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Le dimensioni della consapevolezza


In questo periodo si parla molto, nei vari testi e video di evoluzione spirituale, di passaggio dall’attuale livello di coscienza 3D al nuovo livello 5D. La mia petulante razionalità, che vuole sempre avere voce in capitolo ed è evidentemente ancora saldamente ancorata alla terza dimensione, si è domandata cosa significhi tutto ciò, e in cosa consistano le dimensioni di cui stiamo parlando. Voglio ora condividere con te alcune personalissime conclusioni con cui l’ho messa provvisoriamente a tacere; non prenderle troppo sul serio, sto solo giocando un po’.

Partiamo innanzitutto dal concetto di dimensione logica attraverso un esempio che distingue fra ‘uso’ e ‘menzione’ delle parole.

Se affermo:

Genova è sul mare

sto usando la parola ‘Genova’ nella sua funzione di indicatore semantico che permette di individuare mentalmente la città in questione.

Se invece affermo:

'Genova' è composta da sei lettere

come puoi notare dal virgolettato non sto usando la parola, ma la sto menzionando: non intendo riferirmi alla città, ma, appunto, alla parola stessa (affermare che una città è composta da sei lettere sarebbe privo di significato).

Questo esempio mette in evidenza due livelli fra loro non mescolabili:

  1. al primo livello si parla di oggetti;
  2. al secondo livello si parla di parole, che a loro volta parlano di oggetti; in altri termini, si parla del primo livello: è un linguaggio che parla di un altro linguaggio, ossia un metalinguaggio.

Nel quotidiano questi due livelli tendono a confondersi perché entrambi si avvalgono della lingua naturale, anche se riusciamo implicitamente a distinguerli; talvolta non ci riusciamo e allora nascono incomprensioni o situazioni comiche nella loro paradossalità.

L’esempio qui riportato si può parimenti applicare alla nostra percezione del mondo, che si stratifica lungo diversi livelli di consapevolezza; ciascun livello, o dimensione, si riferisce a (parla di, dà un significato a) il precedente.

  1. Livello delle sensazioni; i sensi mi fanno percepire oggetti intorno a me, che distinguo ma che non comprendo ancora appieno; è il livello della mia conoscenza del mondo.
  2. Livello funzionale, che completa di significato quanto percepito al livello precedente, parlando di esso: distinguo ad esempio una penna, che mi permette di tracciare segni su un altro oggetto, che chiamo ‘foglio di carta’; è il livello della mia conoscenza sul mondo: comprendo le potenzialità degli oggetti, ma non il loro lo scopo ultimo (perché tracciare segni su un foglio? Che senso ha?).
  3. Livello esistenziale, che dà significato al livello precedente, attribuendo una ragion d’essere ai vari oggetti: traccio dei segni su carta perché voglio comunicare. Facendo leva su un’interpretazione teleologica, questo è il livello del giudizio: utile/inutile, innocuo/pericoloso, giusto/sbagliato.

Questi tre livelli descrivono quelle che sono le dimensioni dello stato di coscienza 3D, e si possono applicare, oltre che al mondo circostante, anche alla percezione del sé, secondo la sequenza:

  1. attraverso i sensi mi accorgo di esistere, ma non so nulla di me;
  2. osservando ciò che i sensi mettono a disposizione, comprendo di essere un individuo in possesso di determinate caratteristiche; a questo livello non so ancora qual è il loro scopo, non riesco a dar loro un significato;
  3. osservando quanto appreso al secondo livello, comprendo che posso dare un senso alla mia esistenza ad esempio mettendo a disposizione le mie attitudini, offrendo prestazioni che possano migliorare la vita altrui, ottenendo in cambio una remunerazione che permetta il sostentamento mio e della mia famiglia.

Poiché ogni livello ‘spiega’ il precedente, è evidente che per poter modificare quanto percepito ad un livello occorra ricercare un significato per tale cambiamento, e questo si può fare solo al livello immediatamente superiore.

Posso ammettere che il colore della penna è verde e non rosso come credevo (livello 1), se attribuisco un significato a questo cambiamento giustificandolo col mio daltonismo (livello 2).

Posso accettare di lasciare il mio attuale impiego (livello 2), se riesco a collocare il cambiamento in un contesto di miglioramento professionale che garantisca maggior sicurezza per me ed i miei cari (livello 3).

Nietzsche sosteneva che chi ha un perché abbastanza forte può superare qualsiasi come; dalla lettura delle epistole dei condannati a morte durante l’olocausto si evince come coloro che riuscivano ad attribuire un significato alla propria morte (ad esempio perché sarebbe servita a rovesciare la dittatura) andavano incontro alla pena con maggiore serenità rispetto a coloro che credevano di essere stati giudicati per motivi assurdi.

Va rimarcato che più saliamo di livello più le resistenze al cambiamento di fanno forti: posso accettare di buon grado di aver scambiato una volpe per un gatto, sono assai riluttante nell’ammettere di essermi sbagliato sul conto del mio migliore amico, sono praticamente irremovibile sulle mie convinzioni etiche e morali, al punto che, se crollassero, rischierei la depressione o chissà quali altre patologie.

Fino a qualche anno fa ero in perfetto equilibrio nella mia coscienza 3D, e il significato che la consapevolezza di terza dimensione riusciva a dare alla mia esistenza era sufficientemente convincente; poi, piano piano, hanno iniziato a fare capolino i dubbi, per esempio: OK, OK, lavoro per mantenere me e la famiglia… ma è tutto qui, o c’è dell’altro? Questa è l’unica via per me? Che succede se non mi adeguo, se smetto di fare il bravo? La vita prosegue su binari diversi? Continua ad avere un senso?

Improvvisamente il mondo del counseling, così profondamente imperniato sulla sospensione del giudizio, mi ha aperto le porte del quarto livello di percezione; o almeno è questo che mi piace pensare.

Che significa astenersi dal giudizio? Significa rinunciare alla distinzione fra bene e male, o meglio, trascenderla. La distinzione rimane, ma su un piano diverso: resta nella terza dimensione, e la coscienza la osserva neutralmente dalla quarta.

Da quel nuovo piano perde di importanza lo specifico percorso che scelgo nella vita: ciò che conta è agire, fare esperienza, a prescindere dalla strada imboccata e dai risultati ottenuti; ogni cammino intrapreso sarà un tassello in più nella conoscenza di me; è questo il fine ultimo che, a questo livello percettivo, attribuisco alla mia esistenza.

E per un po’ ho ritrovato l’equilibrio che avevo perduto.

Ora sento che un nuovo senso di angoscioso vuoto mi pervade, sembra che tutto abbia perso valore e significato. L’impianto razionale che ho messo in piedi fin qui non regge più.

Che sia il preludio a un nuovo salto di coscienza? Riuscirò finalmente a dare voce al mio cuore?

Resto fiducioso in osservazione di me.

Watzlawick, Paul – Beavin, Janet Helmick – Jackson, Don D. – Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi

Marco Perasso – Fuori dal Solco

Entropia e consapevolezza


Recentemente sono venuto a contatto con le teorie del professor Corrado Malanga, secondo le quali esisterebbe un parallelo fra l’aumento dell’entropia, sancito dal secondo principio della termodinamica, e l’aumento della consapevolezza dell’umanità; ho già avuto modo di esporre questo tema, seppure in forma diversa, in un altro articolo.

In prima battuta mi è sembrata una incoerenza: essere consapevoli rimanda a un concetto di ordine, mentre l’entropia rappresenta, nella comune accezione, il disordine: come può l’aumento del disordine corrispondere ad un aumento della consapevolezza?

Poi ho compreso: in realtà ero io a trovarmi in aperta contraddizione col mio stesso tentativo di uscire dal solco, che con questi articoli cerco di portare avanti. Uscire dal solco non significa forse aumentare il disordine? Cos’è un’idea, se non uno stato polarizzato (dunque ordinato) all’interno della mente?

Un’idea è uno strumento cognitivo che ci permette di discernere: è frutto di un’operazione di separazione che mette appunto ordine nelle informazioni: da una parte ciò che è giusto, dall’altra ciò che è sbagliato; è come avere tante palline rosse e blu sparpagliate in una scatola e operare una serie di spostamenti in modo da far chiarezza nella confusione, mettendo le rosse di qua, le blu di là.

Raggiunta questa nuova configurazione (arbitraria come tante altre: avrei potuto ordinare in base al livello di ‘ruvidità’, invece che al colore) mi sento più facilitato a muovermi nel mondo, ma questo resta comunque solo un espediente pratico per prendere decisioni, senza alcuna valenza assoluta.

Uscire dal solco rinunciando alle proprie idee e convinzioni significa agitare con vigore la scatola, lasciando che le palline tornino ad uno stato di apparente confusione, per poi magari tornare ad ordinarle (quanta assolutezza ha perso questa parola, adesso!) in nuove configurazioni, più funzionali alla situazione contingente.

L’esperienza me lo conferma: per quanto salde possano essere radicate nella mia mente, prima o poi accadono eventi che vanno a demolire tutte le mie convinzioni (certo, ammesso che abbia il coraggio di accogliere la realtà per ciò che è, senza piegarne l’interpretazione secondo i miei comodi).

Per quanto ci sforziamo dunque di creare ordine in qualche angolo dell’Universo, o della nostra mente, è bene che teniamo sempre presente che sarà comunque provvisorio, perché il secondo principio della termodinamica è destinato a spazzare via tutto, fino all’appiattimento nella consapevolezza suprema, la presa di coscienza finale: la Morte.

Trascendere


Immagina di essere il macchinista di un treno che si muove lungo binari che si chiudono in circolo su loro stessi: puoi spostarti in avanti o indietro, ma comunque vada alla fine ti ritroverai sempre al punto di partenza; se il binario è sufficientemente lungo l’illusione di non essere prigioniero di un circuito potrà anche durare parecchio, ma prima o poi il sentore che qualcosa non va si fa avanti, il disagio inizia ad emergere.

Eppure apparentemente non c’è scampo: si può andare solo avanti o indietro, mentre destra e sinistra sono spostamenti preclusi.

La frustrazione di incontrare in continuazione luoghi già visti diventa insopportabile e ad un certo punto ti porta ad avere un’intuizione: finché resti sul treno non c’è verso di cambiare le cose, ma nulla ti impedisce di scendere, anzi di tra…scendere.

Ed è così che trascendi i binari della tua vita e li vedi finalmente dall’esterno: era davvero un circuito chiuso, adesso che non sei più dentro al treno è molto evidente.

Hai così aggiunto una nuova dimensione, non sei più su una linea, ma su una superficie; adesso puoi muoverti a bordo del tuo fuoristrada anfibio avanti, indietro, a destra, a sinistra, e in tutte le possibili combinazioni in queste due dimensioni.

Ma non finisce qui, perché alla fine la sensazione di déjà vu si rifà viva; per quanto esplori in lungo e in largo il territorio ti ritrovi sempre in posti in cui sei già stato!

Ci risiamo, intuisci che devi essere ancora prigioniero di sbarre che non stai vedendo, e che puoi trascendere anche stavolta, aggiungendo un’altra dimensione.

Sali su un elicottero, ti alzi in volo e capisci che eri sulla superficie di una sfera, con un grado di libertà in più rispetto a quando eri sul treno, ma sempre prigioniero: solo ora che hai questa nuova visuale dall’alto lo comprendi, adesso puoi spostarti avanti, indietro, a destra, a sinistra, in alto, in basso.

È già accaduto due volte, perché escludere una terza? Fino a qui il tuo cervello animale ti ha aiutato nella comprensione, ma trascendere ulteriormente diventa difficile da visualizzare: d’altronde lo era anche quando eri sul treno, o sul tuo mezzo anfibio; si tratta solo di attendere la giusta intuizione per comprendere che, pur nella vastità degli spostamenti che puoi compiere, resti ancora prigioniero, e che prima o poi dovrai trascendere nuovamente, in un gioco di espansione della coscienza che forse non avrà mai fine.

Disordine e coscienza: bottiglie piene o moglie ubriaca?


Porto una bottiglia vuota in cantina e penso con fastidio: accidenti che disordine! Quando ho travasato il vino le avevo poste per bene in fila sullo scaffale, allo scopo di prenderle con facilità, e riproponendomi di mettere poi quelle vuote nel ripiano sottostante, e invece guarda qua: dopo poco meno di un anno, il caos regna sovrano: barattoli di marmellata si sono intrufolati, alcune bottiglie vuote sono finite davanti alle poche piene rimaste rendendone difficile l’accesso, e c’è pure una bottiglia di limoncello regalata da chissà chi; è proprio vero, l’Universo tende spontaneamente al disordine.

In fisica questo fenomeno è descritto dal secondo principio della termodinamica, e il disordine prende il nome di entropia.

L’entropia è destinata ad aumentare costantemente: forme di energia ordinate si trasformano in forme meno ordinate fino a giungere a quella terminale, la più disordinata di tutte: il calore; mischiando acqua calda e acqua fredda otteniamo acqua tiepida ed è impossibile tornare indietro alla situazione di partenza. Le stelle bruciano e il loro calore si dissipa nel cosmo, e si ipotizza che fra miliardi di anni tutto avrà temperatura uniforme senza possibilità di ritorno: è la morte termica!

Questo sarebbe fra l’altro alla base della nostra percezione dello scorrere del tempo, fenomeno non presente in alcuna equazione fisica ma riconducibile ad un mero fatto di esperienza soggettiva. Basta osservare il filmato di un uovo che si rompe, prima proiettato in avanti e poi all’indietro, per rendersi conto che una delle due proiezioni va a rovescio ed è irreale, sebbene nessuna delle due stia violando alcuna legge fisica.

Ma torniamo per un attimo alla mia cantina; è facile immaginare, osservando una foto delle bottiglie in ordine (e piene) e una delle bottiglie in disordine (e vuote), la sequenza temporale dei due scatti; ma la domanda cruciale è: cos’è, in definitiva, l’ordine? E perché è più facile produrre disordine?

Ebbene, se ci rifletti uno stato ordinato deriva semplicemente da una valutazione della mente: di tutte le configurazioni possibili, ce ne sono alcune (poche) che sono preferite. Io preferisco le bottiglie piene. Non c’è nulla di intrinsecamente ordinato e disordinato nel mio scaffale in cantina, è solo un fatto legato al mio giudizio. Insomma, non è un problema dello scaffale, è un problema mio. E siccome di tutte le configurazioni possibili io ne prediligo solo poche, la probabilità di osservare uno stato che interpreto come disordinato è più elevata. Tutto qua.

Se mischio un mazzo di carte, le troverò in disordine. Questo per molti significa che i semi sono mischiati, e la sequenza che va dall’asso al re non è rispettata. E chi l’ha detto che quella configurazione sia da preferire? Solo una convenzione arbitraria. Ma quella convenzione ha stabilito che, delle 40x39x38x…x3x2x1 combinazioni possibili (fai tu la moltiplicazione), solo una è da considerarsi ordinata! è questa stessa convenzione che stabilisce che l’ordine si muta in disordine, e non un principio fisico.

L’uovo che si rompe riflette allo stesso modo un mio desiderio di integrità, che viene da me preferita allo sfascio totale. Tranne quando sono affamato.

Vista in questi termini, affermare che l’Universo si muove da uno stato ordinato ad uno disordinato significa semplicemente dire che lo preferivamo com’era prima: è una nostra interpretazione, l’Universo semplicemente cambia, e siamo noi che creiamo un significato laddove non c’è.

Cosa ha a che fare tutto questo con la coscienza?

Le idee e convinzioni sono semplicemente uno stato ‘ordinato’ della nostra struttura mnesica: comprendere un concetto è un po’ come mettere ordine nello scaffale.

Più la mia mente è ordinata, maggiori sono le idee che mi guidano, e meno sono cosciente, perché le convinzioni mi fanno perdere il contatto con la realtà circostante, che se ne infischia di accordarsi ai miei preconcetti su come dovrebbe essere.

Uscire dal solco significa dunque abbandonarsi al disordine, e incrementare così, contrariamente a quanto potrebbe sembrare in prima battuta, il proprio livello di coscienza.

Ma la vera domanda è: perché mai uno dovrebbe volere una moglie ubriaca?!? Io quel proverbio mica l’ho mai capito.

Il foglio bianco: gnōthi seautón


Credo che conoscere sé stessi sia un po’ come disegnare la propria immagine idealizzata su un grande foglio bianco.

Si inizia con qualcosa di semplice, e per un po’ si resta appagati.

Poi si avverte la necessità di espandere quei contorni che appaiono limitanti, e altri segni vengono tracciati sul foglio, che gradualmente si va a riempire di linee, curve, sfumature.

Questa attività occupa buona parte della propria vita, e tuttavia quell’immagine continua a lasciare un retrogusto di insoddisfazione, nonostante l’impegno profuso.

Si inizia così a sospettare che, per quanto ci si impegni, il disegno non sarà mai completo.

Allora si attraversa un periodo di smarrimento, di sconforto, di frustrazione.

Poi, anche grazie a quel periodo buio, una sorta di ‘clic’ interiore suggerisce di spostare l’attenzione dai segni sul foglio agli spazi bianchi, dal primo piano allo sfondo.

Questo cambio di prospettiva permette di trascendere il campo, uscire dalle due dimensioni del disegno e comprendere di essere l’intero foglio.

A quel punto appare evidente, e tutto sommato banale, che tutti i segni tracciati servivano solo ad arrivare a questa presa di coscienza, e che non c’era una forma migliore di altre; quale che fosse stata l’immagine avrebbe comunque svolto la sua funzione, forse in un modo tanto più efficace quanto più insoddisfacente poteva sembrare.

Ma per arrivare a questa conclusione, quei segni andavano tracciati.

Matematica e realtà


Voglio sottoporti una riflessione su quello che per me è un fatto sconcertante, un assunto che il mondo scientifico dà ormai per scontato, una evidenza a cui ci si è abituati a tal punto da aver smesso di sorprendersi.

La matematica è indubbiamente una creazione del pensiero umano, una pura astrazione. Non esiste alcun fenomeno concreto in natura che si possa identificare col concetto di integrale, o limite, o derivata.

Eppure, la matematica è il solo linguaggio che la scienza usa con sorprendente efficacia per descrivere il mondo fisico: partendo dalla traiettoria parabolica di un sasso lanciato in aria, passando per le equazioni della relatività generale, fino ad arrivare alla funzione d’onda che descrive la probabilità di localizzare un elettrone in un determinato punto dello spazio.

Ma non c’è bisogno di scomodare la fisica delle particelle, ci si può limitare alla vita quotidiana: nel frigo ho sei uova, ne prendo due distrattamente e le metto in padella: le vedo, sono due, davanti a me che friggono; le conto indicando col dito: uno, due; senza bisogno di applicare lo stesso procedimento con quelle rimaste posso con totale certezza affermare che sono quattro; per farlo astraggo, passando dal mondo reale a quello dei numeri, e applico una regola di cui ormai mi fido ciecamente:

6 – 2 = 4

quindi prendo il risultato, un numero puro, torno nel mondo della realtà e mi comporto come se in frigo ci fossero veramente quattro uova: ad esempio non inserendole nella lista della spesa che mi accingo a fare.

La descrizione che ho appena fornito è banale, ha sottolineato l’ovvio: eppure il perché quest’ovvio funzioni da sempre non è per nulla scontato e merita una attenta riflessione.

Perché le leggi della fisica seguono così fedelmente una creazione del pensiero? Forse perché il pensiero è nato a partire dall’esperienza del mondo che ci circonda e ha imparato a generalizzare?

In molti casi è così, come in quello delle uova: l’operazione avrebbe funzionato anche in caso di mortadelle, canguri o pinguini (forse ti starai chiedendo: passi per il pinguino, ma perché mai dovrei avere un canguro nel frigo? Ma non divaghiamo, di questo parlerò in un prossimo articolo).

Non sempre però la matematica si occupa di generalizzazioni a partire da esperienze nel mondo reale: si muove spesso da queste, come nella teoria degli insiemi o nella geometria, ma poi si arriva così lontano, nel processo di pensiero, da raggiungere concetti talmente astratti da aver perso ogni collegamento pratico con la vita quotidiana, al punto che si è portati a domandarsi perché i matematici perdono tanto tempo con le masturbazioni cerebrali.

Salvo poi scoprire, a posteriori, che quel particolare costrutto matematico descrive alla perfezione un nuovo fenomeno fisico appena osservato, o in molti casi è in grado di prevederne altri, mai osservati, che si deduce debbano esistere in base al puro ragionamento, come nel caso dei buchi neri o del bosone di Higgs.

Insomma, è un po’ come se matematica e realtà fisica fossero due aspetti di uno stesso fenomeno, uno nel campo del pensiero e l’altro in quello dell’esperienza concreta.

E a questo punto mi stuzzica un’idea affascinante: e se anche la realtà fisica fosse una creazione del pensiero? Se la matematica riflettesse il mondo delle potenzialità offerte dalla nostra mente, e la realtà fisica una sua concretizzazione?

Ovviamente l’idea non è mia, molte tradizioni esoteriche sostengono che la mente crea la realtà, e ultimamente anche alcune frange più progressiste della scienza avanzano questa ipotesi; parlo ad esempio di Federico Faggin, padre fra l’altro del microprocessore e della tecnologia touch, quindi una persona con i piedi ben piantati a terra, che sta dedicando la sua vita a dimostrare che la coscienza crea la realtà, e non viceversa come comunemente si crede.

Se questa ipotesi fosse vera, si spiegherebbe fra l’altro questo affascinante mistero… o forse è più funzionale la lettura rovesciata: l’esistenza di questo affascinante mistero non potrebbe essere un indizio del fatto che le cose stanno proprio così?

Il mondo là fuori


Viviamo in un’epoca, nel nostro mondo occidentale, che idolatra la ragione; la scienza è diventata la religione dominante, forte dei successi ottenuti e del progresso a cui ci ha condotto, e il metodo scientifico è l’unico vero criterio di cui ci si può fidare.

Non mi sottraggo a questa linea di pensiero, per anni ho cercato risposte a domande scomode nei libri di fisica; ma proprio forte di questo mio sentirmi galileiano, non posso non notare una pesante contraddizione di fondo: ci si muove alla ricerca di evidenze sperimentali dando per scontato un fatto per nulla dimostrato, ed un fatto mica di poco conto!

Stiamo dando per scontato che il mondo nel quale ci muoviamo, all’interno del quale facciamo i nostri bravi esperimenti, che interroghiamo giornalmente per avere rigorose risposte scientifiche, esista a prescindere dalla nostra coscienza!

Pensaci bene, tenace sostenitore del metodo scientifico: riesci a dimostrare che il display attraverso il quale stai leggendo questo articolo esiste a prescindere dal fatto che lo stai osservando?

Sono abbastanza certo di poterti fornire la risposta: no!

Non lo puoi fare, perché ogni tentativo in tal senso deve passare attraverso il filtro dei tuoi sensi, della tua coscienza. Lo puoi supporre, ma non lo puoi dimostrare.

La risposta ingenua potrebbe essere che hai testimoni che vedono le stesse cose che vedi tu… ma pure quei testimoni, nel comunicarti ciò che vedono, devono essere registrati dalla tua coscienza, in sua assenza non avrebbero modo di comunicarti alcunché; in definitiva, come potresti dimostrare tu, in totale onestà intellettuale nei confronti di te stesso, la loro stessa esistenza?

Bada, non sto affermando con forza che il mondo non esiste finché tu non lo osservi (anche se le recenti scoperte sulla fisica delle particelle lascerebbero intendere proprio questo), sto molto più blandamente facendoti notare che l’assunto di un mondo oggettivo che evolve al di fuori della tua coscienza non è dimostrato, né è a mio avviso in linea di principio dimostrabile, e che tu, fedele adepto della moderna scienza, non dovresti prenderlo per buono con tanta leggerezza: dopotutto è l’assunto di partenza, quello da cui derivare ogni altra prova sperimentale, non vorrai mica costruire l’intero impianto scientifico su basi così instabili, vero?

Condensazione: la caduta dall’Eden


Le giornate sul pianeta Hydor duravano trenta delle nostre ore, mentre l’anno corrispondeva a ben cinquemila dei nostri.

L’atmosfera era un indistinto e caotico brulicare di molecole di acqua allo stato puro; i potenti raggi della stella Zoe garantivano energia in abbondanza per mantenere quella situazione di vaporosa confusione anche durante la notte.

L’asse di rotazione non era inclinato rispetto al piano di rivoluzione, pertanto il dì e la notte avevano sempre la stessa durata. L’orbita del pianeta era invece fortemente eccentrica, e per questo la sua distanza dalla propria stella variava enormemente nel tempo.

La frenesia caotica dell’atmosfera era solo apparente, perché le radiazioni elettromagnetiche erano tali da infondere alle molecole uno stato di elevata coerenza vibrazionale a livello quantistico; tale coerenza poteva a tutti gli effetti essere considerata il substrato connettivo della coscienza del pianeta, mentre le brulicanti molecole ne erano il supporto materiale, i singoli neuroni.

Hydor poteva pertanto dirsi un essere senziente a tutti gli effetti.

I cicli siderali portarono lentamente il pianeta verso la posizione di maggior distanza dalla stella, e questo causò un forte abbassamento della temperatura a partire dagli strati più alti dell’atmosfera; il vapor acqueo poco a poco condensò, dapprima in minuscole goccioline d’acqua, poi in piccoli pezzettini i ghiaccio che divenivano via via più grandi col progredire del processo di raffreddamento, inglobando a sé le molecole d’acqua rimaste libere ed assumendo le forme più svariate, per lo più dettate dal caso ma secondo schemi ricorrenti.

Mano a mano che le dimensioni dei blocchi di ghiaccio crescevano, si andavano lentamente consolidando quelle che potremmo definire coscienze individuali: ogni blocco prendeva atto della propria unicità e separazione rispetto a tutti gli altri.

Quando il processo di cristallizzazione fu completato, iniziò una nuova fase di organizzazione; si crearono gerarchie di individui, per lo più basate sulla forma e la dimensione; i più grandi e simmetrici occupavano posizioni di comando, mentre quelli piccoli e dai contorni irregolari erano bistrattati e relegati a posizioni subalterne. Le Grandi Sfere erano ai vertici supremi.

La provenienza comune di ciascuno di questi esseri non era nemmeno più un ricordo, così come la casualità che aveva guidato il processo di cristallizzazione, e delle singole molecole d’acqua si era persa ogni traccia, tanto erano saldate fra loro in quelle nuove gelide e solide forme.

Ovunque regnava freddo e separazione; iniziarono i primi conflitti, le prime rivolte degli irregolari che volevano affrancarsi dal dominio dei simmetrici.

I cicli siderali intanto facevano il loro corso, incuranti di quanto accadeva su Hydor; la temperatura iniziò a salire lentamente ma inesorabilmente, e di questo iniziarono ad incolparsi reciprocamente i gelidi abitanti del pianeta; fu il pretesto per l’inizio di furiose lotte per il potere.

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Si cominciò a parlare di surriscaldamento globale, di inquinamento, di sviluppo sostenibile, temendo ipocritamente per il futuro delle nuove generazioni; ciascuno di loro conosceva bene la sorte a cui stavano andando incontro: lentamente iniziavano ad provare sudori freddi, a dimagrire, a perdere vigore.

Quel calore insopportabile avrebbe segnato presto la loro fine: e non occorreva essere Cassandra per comprendere che la direzione era segnata e non c’era via di ritorno.

Gli individui iniziarono a morire, partendo dai più piccoli e dagli irregolari; l’ultimo disperato tentativo di sopravvivenza fu rappresentato da una guerra globale, innescata da quella follia collettiva che la paura della morte aveva alimentato; questo non fece che accelerare il processo, perché grandi blocchi regolari venivano spezzati in piccoli ed irregolari, per i quali lo scioglimento era più rapido.

Il fenomeno era inarrestabile, la sorte segnata: lentamente, uno dopo l’altro, perirono tutti; e le molecole d’acqua, fino ad allora imprigionate in quell’assurda immobilità, ripresero a vibrare; dapprima disordinatamente, poi con coerenza crescente, guidati da quella formidabile direttrice d’orchestra che era Zoe.

Fu il risveglio da un profondo sonno, il ritorno da una lunga notte popolata di incubi.

Fu il riaffacciarsi alla Vita.

L’incompletezza Gödeliana, che göduria!


Nell’articolo precedente ho esposto alcune limitazioni della logica, strumento principe utilizzato dalla mente occidentale per effettuare ogni tipo di valutazione; voglio adesso giocare il carico da dieci.

Non intendo tediarti con pesanti disquisizioni matematiche, impresa che peraltro non sarei in grado di portare avanti in modo rigoroso, quindi rimarrò sul piano metaforico: supponiamo che tu sia invitato ad una festa organizzata da un amico, il quale ti ha informato che saranno presenti sei uomini e quattro donne, tu e lui compresi.

Da questa informazione iniziale puoi dedurne altre:

  • in totale sarete in dieci
  • i maschi saranno meno delle femmine
  • non è vero che le femmine saranno più dei maschi
  • non sarà possibile effettuare balli di coppia senza lasciar fuori qualche maschio
  • ecc.

Ovviamente le deduzioni hanno valore fintanto che la proposizione iniziale rimane vera: assumendo che il tuo amico sia affidabile, ti senti di poter mettere tranquillamente la mano sul fuoco circa la validità delle tue deduzioni: è un po’ come se tutte quelle informazioni fossero già implicitamente presenti nella prima.

Ebbene, tutta la matematica ragiona così: esistono poche informazioni iniziali, assunte per vere data la loro ovvietà (ma già qui si potrebbe discutere), e a partire da queste si costruisce l’enorme impianto teorico che poi ci viene freddamente propinato sui banchi di scuola.

Si parte dunque da un limitato insieme di enunciati (“saranno presenti sei uomini e quattro donne”), su questi si applicano delle regole per derivarne altri (“i maschi saranno meno delle femmine”), e poi si usano gli strumenti della logica per capire se sono veri o falsi.

Detto in altri termini, a partire da un insieme di affermazioni iniziali (e una serie di regole combinatorie) puoi derivarne un insieme più grande; tutte saranno valide dal punto di vista lessicale, ma solo alcune saranno vere (ad esempio, “le femmine saranno più dei maschi” è valida dal punto di vista lessicale, ma non vera in base all’assunto di partenza).

I matematici fino ai primi del novecento avevano un obiettivo ambizioso e, visto col senno di poi, presuntuoso: fissare un numero di affermazioni iniziali ritenute vere senza bisogno di dimostrazione perché ovvie (assiomi) e su queste costruire tutto l’impianto teorico della matematica; il capofila di questa missione era il tedesco David Hilbert.

Ma ecco improvvisa la doccia fredda, come un fulmine a ciel sereno; nel 1929 un altro matematico (l’austriaco Kurt Gödel, il mio mito) se ne esce fuori col suo teorema di incompletezza che sancisce in modo definitivo: non è proprio il caso di sbattersi ulteriormente nell’impresa, perché è logicamente impossibile!

Curioso vero? I limiti della logica dimostrati usando la logica stessa.

Insomma, Gödel dimostra che non è possibile, nemmeno in linea di principio, stabilire un elenco di affermazioni iniziali dalle quali poi si possano dedurre la verità o falsità di tutte le altre: esisterà sempre un’affermazione che sappiamo essere vera ma senza poterlo dimostrare!

Come facciamo allora a sapere che è vera? Perché usiamo informazioni aggiuntive che non appartengono all’elenco di partenza, e quindi “vediamo” cose che il sistema di affermazioni e deduzioni non “vede”; noi osserviamo la questione “dal di fuori”: ecco i vantaggi dell’essere distaccati.

Beh, dirai, ma allora è semplice: basta aggiungere questa affermazione mancante all’elenco, ed ecco che tutto va a posto…

Eh no, controbatte l’amico Kurt: è sempre possibile trovare un’altra affermazione, sintatticamente valida, di cui non si riesce a dimostrare la verità restando entro i limiti del sistema di assiomi, ma che noi sappiamo essere vera.

Non so se mi hai seguito fino in fondo, ma la portata di tutto questo è eccezionale!

Intanto dimostra che la nostra intelligenza va oltre la logica, perché riesce a vedere realtà non raggiungibili da una fredda sequenza di deduzioni; in secondo luogo ci tranquillizza su catastrofici scenari futuri nei quali i computer prendono il sopravvento: finché si baseranno su ferree procedure booleane rimarranno dei meri, stupidi servitori.

Ma soprattutto evidenzia che l’essere umano è dotato di un dono, la creatività, che va oltre ogni logica (per l’appunto!).

Ciò che più mi fa riflettere su tutto questo è il modo in cui Gödel è riuscito a dimostrare il suo teorema; non ho le conoscenze né le capacità per spiegartelo in modo rigoroso, ma ha a che fare con l’autoreferenzialità: è riuscito a trovare, usando le regole del sistema, un’affermazione che parla di sé stessa (alla guisa della famosa citazione di Parmenide “questa frase è falsa”).

Questa situazione circolare ha mandato in tilt il sistema dimostrandone la debolezza, un po’ come un programma per computer che entra in loop bloccandosi; eppure, per arrivare a dimostrare questo, noi esseri umani siamo in qualche modo in grado di aggirare queste limitazioni… e mi piace pensare che è proprio in questa sorta di capacità di essere autoreferenziali che risiede la nostra potenza!

L’auto coscienza, l’auto osservazione, la consapevolezza di sé è lo strumento per mandare in tilt gli auto… matismi (!) e prendere finalmente il controllo della nostra vita, affrancandoci dalla schiavitù dei programmi mentali che ci hanno installato nel tempo attraverso l’educazione.

Temi forse che questo ti possa condurre alla pazzia? Il rischio è concreto, finché rimani aggrappato alle certezze della logica…

Chi siamo noi?


Lo so lo so, nell’articolo precedente non ti ho persuaso: ancora non ti va giù l’idea che la tua identità non coincida col tuo corpo fisico; provo allora a buttar giù l’argomento in altri termini.

Non credo riuscirò nell’intento, un po’ per limiti miei, ed un po’ perché certe idee non si possono spiegare a parole: spero però che la sensazione di non comprensione che potrei farti provare riesca ad innescare un meccanismo intuitivo, non razionale, che ti faccia percepire con un registro di livello più elevato ciò che intendo trasmettere.

Con ogni probabilità relegherai invece questo articolo nell’archivio delle astrusità, per essere eufemistici, e cesserai la lettura all’incirca a questo punto.

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Ma se invece sei rimasto con me… lo sai come è composta la materia? Beh, immagino di sì, a scuola ci insegnano che è composta da atomi, e che questi a loro volta sono composti da un nucleo centrale, contenente protoni e neutroni, e da un certo numero di elettroni che ruotano attorno al nucleo.

Ma lo sai quanto è grande l’atomo rispetto al suo nucleo e agli elettroni che vi gravitano attorno? Ebbene, tanto per fare un paragone: se il nucleo avesse le dimensioni di un grano di sale, l’atomo sarebbe grosso modo grande quanto la cupola di San Pietro, e gli elettroni sarebbero dei granelli di polvere che turbinano nell’enorme vastità della cupola.

E nello spazio restante cosa c’è? Nulla, il vuoto. Attenzione, intendo proprio assenza di alcunché, nulla di nulla. Sai cosa significa vero?

Significa che quel cosciotto di pollo, che ieri sera ti sembrava così reale e gustoso, è fatto al 99,9% di nulla. Non solo il cosciotto: pure tu, ardente sostenitore della tua fisicità! Pure tu sei per il 99,9% dello spazio che occupi… vuoto!

Allora… se è vero che ti identifichi con la tua fisicità… beh, lasciamelo dire: sei veramente poca cosa… meno dello 0,01% di ciò che appari!

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Ma, se invece di insistere a tutti i costi nel voler mettere la materia in primo piano, ci concentrassimo per un istante sullo sfondo? Lasciamo perdere le particelle, e consideriamo il vuoto. Dopotutto, è grazie allo spazio vuoto, che le particelle possono manifestare la loro individualità… è grazie allo sfondo di un quadro, che possiamo apprezzare l’immagine che risalta in primo piano.

Se la vera essenza di tutto fosse proprio lì? Nello spazio delle possibilità… che lascia emergere di volta in volta la manifestazione terrena di un qualcosa più profondo, che risiede nel campo del potenziale non manifestato…

Tu non puoi vedere direttamente tutto ciò, lo puoi solo intuire per differenza… percepire l’esistenza di una qualche essenza più fondamentale solo indirettamente, perché svelata da quella materia che ne è una delle tante possibili manifestazioni.

Capisci la differenza? Ciò che credi di essere è in realtà solo un epifenomeno, una manifestazione di una realtà sottostante più essenziale, che tuttavia non puoi vedere ma solo intuire.

Le recenti scoperte sulla fisica quantistica vanno proprio in questa direzione; già, perché si è capito che quello che credevamo spazio vuoto, non è in realtà del tutto vuoto… è piuttosto una sorta di campo di possibilità, dal quale nascono e subito dopo si annichilano coppie di particelle e antiparticelle virtuali: il cosiddetto campo del punto zero.

Esiste infatti un principio fisico, che prende il nome dallo scienziato tedesco Werner Heisenberg, secondo il quale certe coppie di quantità fisiche fra loro coniugate non possono essere misurate con assoluta precisione: se misuri bene una, rinunci a misurare bene l’altra.

Fra queste coppie troviamo energia e tempo: se misuri con estrema precisione il tempo, allora l’energia di un sistema fisico risulta indeterminata; ma attenzione: non nel senso che ha un ben preciso valore che però tu non conosci, ma in un senso più fondamentale: il suo valore reale è proprio indeterminato.

Questo significa che non può esistere per definizione uno stato di energia zero, in altri termini il vuoto; o meglio, può esistere solo se ci accontentiamo di misurarlo per un tempo sufficientemente lungo (e, per misurare quanto lungo, si usa l’ordine del tempo di Planck, un valore inimmaginabilmente piccolo).

Quindi, per brevissimi istanti lo stato energetico di un sistema non è zero, ma può manifestare livelli di energia anche molto elevati, tanto più elevati quanto più piccolo è l’intervallo di tempo considerato; è la cosiddetta energia del punto zero. Immaginalo come la superficie di un brodo in ebollizione, dalla quale ogni tanto qua e là appaiono bolle che subito dopo spariscono: non potrà mai avere una superficie perfettamente piatta.

Recenti teorie fisiche sostengono che proprio nel campo quantistico, così misterioso e dalle potenzialità infinite, risieda la nostra coscienza: non già nelle nostre strutture cerebrali, dunque, che a questo punto verrebbero relegate al ruolo di mere antenne riceventi, ma in quello spazio fisico che chiamiamo comunemente vuoto e che in realtà è tutt’altro che vuoto, perché contiene in potenza tutto ciò che può divenire reale.

La nostra coscienza, secondo queste teorie, risiederebbe nello sfondo!

Da informatico non posso esimermi dal citare uno dei principali sostenitori di questa teoria, che non è un mago Otelma qualsiasi, bensì l’italiano che ha inventato il microprocessore e grazie al quale oggi sei in grado di leggere questo articolo: Federico Faggin.

In rete ci sono numerosi video che riportano i suoi interventi in conferenze divulgative, ti invito a guardarle. Non è scientificamente provato che le cose stiano davvero così ma… se invece lo fossero?