Questo articolo è dedicato a te, giovane studente in difficoltà sui banchi di scuola, che sei stato etichettato con acronimi fantasiosi come DSA, o classificato come appartenente alla categoria dei discalculici, o dei disgrafici, o dei dislessici, o dei dispitagorici (quest’ultimo è per il momento di mio conio ma sono certo che prima o poi salterà fuori, o un suo equipollente).
Insomma, quale che sia la categoria esotica a cui appartieni, è stato deciso che il tuo processo di apprendimento necessita di una corsia dedicata, e, forse, a seconda del grado di eccentricità della tua divergenza, di un insegnante di sostegno.
Non so come ti senta in tale situazione, perché da studente primo della classe, sempre uscito a pieni voti da questo sistema scolastico, non ho grossi elementi di valutazione; eppure anche io ho meritato la mia etichetta, nella fattispecie ‘secchione’, e in quanto tale stavo un po’ sulle palle a tutti e mi sono sempre sentito diverso dagli altri.
In ogni caso, voglio ora proporti una chiave di lettura alternativa: l’insegnante di sostegno, o qualsiasi altro tipo di strumento compensativo, non serve a sostenere te, ma il suo collega, cosiddetto ‘di ruolo’, che è incapace di gestire la diversità che caratterizza qualsiasi mente umana, non solo la tua.
E non per sua mancanza, bada bene; alla peggio può essere considerato connivente di un sistema scolastico che tende all’omologazione e alla standardizzazione, e proprio qui risiede il problema.
L’insegnante di sostegno ha l’arduo e ingrato compito di sopperire all’inadeguatezza di una offerta formativa che, invece di lasciar emergere le potenzialità di ciascun individuo, tende all’appiattimento e all’inquadramento all’interno di rigidi programmi di studio.
Forse per mera comodità, ma preferisco non approfondire troppo i retroscena, la scuola mira a produrre tanti bravi soldatini che eseguono ligi il compito assegnato, e io sono un esemplare uscito alla perfezione da questo tritacarne di pilkfloydiana memoria.
Che vantaggi ho avuto? Uno sicuramente, e non è di poco conto, per una psiche fragile: sentirmi adeguato alle aspettative del mondo.
Ma una volta compreso che questo stato dei fatti giova più agli altri che a me, una volta interiorizzata l’idea che compiacere il mondo risponde ad una strategia manipolatoria volta a trattare gli individui come vacche da latte, allora i vantaggi dell’essere un bravo soldatino vengono improvvisamente meno: i soldati sono utili solo per fare le guerre, e su questo fronte non ho bisogno di prove scientifiche per dimostrare l’esistenza dell’acqua calda.
Quindi, caro studente, il sunto del messaggio è questo: non sei tu ad essere inadeguato, ma sono loro, e anche se sono in molti questo non significa che abbiano ragione; lascia che pensino di te ciò che più preferiscono, gli orizzonti mentali limitati non si possono ampliare dall’esterno; ma non lasciarti convincere, non lasciare che l’opinione che hanno di te diventi anche la tua.
Lo so, è difficile. Ma provaci, abbi fiducia in te, datti una possibilità.
Ora voglio fare due chiacchiere con te a tu per tu (cioè tu2), in confidenza.
Quando (concedimi un metaforico francesismo) schiacci una merda e qualcuno ti dice che porta fortuna o, declinato altrimenti, subisci una qualsiasi sfiga e il guru di turno ti fa notare che si tratta invece di una grande opportunità di crescita e che bisogna uscire dalla comfort zone… ecco, detto fra noi… non manderesti questi signori, sempre per rimanere conformi nell’utilizzo degli appropriati termini tecnici, allegramente a cagare?
Vedi, io mi rendo conto che le difficoltà rafforzano e permettono di crescere, il fatto è che mi sarei anche stufato di prendere bastonate e sentirmi quasi nella condizione di dover ringraziare, di baciare il bastone, come si suol dire. A volte quel bastone lo prenderei a due mani e lo spaccherei in testa a qualcuno!
E allora? Dove sta il giusto? Cosa è più utile per me? Nascondere questi bassi istinti sotto il tappeto in nome della evoluzione spirituale, o dar loro voce in nome di un sacrosanto sfogo? Non sarà forse che anche questi biechi impulsi terreni nascondano importanti messaggi?
Io mi sono fatto questa idea: la situazione è simile a quella dell’allenamento. Si dice che in esso la fase più importante sia il recupero, il che è forse una esagerazione, tutte le sue fasi sono importanti; in ogni caso, l’allenamento si basa sul principio della supercompensazione, e funziona più o meno nel modo seguente.
Si sottopone il fisico a uno sforzo che lo impegni al di sopra del livello a cui è abituato, provocandogli uno stress. Dopodiché, gli si lascia il tempo di recuperare con un adeguato periodo di riposo; in questo tempo vengono riparati i danni e ripristinati i livelli energetici, riportandoli ai livelli di prima, più un margine aggiuntivo. E un po’ come se, essendo stati esposti a uno sforzo maggiore rispetto alle attese, si corra ai ripari in modo da non venire colti nuovamente impreparati.
Se però al corpo non viene lasciato il tempo per il recupero, i risultati ottenuti non sono quelli sperati; un pantofolaio che si mette in testa di punto in bianco di correre una mezza maratona al giorno per una settimana non diventa improvvisamente allenato, ma stramazza al suolo quanto prima. Lo sforzo è importante, ma lo è altrettanto il recupero.
Per uscire dalla metafora, dunque, a mio avviso non è vero che uscire in continuazione fuori dalla propria zona di comfort porti a una veloce crescita, al contrario logora, stanca, mette fuori gioco. Occorre trovare un giusto equilibrio, il giusto ritmo di marcia. Fare un’uscita, quindi rientrare e recuperare. Ci vuole un buon coach!
Eh, dico bene io, fosse facile trovarlo!
E invece il coach adatto a te esiste, anche se si è nascosto bene, il mattacchione, in un posto in cui non cercheresti mai.
E’ dentro di te, il coach sei tu. Solo tu, concedendo la giusta attenzione alle sensazioni, puoi capire ciò che è più adeguato a te.
Osservati, ascoltati, conosciti. Inizia a guardare dentro e smetti di dare retta ai sapientoni là fuori.
In questo periodo si parla molto, nei vari testi e video di evoluzione spirituale, di passaggio dall’attuale livello di coscienza 3D al nuovo livello 5D. La mia petulante razionalità, che vuole sempre avere voce in capitolo ed è evidentemente ancora saldamente ancorata alla terza dimensione, si è domandata cosa significhi tutto ciò, e in cosa consistano le dimensioni di cui stiamo parlando. Voglio ora condividere con te alcune personalissime conclusioni con cui l’ho messa provvisoriamente a tacere; non prenderle troppo sul serio, sto solo giocando un po’.
Partiamo innanzitutto dal concetto di dimensione logica attraverso un esempio che distingue fra ‘uso’ e ‘menzione’ delle parole.
Se affermo:
Genova è sul mare
sto usando la parola ‘Genova’ nella sua funzione di indicatore semantico che permette di individuare mentalmente la città in questione.
Se invece affermo:
'Genova' è composta da sei lettere
come puoi notare dal virgolettato non sto usando la parola, ma la sto menzionando: non intendo riferirmi alla città, ma, appunto, alla parola stessa (affermare che una città è composta da sei lettere sarebbe privo di significato).
Questo esempio mette in evidenza due livelli fra loro non mescolabili:
al primo livello si parla di oggetti;
al secondo livello si parla di parole, che a loro volta parlano di oggetti; in altri termini, si parla del primo livello: è un linguaggio che parla di un altro linguaggio, ossia un metalinguaggio.
Nel quotidiano questi due livelli tendono a confondersi perché entrambi si avvalgono della lingua naturale, anche se riusciamo implicitamente a distinguerli; talvolta non ci riusciamo e allora nascono incomprensioni o situazioni comiche nella loro paradossalità.
L’esempio qui riportato si può parimenti applicare alla nostra percezione del mondo, che si stratifica lungo diversi livelli di consapevolezza; ciascun livello, o dimensione, si riferisce a (parla di, dà un significato a) il precedente.
Livello delle sensazioni; i sensi mi fanno percepire oggetti intorno a me, che distinguo ma che non comprendo ancora appieno; è il livello della mia conoscenza del mondo.
Livello funzionale, che completa di significato quanto percepito al livello precedente, parlando di esso: distinguo ad esempio una penna, che mi permette di tracciare segni su un altro oggetto, che chiamo ‘foglio di carta’; è il livello della mia conoscenza sul mondo: comprendo le potenzialità degli oggetti, ma non il loro lo scopo ultimo (perché tracciare segni su un foglio? Che senso ha?).
Livello esistenziale, che dà significato al livello precedente, attribuendo una ragion d’essere ai vari oggetti: traccio dei segni su carta perché voglio comunicare. Facendo leva su un’interpretazione teleologica, questo è il livello del giudizio: utile/inutile, innocuo/pericoloso, giusto/sbagliato.
Questi tre livelli descrivono quelle che sono le dimensioni dello stato di coscienza 3D, e si possono applicare, oltre che al mondo circostante, anche alla percezione del sé, secondo la sequenza:
attraverso i sensi mi accorgo di esistere, ma non so nulla di me;
osservando ciò che i sensi mettono a disposizione, comprendo di essere un individuo in possesso di determinate caratteristiche; a questo livello non so ancora qual è il loro scopo, non riesco a dar loro un significato;
osservando quanto appreso al secondo livello, comprendo che posso dare un senso alla mia esistenza ad esempio mettendo a disposizione le mie attitudini, offrendo prestazioni che possano migliorare la vita altrui, ottenendo in cambio una remunerazione che permetta il sostentamento mio e della mia famiglia.
Poiché ogni livello ‘spiega’ il precedente, è evidente che per poter modificare quanto percepito ad un livello occorra ricercare un significato per tale cambiamento, e questo si può fare solo al livello immediatamente superiore.
Posso ammettere che il colore della penna è verde e non rosso come credevo (livello 1), se attribuisco un significato a questo cambiamento giustificandolo col mio daltonismo (livello 2).
Posso accettare di lasciare il mio attuale impiego (livello 2), se riesco a collocare il cambiamento in un contesto di miglioramento professionale che garantisca maggior sicurezza per me ed i miei cari (livello 3).
Nietzsche sosteneva che chi ha un perché abbastanza forte può superare qualsiasi come; dalla lettura delle epistole dei condannati a morte durante l’olocausto si evince come coloro che riuscivano ad attribuire un significato alla propria morte (ad esempio perché sarebbe servita a rovesciare la dittatura) andavano incontro alla pena con maggiore serenità rispetto a coloro che credevano di essere stati giudicati per motivi assurdi.
Va rimarcato che più saliamo di livello più le resistenze al cambiamento di fanno forti: posso accettare di buon grado di aver scambiato una volpe per un gatto, sono assai riluttante nell’ammettere di essermi sbagliato sul conto del mio migliore amico, sono praticamente irremovibile sulle mie convinzioni etiche e morali, al punto che, se crollassero, rischierei la depressione o chissà quali altre patologie.
Fino a qualche anno fa ero in perfetto equilibrio nella mia coscienza 3D, e il significato che la consapevolezza di terza dimensione riusciva a dare alla mia esistenza era sufficientemente convincente; poi, piano piano, hanno iniziato a fare capolino i dubbi, per esempio: OK, OK, lavoro per mantenere me e la famiglia… ma è tutto qui, o c’è dell’altro? Questa è l’unica via per me? Che succede se non mi adeguo, se smetto di fare il bravo? La vita prosegue su binari diversi? Continua ad avere un senso?
Improvvisamente il mondo del counseling, così profondamente imperniato sulla sospensione del giudizio, mi ha aperto le porte del quarto livello di percezione; o almeno è questo che mi piace pensare.
Che significa astenersi dal giudizio? Significa rinunciare alla distinzione fra bene e male, o meglio, trascenderla. La distinzione rimane, ma su un piano diverso: resta nella terza dimensione, e la coscienza la osserva neutralmente dalla quarta.
Da quel nuovo piano perde di importanza lo specifico percorso che scelgo nella vita: ciò che conta è agire, fare esperienza, a prescindere dalla strada imboccata e dai risultati ottenuti; ogni cammino intrapreso sarà un tassello in più nella conoscenza di me; è questo il fine ultimo che, a questo livello percettivo, attribuisco alla mia esistenza.
E per un po’ ho ritrovato l’equilibrio che avevo perduto.
Ora sento che un nuovo senso di angoscioso vuoto mi pervade, sembra che tutto abbia perso valore e significato. L’impianto razionale che ho messo in piedi fin qui non regge più.
Che sia il preludio a un nuovo salto di coscienza? Riuscirò finalmente a dare voce al mio cuore?
Una delle risorse più utili (direi indispensabili) per un counselor è sicuramente l’empatia, ossia la capacità di sintonizzarsi e comprendere gli stati emotivi e cognitivi del cliente.
Detto rozzamente e in parole povere, la capacità di mettersi nei panni altrui.
Secondo il famoso psicoterapeuta americano Carl Rogers, una delle mie principali figure di riferimento, l’empatia è uno dei tre pilastri su cui regge la relazione di aiuto, assieme all’autenticità e all’accettazione incondizionata (a questi ha poi affiancato, in un successivo stadio del suo percorso professionale, un quarto pilastro, la fiducia).
Le seguenti parole di Rogers rendono in modo efficace la sua concezione di empatia:
Posso entrare completamente nel mondo dei sentimenti e dei significati personali di un altro, in modo da percepirli così completamente da perdere ogni desiderio di valutarlo e di giudicarlo? Posso entrarci in modo così sensibile da potermi muovere liberamente, senza calpestare dei significati per lui preziosi? Posso scrutarlo in modo così fine da poter afferrare non solo i significati dell’esperienza per lui ovvi, ma anche quelli che sono solo impliciti, che egli vede solo oscuramente o confusamente? Posso estendere senza limiti questa comprensione?
Personalmente ho spesso pensato che essere empatici nella vita quotidiana fosse una gran fregatura perché, soprattutto in caso di divergenza di interessi, si manifesta la tendenza a giustificare l’altro, a comprendere le sue ragioni fino, forse, a rinunciare alle proprie, o comunque a metterle in secondo piano. Insomma, vivevo l’empatia come una debolezza.
Mi sono spesso osservato nel tentativo di porre un freno la mia empatia, caricando la controparte di connotazioni negative talvolta posticce, perché quanto più riuscivo a disegnarlo ‘cattivo’ tanto più mi sentivo titolato a difendere le mie posizioni, anche a suo discapito.
Non appena iniziato il percorso che mi avrebbe portato a diventare counselor ho compreso la distorsione della mia visione, ed è stato uno degli aspetti che più mi hanno affascinato di un mondo fino ad allora per me sconosciuto.
Semplicemente mi mancava un pezzo.
Empatia significa sentire e percepire il mondo dell’altro come se fosse il nostro; le paroline chiave rimangono quasi in secondo piano in questa frase, e sono: ‘come se’.
Perché se entro nel mondo dell’altro perdendo di vista il mio allora non c’è più empatia, ma simpatia o confluenza. Io non esisto più, io sono diventato l’altro.
E’ invece di fondamentale importanza comprendere che prima di dare empatia all’altro occorre dare empatia a sé stessi, identificando i propri bisogni e sentimenti; poi metterli da parte provvisoriamente, entrare nel mondo altrui e rimanere sempre pronti, in ogni istante, a uscirne.
E’ semplice, ma non è affatto facile: il rischio di rimanere intrappolato è elevato, e per questo nella professione è di fondamentale importanza la supervisione, ossia il ricorso ad altri professionisti che aiutino il counselor a riappropriarsi della centratura perduta.
Al di là del mondo del couseling, il concetto rimane valido anche nel quotidiano: mettersi nei panni dell’altro non significa fare sempre e comunque il suo interesse, ma comprendere i suoi bisogni avendo ben chiaro quali sono i propri, che sono altrettanto degni di tutela.
E a questo proposito cito un poco provocatoriamente un altro dei miei riferimenti, Friedrich Perls, riportando la sua famosa ‘preghiera della Gestalt’.
“Io sono io. Tu sei tu. Io non sono al mondo per soddisfare le tue aspettative. Tu non sei al mondo per soddisfare le mie aspettative. Io faccio la mia cosa. Tu fai la tua cosa. Se ci incontreremo sarà bellissimo; altrimenti non ci sarà stato niente da fare
Cosa è per me un gruppo? Cosa vorrei donare a questo gruppo? Cosa vorrei ricevere da questo gruppo? Come mi sento?
Stare assieme ad altre persone è una risorsa, e una fatica.
Non esiste l’armonia gratuita che scaturisce per definizione dal gruppo ‘giusto’; talvolta essa arriva senza sforzo, talvolta viene richiesto un lavoro difficile che porti a rinunciare alle proprie convinzioni, andando incontro all’altro con la sgradevole sensazione della sconfitta, di aver perso la partita. Ed è forse proprio in queste circostanze che la potenza del gruppo offre le migliori opportunità.
Perché è vero che la nave ogni tanto ha bisogno di rimanere in porto a riposare, ma il suo ambiente naturale è il mare aperto. Perché è nutriente rendersi conto che spesso preferiamo avere ragione, piuttosto che essere in pace e armonia. Perché le cose che accadono fuori accadono anche dentro al cerchio, ma in un contesto controllato, in una sorta di ‘laboratorio’ protetto.
Comprendere l’altro non significa abbandonare le proprie posizioni, solo ammettere che ce ne sono altre. Ce ne sono molte, ce ne sono infinite. Che meraviglia scoprirle!
Le dinamiche di gruppo portano a una continua esplorazione, un continuo arricchimento: a patto che si entri nella dimensione dell’ascolto, a patto che si abbandoni ogni preconcetto, e si accolga senza obiezioni di sorta la visione altrui.
Sospensione del giudizio, viene chiamata. Che non significa rinunciare definitivamente alla propria opinione, ma solo mettere da parte quel bisogno per un poco, quel tanto che basta per fare una capatina, con occhi curiosi di bimbo, nelle stanze altrui.
Chissà che non ci si trovino soprese interessanti! A me basta già quella di realizzare quanto quelle stanze siano diverse dalla mia, e allo stesso tempo, in qualche inspiegabile modo, così simili.
Un famoso proverbio – forse di origine cinese – recita:
Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito.
L’invito è quello di andare in profondità, non fermandosi alla superficie e all’apparenza dei fenomeni.
A me piace darne qui una chiave lettura diversa, portandola nel campo del counseling e dell’esperienza umana in generale: credo che siamo tutti stolti nel momento in cui ci ostiniamo a guardare fuori invece di guardare dentro di noi.
E’ mia ferma convinzione che ogni persona che incontriamo, ogni esperienza piacevole o dolorosa, ogni difficoltà che ci si para di fronte, siano tutte dita puntate verso di noi, con intento non accusatorio, ma indicativo.
Gli eventi della vita parlano della nostra personalità, ci offrono l’opportunità di conoscerci, di capire chi siamo. Ci invitano a portare l’attenzione su di noi, e noi che facciamo invece? Guardiamo il dito, l’evento esterno!
Grazie alla breve esperienza maturata nel corso dell’ultimo anno, conducendo un cerchio di condivisione nell’ambito della mia attività di counseling, mi sono accorto di quanto sia difficile non cedere alla tentazione di farsi trascinare ‘fuori’ dagli eventi della vita, portando in continuazione l’attenzione su questi, invece che sul nostro mondo interiore, le nostre modalità spesso reattive di rispondere agli stessi.
Posso per esempio continuare a ripetermi che soffro perché l’altro non si comporta come vorrei ma se, per amore di ipotesi, l’Universo stesse cercando di mostrarmi qualcosa attraverso di lui e io mi ostino a non volermi guardare, il fastidioso evento continuerà a ripetersi, magari in forma di volta in volta diversa ma identico nella sostanza, fintanto che non ho imparato.
Cosa si muove dentro di me in risposta al ciò che accada là fuori? Quali pensieri? Quali sensazioni? Quali i miei bisogni insoddisfatti? Riesco a vedere i miei schemi ripetitivi? Riesco a vedere emozioni parassite che provengono da chissà quale passato e si agganciano alla situazione contingente, sfruttandola per emergere?
Sovente pensiamo che il mondo vada cambiato, o che il cambiamento debba partire da noi.
Io mi sto viepiù convincendo che non occorra sforzarsi di cambiare alcunché, ma solo osservare. Nel posto giusto, con coraggio, anche se potrebbe non essere sempre una visione piacevole.
Una volta visto il necessario il cambiamento avverrà spontaneamente, perché lo show ha perso la sua ragion d’essere.
Il mondo in cui vivi non è né buono né cattivo, è solo un riflesso del tuo stato interiore.
Per migliorarlo non devi fare nulla là fuori, l’unica strada percorribile è quella di lavorare su di te, sulla tua consapevolezza.
Osservare e lavorare sui propri meccanismi interni di funzionamento, per lo più caratterizzati da reattività e automatismi, è un compito assai arduo, perché i nostri sistemi difensivi tendono a non farceli vedere, mascherandoli in modo da farci attribuire la colpa all’esterno.
Ma finché ti ostini a dare colpe, e non ti riappropri della tua RESPONSABILITA’, che poi si traduce nel tuo POTERE di cambiamento, resterai in balia degli eventi.
La chiave di svolta è comprendere che non ci sono colpe, solo mancanza di consapevolezza.
Se portare avanti questo lavoro da soli è difficile, le cose cambiano quando ci si trova in un gruppo, i cui membri siano animati dallo stesso intento: in un ambiente protetto, privo di giudizio e aperto all’ascolto, ciascuno portando le proprie esperienze, le proprie sensazioni, le proprie emozioni, può fare da specchio agli altri, in un comune cammino verso una accresciuta consapevolezza.
Questo mondo lo cambieremo tornando alla dimensione umana, alla relazione sincera e genuina, al contatto.
Io ho fiducia.
Se vuoi saperne di più, e partecipare ai nostri incontri, contattami.
L’altro giorno si parlava di apprendimento con mia figlia, studentessa al liceo.
Le facevo notare che un metodo affidabile per verificare di aver appreso una nozione è quello di spiegarla a qualcuno che non ne sa nulla, perché probabilmente inizierà a fare domande imprevedibili, portando il tracciato della spiegazione su un percorso a noi nuovo e costringendoci a vedere quella nozione da un’altra angolazione; o più semplicemente non riuscirà a seguire il nostro filone narrativo, e ci spingerà ad adottarne un altro.
Quale che sia la dinamica, ci stimolerà a formulare risposte che possediamo solo se, nel nostro processo di apprendimento, siamo scesi in profondità, ossia abbiamo abbandonato la superficie descrittiva della nozione per andare alla radice, facendo nostra quest’ultima.
La conoscenza si trova su un livello più profondo rispetto alla sua descrizione verbale e intellettuale, tuttavia per accedervi con gli strumenti tradizionali di apprendimento bisogna passare da quest’ultima, che non sarà mai unica, ma una fra tante.
Nel momento in cui si ha avuto accesso al concetto profondo, da lì è poi possibile risalire al livello descrittivo, magari utilizzando una verbalizzazione diversa da quella di partenza.
Il counseling a mio avviso funziona allo stesso modo: il counselor fa del suo meglio per raggiungere la tabula rasa di ogni sua conoscenza pregressa sugli esseri umani (facile a scriversi, impossibile da mettere compiutamente in atto) e si pone di fronte al cliente come uno studente del primo anno desideroso di apprendere, mentre il cliente spiega (oh, quanto mi affascina l’ambivalenza di questo termine) sé stesso.
Non serve altro, se non un genuino desiderio di apprendere il mondo dell’altro, che per spiegarsi è stimolato a conoscersi, vedersi da diverse angolazioni, comprendersi. Perché troppo spesso siamo convinti di essere limitati alle descrizioni superficiali che ci hanno arbitrariamente appioppato.
Tutto questo è magia, la magia dell’ascolto empatico e non giudicante. La magia del counseling.
Attualmente sbarco il lunario come sviluppatore software; mi capita spesso di interagire con un collega piuttosto in gamba, col quale ci si aiuta vicendevolmente per risolvere problemi di lavoro.
E’ già successo diverse volte che mi chieda aiuto (ma è più frequente il contrario) seguendo uno schema piuttosto caratteristico, che ti voglio qui raccontare per avere uno punto di partenza per le riflessioni successive. Accade più o meno questo.
Non riesce a venire a capo di un malfunzionamento del programma; dopo aver lasciato girare le rotelle invano per un po’, mi chiama per un aiuto; io arrivo; lui inizia ad espormi il problema partendo dalle origini, più o meno dai tempi dell’albero della conoscenza, fornendomi dettagli molto circostanziati sulle cause a monte, sui tentativi fatti, sui risultati attesi che non arrivano, sulle ipotesi a contorno.
Io penso che sarebbe molto meno time consuming se mi esponesse il tutto partendo dalla fine (cosa non funziona), così che io possa fare le mie elucubrazioni a mente libera ed in modo maggiormente orientato. Troppe informazioni confondono solamente il quadro della situazione e sviano dal nocciolo della questione.
Ma lui no; prosegue ad esporre i fatti, fa domande ma non mi lascia il tempo di rispondere, perché risponde lui stesso. La scena prosegue così per qualche minuto, a volte anche una decina, poi improvvisamente gli si illuminano gli occhi e prorompe in un festoso Eureka!
Ha capito dov’è il problema (io non ho neanche ancora capito qual è il problema).
Me ne vado, e lui ringrazia per l’aiuto.
Sono stato di aiuto?
Certo, lo sono stato, ma non nel modo a cui normalmente si pensa. Quello di cui aveva bisogno non era una consulenza tecnica, ma di qualcuno di fiducia con cui confrontarsi. Di qualcuno che parlasse la stessa lingua, che potesse comprenderlo.
La soluzione ce l’aveva con sé, non stava da qualche parte là fuori. Ma parlarne lo ha aiutato a mettere ordine nei pensieri; dovendo esporre ad un terzo è stato costretto a seguire un flusso di ragionamento più lineare, più consapevole. Si è inoltre trovato suo malgrado ad adottare un punto di vista alternativo, mettendosi più o meno consapevolmente nei miei panni. E’ questo uscire dal problema che lo ha portato alla soluzione dello stesso.
A volte lo prendo affettuosamente in giro dicendo che ho agito da counselor, e non da programmatore, ma credo di non essere troppo distante dalla realtà.
Così come credo che, il più delle volte, la risposta che andiamo cercando sia dentro di noi. Forse abbiamo solo bisogno di un amico che ci aiuti a trovarla. Semplicemente ascoltando.