve ne andrete per la vostra strada». Quelli rispondono: «No, passeremo la notte in albergo». Ma egli insiste tanto che vanno da lui ed entrano nella sua casa. Egli prepara per loro una cena, inforna delle pizze e così mangiano. Non si sono ancora coricati, quand’ecco che gli uomini della città si affollano intorno alla casa, giovani e vecchi, tutto il popolo al completo. Chiamano Guglielmo e gli dicono: «Dove sono quegli uomini che sono entrati da te questa notte? Falli uscire da noi, perché possiamo abusarne!». Guglielmo esce verso di loro sulla porta e, dopo aver chiuso il battente dietro di sé, dice: «No, non fate loro del male! Facciamo così, io ho due figlie che non hanno ancora avuto rapporti sessuali; lasciate che ve le porti fuori e fate loro quel che vi piace, purché non facciate nulla a questi uomini, che sono miei ospiti». Ma quelli rispondono: «Tirati via! Sei venuto qui come straniero e vuoi fare il giudice! Ora faremo a te peggio che a loro!». E spingendosi violentemente contro Guglielmo, si avvicinano per sfondare la porta. Allora dall’interno quegli uomini sporgono le mani e traggono in casa Guglielmo chiudendo il battente; poi colpiscono gli aggressori con l’abbaglio accecante di un laser così che non riescano a trovare la porta.
Quegli uomini dicono allora a Guglielmo: «Chi hai ancora qui? Il genero, i tuoi figli, le tue figlie e quanti hai in città, falli uscire da questo luogo. Perché noi stiamo per distruggerlo: il grido innalzato contro di loro davanti al nostro padrone è grande e il nostro padrone ci ha mandati a distruggerli».
Guglielmo esce a parlare ai suoi futuri generi, che dovranno sposare le sue figlie, e dice: «Alzatevi, uscite da questo luogo, perché il castellano sta per distruggere la città!». Ma i generi credono che egli voglia scherzare. Quando arriva l’alba, i due ospiti fanno premura a Guglielmo, dicendo: «Su, prendi tua moglie e le tue figlie ed esci per non essere travolto nel castigo della città». Guglielmo indugia, ma quegli uomini prendono per mano lui, la moglie e le sue due figlie, per un grande atto di compassione del castellano verso di lui; lo fanno uscire e lo conducono fuori della città. Dopo averli condotti fuori, uno di loro dice: «Fuggi, per la tua vita. Non guardare indietro e non fermarti dentro la valle: fuggi sulle montagne, per non essere travolto!». Ma Guglielmo risponde: «No! Vedi, tu hai usato una grande compassione verso di me salvandomi la vita, ma io non riuscirò a fuggire sul monte, senza che la sciagura mi raggiunga e io muoia. Guarda quella città: è abbastanza vicina perché mi possa rifugiare là, lascia che io fugga lassù, e così la mia vita sarà salva». Gli rispondono: «Va bene, eviteremo di distruggere la città di cui hai parlato. Presto, fuggi là perché non possiamo far nulla, finché tu non vi sia arrivato». La città in questione è Pitemburgo.
Il sole sorge e Guglielmo è arrivato a Pitemburgo, quando il castellano fa piovere dal cielo sopra Solchenburgo una pioggia acida infetta da virus mortali, che uccide tutti gli abitanti della valle e l’intera vegetazione del suolo. La moglie di Guglielmo si volta indietro a guardare, e viene uccisa da un fendente letale.
Poco tempo dopo Guglielmo lascia Pitemburgo per andare ad abitare sulla montagna insieme con le due figlie, perché teme di restare, e si stabilisce con loro in una caverna. Un giorno la maggiore dice alla più piccola: «Nostro padre è vecchio e non c’è nessuno in questo territorio per unirsi a noi. Vieni, facciamogli bere del vino e poi corichiamoci con lui, così faremo sussistere una discendenza da nostro padre». Quella notte fanno bere del vino al padre e la maggiore lo violenta; lui, ubriaco, non si accorge di nulla. All’indomani la maggiore dice alla più piccola: «Ieri ho copulato con nostro padre: facciamogli bere del vino anche questa notte e va’ tu questa volta con lui; così faremo sussistere una discendenza da nostro padre». Anche quella notte fanno bere del vino al padre e la più piccola lo violenta. Così le due figlie di Guglielmo entrano in gravidanza. La maggiore partorirà un figlio dal nome Lucio. Anche la più piccola partorirà un figlio e si chiamerà Gustavo.
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Piaciuto il racconto?
Che opinione ti sei fatto dei personaggi? Secondo quelli che sono i tuoi principi culturali, morali o religiosi, quale di essi è degno di lode? Guglielmo che sacrifica le figlie ad un’orda di assatanati per salvare due sconosciuti? Le figlie incestuose che lo fanno ubriacare? I due emissari colpevoli della strage, o il castellano mandante? Gli abitanti, aspiranti violentatori di gruppo? La moglie? I generi?
Cambiamo prospettiva. Che insegnamento trai da questa storia? Qual’è la morale del racconto? La narreresti ai tuoi figli prima di addormentarsi? Se si, come gliela spiegheresti? La divulgheresti nelle scuole?
Bene, ti lascio libero di rispondere a queste domande; spero non mi giudicherai male per questo racconto…
Ora che ci penso bene, credo che invece lo farai… probabilmente penserai che per arrivare a scrivere queste cose devo avere una mente un po’ deviata…
E va bene, lo confesso, a mia parziale discolpa: non è proprio tutta farina del mio sacco, mi sono ispirato ad una storia narrata in un libro piuttosto famoso, forse al contempo il più stampato e in proporzione meno letto (se non hai riconosciuto il racconto, nemmeno tu l’hai fatto); questo libro è stato donato in versione ridotta e semplificata a mio figlio, studente della scuola elementare, dal Ministero dell’Istruzione; mi sono detto: se è un libro la cui lettura è incentivata a scuola, deve sicuramente avere contenuti meritevoli di divulgazione…
Mi hanno detto che il primo post deve essere un po’ rappresentativo del blog, deve in qualche modo far capire al lettore dove si andrà a parare.
Ci ho pensato su, probabilmente hanno ragione, e allora ci proverò, ma tieni presente che per me è un po’ difficile sapere dove sto andando a parare… comunque: questo blog vuole essere un insieme di spunti di riflessione. O meglio, quando mi vengono dei pensieri che reputo degni di nota, li voglio sottoporre ai lettori di questo blog (mi son detto: nel mucchio qualcuno che li prenderà in considerazione lo troverò…); i commenti, positivi o negativi che siano, sono pertanto estremamente graditi.
Perché ‘Fuori dal solco’? Beh, fondamentalmente per due motivi.
In primo luogo per prevenire coloro che troveranno i miei articoli deliranti (so che ci saranno, se non fosse così resterei piuttosto deluso): caro lettore, se appartieni a questa categoria sappi che concordo con te: infatti la parola ‘delirare’ deriva dal latino ‘de lira‘, cioè, per l’appunto, ‘fuori dal solco’.
In secondo luogo, ma questo lo chiarirò meglio in uno dei post a venire, il solco rappresenta per me un vincolo, che ci mantiene fermi sulla nostra rotta e ci impedisce qualsiasi cambio di percorso. Più seguo la medesima strada, più il solco si fa profondo, più difficile è uscirne. Cosa significa uscire dal solco? Significa lasciar cadere le ipotesi: quello che prima era un postulato del mio ragionamento (in economia si direbbe una variabile esogena), adesso viene sottoposto a verifica, entra esso stesso nell’analisi del problema, magari trovando conferma, magari venendo invalidato. In ogni caso, alla fine mi ritrovo con un ragionamento migliore, che si basa su meno assunzioni, più completo: la mia consapevolezza è aumentata.
Mi piacerebbe molto che qualcuno dei miei futuri post, spesso volutamente esagerati e provocatori, aumentasse l’ampiezza di vedute di qualche lettore; non voglio aiutarvi a trovare delle risposte (non ci riuscirei), voglio solo che vi poniate più domande: allora, probabilmente, le risposte le darete voi a me con i vostri commenti!