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Uscire dalla conforzoun


Ora voglio fare due chiacchiere con te a tu per tu (cioè tu2), in confidenza.

Quando (concedimi un metaforico francesismo) schiacci una merda e qualcuno ti dice che porta fortuna o, declinato altrimenti, subisci una qualsiasi sfiga e il guru di turno ti fa notare che si tratta invece di una grande opportunità di crescita e che bisogna uscire dalla comfort zone… ecco, detto fra noi… non manderesti questi signori, sempre per rimanere conformi nell’utilizzo degli appropriati termini tecnici, allegramente a cagare?

Vedi, io mi rendo conto che le difficoltà rafforzano e permettono di crescere, il fatto è che mi sarei anche stufato di prendere bastonate e sentirmi quasi nella condizione di dover ringraziare, di baciare il bastone, come si suol dire. A volte quel bastone lo prenderei a due mani e lo spaccherei in testa a qualcuno!

E allora? Dove sta il giusto? Cosa è più utile per me? Nascondere questi bassi istinti sotto il tappeto in nome della evoluzione spirituale, o dar loro voce in nome di un sacrosanto sfogo? Non sarà forse che anche questi biechi impulsi terreni nascondano importanti messaggi?

Io mi sono fatto questa idea: la situazione è simile a quella dell’allenamento. Si dice che in esso la fase più importante sia il recupero, il che è forse una esagerazione, tutte le sue fasi sono importanti; in ogni caso, l’allenamento si basa sul principio della supercompensazione, e funziona più o meno nel modo seguente.

Si sottopone il fisico a uno sforzo che lo impegni al di sopra del livello a cui è abituato, provocandogli uno stress. Dopodiché, gli si lascia il tempo di recuperare con un adeguato periodo di riposo; in questo tempo vengono riparati i danni e ripristinati i livelli energetici, riportandoli ai livelli di prima, più un margine aggiuntivo. E un po’ come se, essendo stati esposti a uno sforzo maggiore rispetto alle attese, si corra ai ripari in modo da non venire colti nuovamente impreparati.

Se però al corpo non viene lasciato il tempo per il recupero, i risultati ottenuti non sono quelli sperati; un pantofolaio che si mette in testa di punto in bianco di correre una mezza maratona al giorno per una settimana non diventa improvvisamente allenato, ma stramazza al suolo quanto prima. Lo sforzo è importante, ma lo è altrettanto il recupero.

Per uscire dalla metafora, dunque, a mio avviso non è vero che uscire in continuazione fuori dalla propria zona di comfort porti a una veloce crescita, al contrario logora, stanca, mette fuori gioco. Occorre trovare un giusto equilibrio, il giusto ritmo di marcia. Fare un’uscita, quindi rientrare e recuperare. Ci vuole un buon coach!

Eh, dico bene io, fosse facile trovarlo!

E invece il coach adatto a te esiste, anche se si è nascosto bene, il mattacchione, in un posto in cui non cercheresti mai.

E’ dentro di te, il coach sei tu. Solo tu, concedendo la giusta attenzione alle sensazioni, puoi capire ciò che è più adeguato a te.

Osservati, ascoltati, conosciti. Inizia a guardare dentro e smetti di dare retta ai sapientoni là fuori.

Me compreso.

Tanto è inutile. O no?


Questo articolo è per te, che ti rassegni allo status quo anche se vorresti tanto che cambiasse.

Forse penserai: come posso io, piccolo piccolo, influenzare un mondo tanto più grande di me?

Ebbene, probabilmente hai ragione. Probabilmente quel tuo piccolo gesto non farà la differenza.

Là fuori.

Già, perché permettimi di farti osservare un fatto: stai guardando nel posto sbagliato.

E’ vero, il tuo gesto non cambierà le cose là fuori, ma ciò che importa è il cambiamento che avverrà in te. E proprio perché sei piccolo piccolo, sarà un cambiamento enorme.

Mettilo in atto anche se ti sembra inutile e ti provoca tante resistenze, vai contro ogni razionalità e, cazzo, fallo a dispetto di tutto!

E poi ascolta come ti senti, ascolta le tue emozioni. Hai paura? Provi qualche altro genere di fastidio?

La fuori il cambiamento potrà essere impercettibile, ma dentro di te, se sei rimasto consapevole durante il processo, si saranno verificate trasformazioni gigantesche!

Così grandi che, una volta che le avrai interiorizzate e ne avrai preso coscienza, non ti importerà più nulla che il mondo là fuori cambi.

E sarà allora, proprio allora, che cambierà.

Il foglio bianco: gnōthi seautón


Credo che conoscere sé stessi sia un po’ come disegnare la propria immagine idealizzata su un grande foglio bianco.

Si inizia con qualcosa di semplice, e per un po’ si resta appagati.

Poi si avverte la necessità di espandere quei contorni che appaiono limitanti, e altri segni vengono tracciati sul foglio, che gradualmente si va a riempire di linee, curve, sfumature.

Questa attività occupa buona parte della propria vita, e tuttavia quell’immagine continua a lasciare un retrogusto di insoddisfazione, nonostante l’impegno profuso.

Si inizia così a sospettare che, per quanto ci si impegni, il disegno non sarà mai completo.

Allora si attraversa un periodo di smarrimento, di sconforto, di frustrazione.

Poi, anche grazie a quel periodo buio, una sorta di ‘clic’ interiore suggerisce di spostare l’attenzione dai segni sul foglio agli spazi bianchi, dal primo piano allo sfondo.

Questo cambio di prospettiva permette di trascendere il campo, uscire dalle due dimensioni del disegno e comprendere di essere l’intero foglio.

A quel punto appare evidente, e tutto sommato banale, che tutti i segni tracciati servivano solo ad arrivare a questa presa di coscienza, e che non c’era una forma migliore di altre; quale che fosse stata l’immagine avrebbe comunque svolto la sua funzione, forse in un modo tanto più efficace quanto più insoddisfacente poteva sembrare.

Ma per arrivare a questa conclusione, quei segni andavano tracciati.

La busta


Qualcuno ti consegna una busta ricoperta di immagini inquietanti, spaventose, orribili, quindi si allontana e sparisce.

Fa male tenerla fra le mani, desideri con tutte le tue forze liberartene al più presto, ma per qualche motivo sconosciuto non riesci a distruggerla.

La prima opzione che ti viene in mente è la più evidente: restituirla al mittente; allora ricerchi, o attendi impaziente, l’occasione per rincontrarlo e rendergli ciò che è suo.

Passa il tempo invano e ti solletica la tentazione di ricorrere alla seconda opzione, tanto è insopportabile il disagio che provi: consegnare la missiva a qualcun altro. Gli faresti del male… o forse no? In ogni caso ti sentiresti meglio.

Non ci riesci, non puoi fare una cosa del genere, non è giusto. Pensi allora ad una terza opzione, la più semplice e immediata: nascondere la busta da qualche parte, in modo da non vederla.

Non la vedresti, ma sapresti pur sempre che è lì, in un luogo da cui è meglio stare lontani.

Scegli infine l’opzione più dolorosa: aprire la busta e leggere il messaggio che contiene. Ci vuole coraggio, molto coraggio, ma è per questo che la busta è arrivata, è questa la sua funzione.

Apri e leggi.

Un lampo nella notte: finalmente comprendi il significato di quei disegni inquietanti, comprendi perché ti facevano paura, e questa si dissolve come nebbia al sole.

Le esperienze dolorose sono solo messaggeri e, come si dice… ambasciator non porta pena.

Adesso la busta non fa più male, la tieni affettuosamente con te.

E ringrazi per averla ricevuta.

L’omeostato


Quel muro andrebbe abbattuto; separa due stanze troppo piccole, inutilizzabili; rimuovendolo, invece, si ricaverebbe una camera da letto molto spaziosa.

Occorre però spostare tutti i mobili, da qualche parte bisogna pur metterli. L’idea della polvere che normalmente accompagna l’operato dei muratori assetati di distruzione, poi, mi terrorizza. E poi ci sarà da ridipingere le pareti. Odio dipingere le pareti! Senza contare che, lavori a parte, il cambio di destinazione di quelle due stanze mi costringerebbe a cascata a ridisegnare il layout dell’intera casa.

Insomma, che situazione complicata: lo status quo non mi soddisfa, immagino che a lavori ultimati starei molto meglio, ma la prospettiva di attraversare la fase destabilizzante della ristrutturazione mi blocca in una situazione di stallo.

Vorrei cambiare, ma non posso. Cosa mi frena in definitiva? Da dove nasce la mia paura del cambiamento? Posso individuare un motivo più fondamentale sotteso alle mie dinamiche più o meno inconsce?

Per quanto mi riguarda, direi di sì. Non sono le paure di soffrire, di faticare o di sbagliare a frenarmi, ma qualcosa di più fondamentale: in quanto essere biologico sono un sistema omeostatico, un sistema che tende al raggiungimento dell’equilibrio e al suo mantenimento. Per questo mi è così difficile cambiare: per farlo bisogna abbandonare la situazione di equilibrio (che si potrebbe altrimenti definire zona di comfort), attraversare una fastidiosissima e per nulla desiderata fase di sbilanciamento, per poi raggiungerne un’altra.

Non so se c’è, ma mi convinco che c’è, ci dev’essere per forza… chissà come sarà poi? Migliore o peggiore di quello attuale? E non mi rendo conto che in fondo non importa nulla, perché quello che alla fine più interessa alla mia macchina biologica non è stare bene, ma stare in equilibrio senza troppi sforzi. Non accetterei mai il nirvana a condizione di stare perennemente su una corda tesa e dieci metri da terra.

Perché come forse saprai l’equilibrio può essere stabile, instabile o indifferente: nelle specie di primo tipo lo stato del sistema tende a ritornare al punto di partenza, e può essere necessario applicare una forza molto grande per discostarsene definitivamente.

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E siccome, ahimé, sono una persona assai equilibrata, mi trovo in svariate situazioni di vita in questa condizione. E conosco tante, troppe persone come me, che rimangono in situazioni scomode, talvolta foriere di sofferenza, ma dotate a loro modo di un marcato equilibrio e pertanto difficili da abbandonare.

Estremizzando provocatoriamente (ma non troppo), anche lo stato di chi subisce quotidianamente violenza (fisica o psicologica che sia), a ben analizzarlo, può rappresentare una condizione di equilibrio stabile, che si può raggiungere anche solo per reiterazione, una ripetizione che scava quel solco profondo, che chiamiamo abitudine, dal quale difficilmente la pallina riesce ad allontanarsi.

La centina e l’ego


Sai cos’è la centina? Si tratta di una struttura provvisoria utilizzata come sostegno in edilizia; ad esempio, per costruire un arco la si utilizza come supporto temporaneo per appoggiarvi i componenti (conci), e una volta raggiunta la cima e inserito l’ultimo (la chiave di volta), la struttura diventa autoportante, e la centina può essere rimossa.

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Credo che questo procedimento costituisca una metafora piuttosto calzante nella descrizione dello sviluppo dell’individuo: in questo parallelo la centina rappresenta quello che comunemente viene chiamato ego.

L’ego, in sintesi, è l’immagine di sé che ciascuno costruisce identificandosi (illusoriamente) con oggetti, situazioni, ruoli.

A partire da un certo anno di età il bimbo si stacca psicologicamente dalla mamma, cessa di sentirsi un tutt’uno con lei e inizia a costruire una propria individualità, che proietta magari su un giocattolo, un pupazzo, e successivamente su elementi più astratti quali comportamenti e ruoli sociali.

Da ragazzo diventa quindi un bravo studente, oppure un monello che ostenta il suo disdegnare i libri; da adulto diventa un laureato, un campione sportivo, un coniugeun genitore, un impiegato, un imprenditore, un boss della malavita; senza peraltro cessare di identificarsi col giocattolo di turno, che magari adesso è rappresentato da una fiammante auto sportiva o da un paio di scarpe.

Ciascun elemento di questo elenco rappresenta una manifestazione dell’individuo, ma nessuno di essi fa parte della sua vera identità

Eppure la mente deve passare attraverso questa fase di identificazione, altrimenti non ha modo di auto referenziarsi. Per quanto illusorio, l’ego non è inutile, e tanto meno dannoso: come la centina, è un supporto necessario per poter costruire il senso di sé.

Il punto cruciale, però, è che viene il momento in cui la centina deve essere rimossa, altrimenti l’arco è privo di utilità (immagini le capocciate?).

Noi invece non  lo facciamo: le testate che prendiamo sono molte, ma insistiamo.

Siamo estremamente riluttanti a lasciare andare le nostre identificazioni ed è comprensibile, perché ci sono state utili, e abbandonarle viene percepito come uccidere una parte di sé: ma arrivati ad un certo punto bisogna trovare il coraggio di andare oltre, ed avere fiducia che l’arco che abbiamo costruito possa stare in piedi da solo.

Pronti a costruirvi sopra nuove strutture, nuove centine che rimuoveremo prontamente quando non saranno più necessarie.

Per ogni tipo di viaggio è meglio avere un bagaglio leggero

Il campo base


Mi capita sovente di leggere articoli o seguire video di coaching o crescita personale; qualcosa accomuna gran parte di questi: al loro termine mi sento profondamente inadeguato.

Il tono del messaggio è di solito il seguente: se vuoi raggiungere degli obiettivi, devi essere disposto a metterti in gioco; smettila di dare la colpa al mondo per i tuoi insuccessi ed inizia a lavorare su ciò che puoi fare tu per migliorare. Quanto ti stai allenando veramente? Vuoi davvero essere felice, o in fondo hai paura di ciò che potresti raggiungere? Non nasconderti dietro a dei ‘non ce la faccio’, hai molte più risorse di ciò che credi. Rimboccati le maniche, non sprecare il tuo tempo.

Tutte sacrosante verità. Ansiogene, sacrosante verità.

Il problema è che dopo averle sentite mi deprimo, perché leggo in esse un retro messaggio: guarda che così come sei non vai mica tanto bene! Anche se il loro intento è buono, finiscono inevitabilmente col farmi sentire in difetto. Il che è ovviamente vero, ed è tautologicamente legato al fatto che non sono come vorrei essere, ma questo già lo so da me, grazie… altrimenti impiegherei il mio tempo diversamente e non mi porrei il problema di evolvere.

Ma vediamo la questione da un altro punto di vista; per me crescere è un po’ come fare l’esploratore.

L’esploratore parte sempre da un campo base: è il rifugio dove sa di poter tornare in caso di bisogno. Qui si prepara, si mette in forze, quindi si spinge fuori per poi farvi ritorno al termine dell’impresa. Mette assieme le informazioni racimolate durante l’attività esplorativa e valuta se spostare il campo un po’ più in là, per ampliare gli orizzonti del mondo conosciuto. Non si sognerebbe mai di avventurarsi fuori, esposto alle intemperie e ai pericoli dell’ignoto, se non sapesse di poter fare affidamento su un posto sicuro in cui rifugiarsi.

L’evoluzione personale è l’impresa di un pioniere che necessita di una base sicura di partenza: e questa base sicura non può prescindere dall’accettazione di sé. Se ci sentiamo inadeguati, come possiamo trovare le forze per addentrarci nel mondo sconosciuto del cambiamento? Se percepiamo il nostro campo base come una tenda stracciata, piena di spifferi, nella quale entra la pioggia, come possiamo pensare di intraprendere un’efficace e determinata esplorazione dell’ambiente circostante?

Ecco dunque che entra in scena il paradosso del cambiamento: per poter cambiare, occorre preliminarmente accettarsi; accogliere con benevolenza gli aspetti di sé giudicati sbagliati, perché (anche) quello siamo noi, nel qui ed ora.

Accettare di essere ciò che non vorremmo più essere, che meravigliosa e magica contraddizione!

Già, magica: perché nel momento in cui entriamo nella quiete della resa (e non già della rassegnazione, bada bene), ecco che si liberano le energie per trascendere ciò che siamo, ed il cambiamento avviene spontaneamente, senza sforzi: come il bambino che, sicuro della presenza del genitore a pochi passi, si avventura nel mondo con gioia, senza paura.

Adesso sei cresciuto, quel genitore sei tu. Accogli con benevolenza il bambino che è in te, vedrai come ti stupirà. Ed allora evolvere non sarà più un problema, né un bisogno, ma un normale fluire dell’esistenza.