L’altro giorno si parlava di apprendimento con mia figlia, studentessa al liceo.
Le facevo notare che un metodo affidabile per verificare di aver appreso una nozione è quello di spiegarla a qualcuno che non ne sa nulla, perché probabilmente inizierà a fare domande imprevedibili, portando il tracciato della spiegazione su un percorso a noi nuovo e costringendoci a vedere quella nozione da un’altra angolazione; o più semplicemente non riuscirà a seguire il nostro filone narrativo, e ci spingerà ad adottarne un altro.
Quale che sia la dinamica, ci stimolerà a formulare risposte che possediamo solo se, nel nostro processo di apprendimento, siamo scesi in profondità, ossia abbiamo abbandonato la superficie descrittiva della nozione per andare alla radice, facendo nostra quest’ultima.
La conoscenza si trova su un livello più profondo rispetto alla sua descrizione verbale e intellettuale, tuttavia per accedervi con gli strumenti tradizionali di apprendimento bisogna passare da quest’ultima, che non sarà mai unica, ma una fra tante.
Nel momento in cui si ha avuto accesso al concetto profondo, da lì è poi possibile risalire al livello descrittivo, magari utilizzando una verbalizzazione diversa da quella di partenza.
Il counseling a mio avviso funziona allo stesso modo: il counselor fa del suo meglio per raggiungere la tabula rasa di ogni sua conoscenza pregressa sugli esseri umani (facile a scriversi, impossibile da mettere compiutamente in atto) e si pone di fronte al cliente come uno studente del primo anno desideroso di apprendere, mentre il cliente spiega (oh, quanto mi affascina l’ambivalenza di questo termine) sé stesso.
Non serve altro, se non un genuino desiderio di apprendere il mondo dell’altro, che per spiegarsi è stimolato a conoscersi, vedersi da diverse angolazioni, comprendersi. Perché troppo spesso siamo convinti di essere limitati alle descrizioni superficiali che ci hanno arbitrariamente appioppato.
Tutto questo è magia, la magia dell’ascolto empatico e non giudicante. La magia del counseling.
Ricordi uno dei primi videogiochi diventati famosi, PAC-MAN? Per rinfrescarti la memoria (non credo che tu ne abbia bisogno), puoi visitare questa pagina.
Qual era una delle caratteristiche di questo videogioco? Beh, considerato che siamo agli albori, sicuramente quella di essere in due dimensioni; la grafica 3-D è venuta molto tempo dopo, resa possibile da uno sviluppo delle risorse hardware ai tempi inimmaginabile.
Ora però ti racconto una storia ai più sconosciuta, credo la troverai interessante: si tratta dell’esperienza di gioco vista dal protagonista, proprio lui, il cerchietto mangia puntini.
Devi sapere che PAC-MAN, naturalmente convinto che il mondo fosse limitato al solo labirinto che era in grado di esplorare, era anche piuttosto presuntuoso: credeva solo in ciò che vedeva o era in grado di sperimentare, e non ammetteva l’esistenza di altro all’infuori di quello.
Certo, si rendeva conto dell’esistenza di fenomeni strani, primo fra tutti quel comodissimo passaggio segreto che lo faceva sparire da un lato dello schermo e ricomparire magicamente dal lato opposto; ma li considerava come un dato di fatto, ormai si era abituato ad utilizzare quella comoda via di fuga ed aveva mentalmente rimosso la necessità di trovarne una spiegazione razionale. Anche se un briciolo di disagio per quel conto che non tornava, nascosto in un recesso della sua mente, ogni tanto si risvegliava per logorarlo.
Per noi, esseri umani in 3-D, la visione è invece molto più nitida: povero PAC-MAN, intrappolato in quelle due sole dimensioni che lo rendono prigioniero del labirinto. Ah, se potesse venire a conoscenza di una terza dimensione, da sfruttare per i propri spostamenti, quante opportunità gli si aprirebbero! Che balzo in avanti nella comprensione del mondo!
Immaginiamo che un bel giorno una sfera, per sua natura 3-D, attraversi il piano di gioco. Cosa vedremmo noi, e cosa vedrebbe PAC-MAN?
Beh, tu ed io vedremmo proprio quello che ho detto: una sfera che attraversa il campo di gioco; ma vai a spiegare al poverino cos’è una sfera, a lui che non ha mai fatto esperienza della terza dimensione.
All’inizio la sfera toccherebbe la superficie del labirinto in un punto, ed è esattamente quello che vedrebbe PAC-MAN: un punto che appare misteriosamente dal nulla.
Poco a poco la sfera penetrerebbe la superficie, intersecandola con una porzione sempre più vasta: il punto, visto dal mondo bidimensionale, si allarga in un cerchio; il meccanismo è un po’ quello che ci hanno spiegato a scuola per i paralleli terrestri: sezioni di piano che intersecano la superficie del nostro globo vanno a formare grandi circoli immaginari.
Il povero PAC-MAN è allibito: può forse digerire il passaggio segreto, anche perché gli torna comodo, ma di fronte a questo fenomeno resta letteralmente di stucco: dal nulla appare un puntino che poi cresce, diventa un qualcosa che gli somiglia parecchio, e cresce sempre più! Decisamente è terrorizzato!
Poi, improvvisamente, la crescita si arresta: ecco che il cerchio inizia a contrarsi, si contrae sempre più, torna ad essere un puntino e… svanisce nel nulla!
Per noi due, che osserviamo dall’esterno, tutto è perfettamente spiegabile: la sfera ha attraversato completamente la superficie, i punti di contatto sono diventati sempre di meno ed alla fine ne è uscita, passando dalla parte opposta. Tutto nella normalità, nessun fenomeno misterioso.
E per noi è perfettamente spiegabile anche i passaggio segreto: si tratta semplicemente di un cunicolo che permette di muoversi lungo la terza dimensione, al di fuori del campo di gioco.
Incredibile come avere accesso ad una dimensione aggiuntiva possa contribuire a migliorare la nostra visione del mondo; poi, certo, ci vuole anche un po’ di umiltà e capacità di immaginazione: noi non siamo certo chiusi nel nostro mondo come quello stupido personaggio da videogioco. Noi sappiamo che le dimensioni lungo cui muoversi in realtà sono tre.
Un momento: e se fossero di più? Supponiamo siano quattro, ma analogamente a quanto accade al povero PAC-MAN, che non vede la terza, noi non possiamo vedere la quarta. Tu non hai la cieca presunzione di PAC-MAN, sai che questa eventualità è plausibile, vero?
Ebbene, anche a noi a ben vedere appaiono fenomeni strani, che accettiamo perché ne facciamo da sempre esperienza ma che non riusciamo a capire fino in fondo, a dar loro una spiegazione soddisfacente. Forse l’esistenza di una quarta dimensione (o anche più, a detta delle moderne teorie sulla fisica quantistica), aiuterebbe a capire, a dare un senso a tutto ciò?
Giusto per trovare un esempio concreto: riesci a pensare a qualcosa che appare praticamente dal nulla in questo mondo, cresce, regredisce per poi tornare a sparire nel nulla, in una dinamica a cui, in tutta onestà intellettuale, facciamo fatica a dare un significato, se non ricorrendo a variegate forme di religione?
Mi è capitato in passato di tenere colloqui di lavoro con candidati da assumere in azienda, per lo più colloqui tecnici per valutare le conoscenze della persona da collocare nel mio team di lavoro (mi occupo di sviluppo software); si è trattato di esperienze molto formative per me, una di queste è stata particolarmente significativa e la voglio ora utilizzare come punto di partenza per questo articolo.
La persona che avevamo di fronte (in quell’occasione mi trovavo con altri due colleghi inquisitori), che chiamerò amorevolmente Chef Developer, aveva dimostrato conoscenze tecniche molto superiori alla norma, rispondeva alle domande con estrema disinvoltura e padronanza della materia. Rispetto agli altri candidati dimostrava di avere una marcia in più, inutile dire che fu messo in testa alla graduatoria. Alla fine assumemmo più di una persona, ed ovviamente Chef Developer era considerato il migliore di tutti. Altri si erano dimostrati bravi sì, ma un po’ tiepidini: non avevano la carica dirompente di conoscenze dimostrata dal primo, non erano sicuri di loro stessi e si percepiva.
Passato un anno dalle assunzioni, iniziammo a tirare le prime somme. Ebbene, Chef Developer, che avrebbe dovuto spaccare il mondo, si stava invece dimostrando un fallimento, mentre altri che non erano risultati così convincenti stavano invece ottenendo ottimi risultati. Il primo continuava ad infarcire i propri referenti di chiacchere, buoni propositi, suggerimenti ed opinioni sulle soluzioni da adottare, ma quando si trattava poi di andare a verificare quanto avesse messo in pratica, poco (e male) era stato fatto.
Dove avevamo sbagliato? Non c’era dubbio che si fosse trattato di una cantonata madornale.
Con gli anni ho avuto poi modo di verificare quanto questo scollamento fra sapere e saper fare sia comune. Ad oggi ho formato la mia opinione in proposito (spero suscettibile di miglioramenti futuri) e voglio qui proportela.
Il fatto è che la conoscenza, in senso lato, va metabolizzata su più livelli. Esiste un livello intellettuale, che è quello sul quale si concentra la nostra scuola, al quale è associato il piano verbale. Esistono però almeno altri due livelli, uno motorio e l’altro emozionale, che giocano un ruolo importante, direi fondamentale, e la conoscenza va estesa anche ad essi. Cosa che normalmente non accade. Questi altri due livelli sono difficilmente verbalizzabili; chiedi ad un camionista di spiegarti come fare la retromarcia con un rimorchio: il più delle volte ti dirà: ‘si fa così’, ed inizierà a farti vedere come fa (livello motorio). Lui sa fare la manovra, ma non saprebbe metterla efficacemente nero su bianco, a prescindere dal livello scolastico.
Immagina di dover comprare un prodotto, ma di non essere sicuro della sua validità. Chiedi allora consiglio ad un amico che lo ha acquistato qualche mese fa, il quale dice che sì, è un ottimo prodotto, anche se finora non ha avuto occasione di usarlo; ha però letto più volte il libretto di istruzioni e ne è entusiasta.
Date le premesse ti fideresti del consiglio dell’amico, o cercheresti qualcuno che lo abbia usato effettivamente?
La domanda è ovviamente retorica, e vuole sottolineare questo aspetto: non puoi dire di conoscere qualcosa se prima concretamente non ne fai esperienza; soprattutto, finché questo non accade non sei in grado di sapere quali emozioni ne possano derivare (come fai a dire che non ti piace se non hai mai provato?). E sono le emozioni che guidano i nostri comportamenti, non le argomentazioni razionali. Gli esperti di marketing lo sanno bene.
Questa per me, che ho sempre ricercato nei libri tutte le risposte, è una lezione fondamentale: i libri sono utili, ma se non li completi con delle esperienze, rimangono lettera morta. A tavolino non puoi formarti delle opinioni, non puoi sviluppare conoscenza.