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Le dimensioni della consapevolezza


In questo periodo si parla molto, nei vari testi e video di evoluzione spirituale, di passaggio dall’attuale livello di coscienza 3D al nuovo livello 5D. La mia petulante razionalità, che vuole sempre avere voce in capitolo ed è evidentemente ancora saldamente ancorata alla terza dimensione, si è domandata cosa significhi tutto ciò, e in cosa consistano le dimensioni di cui stiamo parlando. Voglio ora condividere con te alcune personalissime conclusioni con cui l’ho messa provvisoriamente a tacere; non prenderle troppo sul serio, sto solo giocando un po’.

Partiamo innanzitutto dal concetto di dimensione logica attraverso un esempio che distingue fra ‘uso’ e ‘menzione’ delle parole.

Se affermo:

Genova è sul mare

sto usando la parola ‘Genova’ nella sua funzione di indicatore semantico che permette di individuare mentalmente la città in questione.

Se invece affermo:

'Genova' è composta da sei lettere

come puoi notare dal virgolettato non sto usando la parola, ma la sto menzionando: non intendo riferirmi alla città, ma, appunto, alla parola stessa (affermare che una città è composta da sei lettere sarebbe privo di significato).

Questo esempio mette in evidenza due livelli fra loro non mescolabili:

  1. al primo livello si parla di oggetti;
  2. al secondo livello si parla di parole, che a loro volta parlano di oggetti; in altri termini, si parla del primo livello: è un linguaggio che parla di un altro linguaggio, ossia un metalinguaggio.

Nel quotidiano questi due livelli tendono a confondersi perché entrambi si avvalgono della lingua naturale, anche se riusciamo implicitamente a distinguerli; talvolta non ci riusciamo e allora nascono incomprensioni o situazioni comiche nella loro paradossalità.

L’esempio qui riportato si può parimenti applicare alla nostra percezione del mondo, che si stratifica lungo diversi livelli di consapevolezza; ciascun livello, o dimensione, si riferisce a (parla di, dà un significato a) il precedente.

  1. Livello delle sensazioni; i sensi mi fanno percepire oggetti intorno a me, che distinguo ma che non comprendo ancora appieno; è il livello della mia conoscenza del mondo.
  2. Livello funzionale, che completa di significato quanto percepito al livello precedente, parlando di esso: distinguo ad esempio una penna, che mi permette di tracciare segni su un altro oggetto, che chiamo ‘foglio di carta’; è il livello della mia conoscenza sul mondo: comprendo le potenzialità degli oggetti, ma non il loro lo scopo ultimo (perché tracciare segni su un foglio? Che senso ha?).
  3. Livello esistenziale, che dà significato al livello precedente, attribuendo una ragion d’essere ai vari oggetti: traccio dei segni su carta perché voglio comunicare. Facendo leva su un’interpretazione teleologica, questo è il livello del giudizio: utile/inutile, innocuo/pericoloso, giusto/sbagliato.

Questi tre livelli descrivono quelle che sono le dimensioni dello stato di coscienza 3D, e si possono applicare, oltre che al mondo circostante, anche alla percezione del sé, secondo la sequenza:

  1. attraverso i sensi mi accorgo di esistere, ma non so nulla di me;
  2. osservando ciò che i sensi mettono a disposizione, comprendo di essere un individuo in possesso di determinate caratteristiche; a questo livello non so ancora qual è il loro scopo, non riesco a dar loro un significato;
  3. osservando quanto appreso al secondo livello, comprendo che posso dare un senso alla mia esistenza ad esempio mettendo a disposizione le mie attitudini, offrendo prestazioni che possano migliorare la vita altrui, ottenendo in cambio una remunerazione che permetta il sostentamento mio e della mia famiglia.

Poiché ogni livello ‘spiega’ il precedente, è evidente che per poter modificare quanto percepito ad un livello occorra ricercare un significato per tale cambiamento, e questo si può fare solo al livello immediatamente superiore.

Posso ammettere che il colore della penna è verde e non rosso come credevo (livello 1), se attribuisco un significato a questo cambiamento giustificandolo col mio daltonismo (livello 2).

Posso accettare di lasciare il mio attuale impiego (livello 2), se riesco a collocare il cambiamento in un contesto di miglioramento professionale che garantisca maggior sicurezza per me ed i miei cari (livello 3).

Nietzsche sosteneva che chi ha un perché abbastanza forte può superare qualsiasi come; dalla lettura delle epistole dei condannati a morte durante l’olocausto si evince come coloro che riuscivano ad attribuire un significato alla propria morte (ad esempio perché sarebbe servita a rovesciare la dittatura) andavano incontro alla pena con maggiore serenità rispetto a coloro che credevano di essere stati giudicati per motivi assurdi.

Va rimarcato che più saliamo di livello più le resistenze al cambiamento di fanno forti: posso accettare di buon grado di aver scambiato una volpe per un gatto, sono assai riluttante nell’ammettere di essermi sbagliato sul conto del mio migliore amico, sono praticamente irremovibile sulle mie convinzioni etiche e morali, al punto che, se crollassero, rischierei la depressione o chissà quali altre patologie.

Fino a qualche anno fa ero in perfetto equilibrio nella mia coscienza 3D, e il significato che la consapevolezza di terza dimensione riusciva a dare alla mia esistenza era sufficientemente convincente; poi, piano piano, hanno iniziato a fare capolino i dubbi, per esempio: OK, OK, lavoro per mantenere me e la famiglia… ma è tutto qui, o c’è dell’altro? Questa è l’unica via per me? Che succede se non mi adeguo, se smetto di fare il bravo? La vita prosegue su binari diversi? Continua ad avere un senso?

Improvvisamente il mondo del counseling, così profondamente imperniato sulla sospensione del giudizio, mi ha aperto le porte del quarto livello di percezione; o almeno è questo che mi piace pensare.

Che significa astenersi dal giudizio? Significa rinunciare alla distinzione fra bene e male, o meglio, trascenderla. La distinzione rimane, ma su un piano diverso: resta nella terza dimensione, e la coscienza la osserva neutralmente dalla quarta.

Da quel nuovo piano perde di importanza lo specifico percorso che scelgo nella vita: ciò che conta è agire, fare esperienza, a prescindere dalla strada imboccata e dai risultati ottenuti; ogni cammino intrapreso sarà un tassello in più nella conoscenza di me; è questo il fine ultimo che, a questo livello percettivo, attribuisco alla mia esistenza.

E per un po’ ho ritrovato l’equilibrio che avevo perduto.

Ora sento che un nuovo senso di angoscioso vuoto mi pervade, sembra che tutto abbia perso valore e significato. L’impianto razionale che ho messo in piedi fin qui non regge più.

Che sia il preludio a un nuovo salto di coscienza? Riuscirò finalmente a dare voce al mio cuore?

Resto fiducioso in osservazione di me.

Watzlawick, Paul – Beavin, Janet Helmick – Jackson, Don D. – Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi

Marco Perasso – Fuori dal Solco

Incompreso


Vorrei poterti dire ciò che penso liberamente, senza timore di dovermi difendere da te.

Vorrei che sentissi ciò che sento, che provassi ciò che provo, che comprendessi perché agisco come agisco.

Vorrei che mi conoscessi davvero e che mi amassi per ciò che sono, e non per ciò che ho fatto, sto facendo o farò.

So che non posso aspettarmi niente di tutto questo da te, perché sei qui per mettermi di fronte ai miei bisogni.

Un giorno imparerò a esserti grato.

Le lettere d’amore


La fanciulla attendeva da mesi il ritorno dell’amato partito per il fronte; non passava giorno senza che guardasse nella cassetta della posta per controllare se ci fosse una lettera da parte sua.

Ogni volta che ciò accadeva il suo cuore iniziava a battere forte e una dolce sensazione di calore le invadeva tutto il corpo; prendeva allora la busta che recava il suo nome e la riponeva con cura, senza aprirla, in un cofanetto dorato con un grande cuore disegnato sul coperchio, quindi serrava amorevolmente il lucchetto e riponeva il tutto sotto il letto.

Capitò un giorno che la sua migliore amica osservasse questo curioso comportamento, e le chiedesse come mai non apriva le buste per leggerne il contenuto.

«Un tempo lo facevo» replicò la giovane ragazza «e allora poteva succedere che mi riempissi di gioia, perché il mio amato mi comunicava che sarebbe presto ritornato, oppure che precipitassi nel baratro della disperazione, perché in un momento di sconforto scriveva che la nostra storia non aveva più senso e mi avrebbe lasciata.

La tentazione allora era di gettare tutte le lettere nelle fiamme, e con esse ogni ricordo di lui.

In uno di quei giorni intrisi di sofferenza finalmente compresi tutto il mio bisogno di amore, e anche che lo stavo cercando nel posto sbagliato.

Ciò che davvero importava non era il contenuto della busta, ma la busta stessa.

Capii che fintanto che arrivava una lettera lui mi pensava, si ricordava di me. Questo bastava per sapere di essere amata, le parole non contavano più, l’importante era che ci fosse un messaggio per me.

Un gesto di amore può avere anche le forme più dolorose, perché l’amore è nascosto in ogni messaggio che ci ricorda di essere vivi.»

L’amica rimase un poco in silenzio, quindi la strinse in un forte abbraccio, grata di aver finalmente compreso quanto amore le mandasse ogni giorno l’Universo.

La sequenza


Ho in mente un’idea favolosa che voglio trasmettere scrivendo questo articolo; cerco di andare con ordine, se butto giù i concetti alla rinfusa rischio di non farti capire nulla.

Devo seguire un filo logico ma ho molte difficoltà, perché è difficile imporre una sequenza a pensieri molto legati fra loro; la tentazione di divagare è sempre dietro l’angolo.

Ad esempio ora sto pensando di entrare nell’argomento ‘X’, a cui voglio poi far seguire ‘Y’, e mi accorgo che potrei altrettanto efficacemente collegare ‘Z’, ma in tal caso la storia prende un’altra piega.

Mi sento come quando leggo un libro in cui sono presenti molte note a piè di pagina: che fare, seguire il flusso principale e poi tornare sulla nota in un secondo momento, oppure leggerla subito? Ma allora perché mettere una nota, se andava letta subito? Forse è di secondaria importanza? Allora posso scegliere di ignorarla? Ma così rimarrò sempre con la curiosità sul suo contenuto.

Ricordo anche quando da ragazzino leggevo le storie a bivi di Topolino: che bivio scelgo? Ho seguito tutte le strade alternative? Che frustrazione!

Certo, alla fine arriverò a toccare tutti i punti che interessano e il quadro ti sarà comunque chiaro, indipendentemente dalla sequenza scelta per snocciolare i concetti; forse qualcuna sarà più chiara, qualcun’altra più contorta.

Il punto è che non posso prescindere da una sequenza: devo mettere in fila gli argomenti, e prima ancora individuarli, isolarli, separarli.

Sembra un problema intrinseco alla comunicazione; è un po’ come accade nella trasmissione dati in Internet: il tuo ordine su Amazon viene suddiviso in componenti (nome destinatario, indirizzo di spedizione, articolo, quantità, ecc.) da inviare poi in sequenza, una lettera alla volta, nella rete.

Ma certo! La comunicazione! Potrebbe dipendere da questo il mio modo di vedere la realtà!

Mi sono sempre domandato perché non riesco a concepirla per quello che è, ossia un continuo, ma devo passare per una sua discretizzazione vedendo separazione laddove non esiste: questa è una sedia, là c’è un tavolo, lì una porta… illusioni! La realtà è priva di separazioni, sono io che le introduco artificiosamente, ma perché? Perché ne ho bisogno?

Anche lo scorrere del tempo è un’illusione: passato, presente e futuro coesistono in un blocco statico, almeno così insegna la teoria della relatività, eppure io mi sento in divenire, fluendo da un passato che non esiste più verso un futuro che non esiste ancora. Perché?

E se la risposta fosse proprio nella sequenza dei messaggi? Se la percezione della realtà fosse una sorta di comunicazione che avviene fra l’Universo e me?

L’Universo mi sta ‘comunicando’ come è fatto ma, esattamente come accade a me quando scrivo, non può trasmettere tutto assieme, altrimenti non capirei: allora mette l’informazione in pacchetti e li manda in una certa sequenza.

L’informazione mi raggiunge così parcellizzata e per gradi, un pezzo alla volta: questo spiegherebbe il fatto che percepisco una sedia separata da un tavolo, e una porta che si apre prima che qualcuno entri.

Una speculazione alquanto azzardata, ma estremamente affascinante.

Ma a parte questa divagazione, torniamo all’idea che volevo trasmetterti all’inizio.

Ehm…

Ecco, lo sapevo, mi sono perso nei meandri della storia a bivi, e ora non la ricordo più!

Il gioco senza fine, ovvero le trappole della relazione


Immagina di fare il seguente gioco con un amico: ogni volta che comunicate, invece di dire ciò che avete in mente dovere usare la sua negazione. Ad esempio, invece di “Mi piace il tuo nuovo vestito”, potreste affermare “Oggi hai un vestito orrendo”, e via di seguito.

Ora, in base alle poche ma ferree regole che vi siete dati, diventa subito evidente come non sia possibile porre fine al gioco, perché nel momento in cui proponete “smettiamo”, state comunicando l’intento contrario.

Ma anche l’ingenuo contro tentativo di dire “continuiamo” non potrebbe porre fine al gioco, perché verrebbe inteso come una comunicazione fatta nel gioco, e non sul gioco. L’interlocutore lo prenderebbe come un’affermazione all’interno dello scambio di battute nel quale siete immersi, non come la proposta di una nuova regola che riguarda il gioco.

Detto più precisamente, per uscire dal gioco bisogna meta comunicare, ossia comunicare sulla comunicazione, ma le regole che vi siete dati non hanno specificato alcunché in proposito, e quindi vi trovate intrappolati in un paradosso.

Ti risulterà subito demenziale e accademica un situazione simile, e di fatto nella pratica non si verificherebbe mai perché, vista la sua semplicità, risulta facile “uscire” dalla simulazione e tornare alla “realtà”.

Ma rimaniamo ancora un poco nella teoria. Esistono tre possibilità per prevenire questa trappola:

  1. giocare usando una lingua e parlare del gioco usandone un’altra; in questo modo, dicendo di smettere, ad esempio, in inglese, potresti senza possibilità di fraintendimenti comunicare correttamente all’altro la tua vera intenzione
  2. stabilire un evento esterno che ponga fine al gioco (ad esempio un timer)
  3. fare ricorso ad una terza persona che non partecipa al gioco (come il punto precedente, ma soluzione maggiormente flessibile) che faciliti la meta comunicazione

Questo è un esempio alquanto teorico, però è illuminante perché il nostro cervello è un sistema mnesico modellante, ossia inferisce regole. Quando una relazione con una persona perdura per un certo tempo, o ha prospettiva di farlo, diventa utile per l’economia cerebrale modellare un protocollo di comunicazione.

Di fatto si vengono dunque a creare delle regole implicite, che aggiungono significato ai messaggi scambiati  senza bisogno di esplicitarlo.

E qui sta l’inghippo. Perché finché le cose vanno bene, lo scambio di messaggi è fluido e armonioso, e “lui (lei) mi capisce senza nemmeno bisogno che io parli”.

Ma quando le cose cambiano (e il mondo è un continuo divenire, difficilmente le condizioni iniziali perdurano per sempre), potrebbe essere necessario modificare il protocollo di comunicazione. Ma per farlo bisogna uscire dal sistema, peccato però che ci si è abituati ad usare regole, ormai ben rodate, che lavorano solo al suo interno.

Tornando alla metafora del gioco, ad un certo punto bisogna poter dire ‘smettiamo di giocare’, ma non si riesce a farlo!

Per questo motivo molte relazioni (di ogni tipo, non mi riferisco solo ai rapporti sentimentali: anche la relazione cliente/terapeuta, ad esempio, è affetta da queste dinamiche) tendono a cristallizzarsi in modelli ripetitivi che portano al logorio dei partecipanti, talvolta costringendoli ad uscire a forza dal gioco, non potendone modificare le regole dall’interno. Si tratta squisitamente di un problema di comunicazione: i protagonisti si trovano intrappolati nell’impossibilità di dirsi qualcosa di diverso dal solito.

Sempre alla luce del gioco presentato prima, l’intervento di un terzo (mediatore familiare per la coppia, supervisore per il counselor o il terapeuta) può aiutare il processo di meta comunicazione, agevolando le parti ad uscire dalla trappola in cui si sono rinchiuse.

Ancora una volta mi risulta evidente come per liberarsi sia necessario uscire dai modelli, andare al di là della regola. Il che non vuol dire violarla, perché questo significherebbe rimanere nel gioco, bensì trascenderla.

Cambiare gioco.

Riferimenti bibliografici:

Paul Watzlawick, Don D. Jackson, Beavin Janet Helmick – Pragmatica della comunicazione umana

Umorismo fuori dal solco


Ti sei mai chiesto cos’è l’umorismo? Che cosa, in una battuta o barzelletta, provoca in te il sorriso?

La risposta è semplice: uscire dal solco! Se rifletti sulle situazioni divertenti ti renderai conto come ognuna di esse poggi su associazioni inusuali fra concetti apparentemente distanti, oppure su interpretazioni non previste di un fatto che ne ribaltano completamente il significato. Questo cambio di prospettiva genera ilarità.

Facciamo un esempio.

La maestra chiede a Pierino: – io studio, tu studi, egli studia. Che tempo è Pierino?

La domanda produce nel lettore un’aspettativa sulla risposta di Pierino basata su una particolare interpretazione della parola ‘tempo’.

Pierino risponde: – tempo perso, maestra!

La risposta crea uno cambiamento di prospettiva, un’interpretazione nuova e inaspettata della domanda. Alla parola ‘tempo’ viene attribuito un significato inatteso per quel particolare contesto. Questo repentino spostamento semantico è alla radice della situazione divertente.

Ancora:

Il suo cuore, signora, funziona molto meglio. Evitare le scale per un mese come le ho prescritto ha portato notevoli benefici!

Interpretazione attesa: la signora, anziana ed acciaccata, per un mese è stata a riposo senza affaticarsi.

Molto bene dottore. Posso smettere la cura allora? Sa, è piuttosto faticoso ogni giorno salire al terzo piano su per la grondaia!

Interpretazione fuori dal solco: la signora è arzilla e agile, non è stata affatto a riposo, l’immagine contrastante e un po’ surreale di una vecchietta che si arrampica su per la grondaia provoca un sorriso.

Passa in rassegna le barzellette che conosci e prova ad interpretarle sotto questa nuova luce: ti accorgerai che sono divertenti perché escono dal solco.

Un altro buon motivo per farlo, dunque!

Tu hai paura?


Ieri ho ricevuto una newsletter dal sito ilmeteo.it dal seguente oggetto:

ALLARME ROSSO: NEVE tra pochi secondi, SEGNALA ADESSO

peraltro in linea con una collaudata strategia di allarmismo a cui questo portale non è nuovo.

Sia ben chiaro, consulto quotidianamente quel sito, le cui previsioni ritengo affidabili, e credo che ognuno debba perseguire i propri fini usando i mezzi ritenuti più opportuni, purché confinati nella liceità; questo fatto mi ha però stimolato una riflessione.

In cosa consiste esattamente questo disegno – diciamo – di marketing? Quante volte viene utilizzato nel mondo della comunicazione in cui ci troviamo immersi?

Ebbene, se ci rifletti, viene utilizzato molto più spesso di quanto non si creda; ti è mai capitato di leggere i giornali o ascoltare il telegiornale e osservare che si danno solo cattive notizie? Quanto spesso sul posto di lavoro viene fatto allarmismo ingiustificato circa stringenti scadenze da rispettare o concorrenti che ci stanno mettendo all’angolo? Quante volte si parla di perdite di posti di lavoro, di rincari della benzina, di aumento delle tasse?

Lo sai perché accade questo? Perché vogliono spaventarti.

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La paura di per sé è un’emozione utile, ci aiuta a tirarci fuori dalle situazioni di emergenza, quindi non va demonizzata né ci si deve vergognare di essa. Si tratta di un meccanismo utile che tuttavia può essere strumentalizzato: quando hai paura tendi a perdere il controllo delle tue azioni, tendi a non riflettere, tendi ad aggrapparti alla prima mano che ti presta soccorso. Ma se la prima mano fosse quella sbagliata?

L’invito che ti faccio è quindi ancora una volta quello di riflettere, ragionare con la tua testa, prendere coscienza di questo inganno sottile; dopotutto, come si dice, il diavolo non è così brutto come lo si dipinge.

Il diavolo. Come non averci pensato prima? Ti rendi conto che anche in questo caso ci troviamo di fronte allo stesso stratagemma? “Attenzione a quello che fai, segui i precetti che ti insegniamo, se non vuoi passare l’eternità fra mille tormenti!”…

Come vedi, da millenni questo meccanismo dimostra di funzionare.

Sei veramente convinto di non esserne schiavo?

Parole parole parole…


Voglio proporti un esperimento mentale.

Immagina di essere figlio di un ricco industriale, hai circa 5 anni, i tuoi genitori dicono che questo week-end andrete a fare una gita con la nuova barca appena comprata. Non avevi mai visto una barca prima d’ora, ma l’esperienza è decisamente entusiasmante: com’è bello correre avanti e indietro sul ponte col vento fra i capelli, magari qualche onda più alta ti fa sembrare di essere sulla giostra. Passano gli anni, cresci, ti capita sovente di passare del tempo sulla barca di papà; adesso sei adolescente, porti gli amici in vacanza con te; quando vuoi farti bello con le ragazze, con facilità ti giochi la carta della gita in barca.

Adesso riavvolgi il nastro: hai sempre 5 anni, ma sei il figlio di un pescatore. Papà si sveglia presto al mattino, quando è ancora buio, per andare al lavoro. Ha sudato parecchio per racimolare i soldi che gli hanno permesso di acquistare a rate la barca con cui lavora; qualche volta ti ha portato con sé, è stato divertente, anche se con tutte quelle reti, i remi, il salvagente, di spazio per muoversi a bordo non ne avevi poi molto, dovevi stare attento a non fare movimenti bruschi per non cadere in acqua. Però conservi ancora il ricordo della prima volta che sei salito sulla barca, e del giorno successivo quando lo hai raccontato a tutti i tuoi amici, com’eri felice! Sei cresciuto, adesso qualche volta esci al mattino presto con papà per aiutarlo, rubando qualche ora allo studio. E’ faticoso, ma ti dà un senso di serenità e lo fai volentieri.

Ti sei immedesimato? Bene. Adesso considera la parola ‘barca’ e dimmi: quando viene pronunciata ai due individui immaginari, pensi che i concetti che essa richiama alla memoria siano identici nei due casi? Facciamo un esempio: supponiamo che in età adulta si ritrovino ad affrontare problematiche che coinvolgono la dimensione di una barca (progettazione di un motore nautico, gestione della logistica per il trasporto di imbarcazioni, ecc.): le problematiche che di primo acchito tenteranno di affrontare saranno simili o divergeranno?

La domanda è ovviamente retorica: sicuramente, pur rimanendo costante il vocabolo, le aree mentali ad esso associate saranno molto differenti. Al primo richiamerà concetti come ‘grandi dimensioni’, ‘equipaggio’, ‘feste a bordo’, ‘vacanze’; il secondo penserà a ‘notte’, ‘lampare’, ‘verniciare’, ‘silenzio’.

E quello che accade in questo esempio un po’ estremo e romanzato non è l’eccezione, ma la regola della vita quotidiana: le parole non hanno un valore assoluto, ma sono inestricabilmente legate alla cultura e alle esperienze di ciascuno di noi. Peccato però che siano (ritenute) lo strumento principe per comunicare: io dico ‘appuntamento stasera all’angolo della strada vicino al fiume’ e tu capisci esattamente questo, ne sei sicuro, quando stasera mi chiamerai sul telefonino dall’angolo opposto a quello che intendevo mi ripeterai esattamente le stesse parole, per dimostrarmi che avevi capito, e io te le ripeterò nuovamente per dimostrarti che invece no, in base alle mie indicazioni non ti dovresti trovare lì, ma il dato di fatto è che la comunicazione è fallita.

Se pensiamo al nostro cervello come ad una superficie sulla quale si formano delle aggregazioni di concetti (un po’ come il piano di un tavolo sul quale cadono goccioline di pioggia che, quando sono vicine, si uniscono a formarne una più grande), allora la parola è un punto che si erge al di sopra del piano, e sintetizza (semplificandola) l’entità complessa sottostante. Prima nasce il concetto, poi lo si etichetta: ma l’etichetta deve per forza eliminare dettagli, un po’ come la mappa semplifica il territorio.

Immagine mentale

Appena uso l’etichetta, mi viene attivata un’area cerebrale, e la stessa cosa succede a te, ma non è detto che le due aree attivate corrispondano…

Si tratta di un problema? Be’, sicuramente è un problema non rendersi conto di questa dinamica: non risalire alle intenzioni di chi parla per capire quello che effettivamente sta dicendo, ma fermarsi alla superficie, alla lettera del comunicato (ed è già tanto se lasciamo finire di parlare il nostro interlocutore, perché spesso abbiamo già capito tutto prima ancora che finisca la frase).

Chi lavora in un’azienda come me non avrà difficoltà a notare fenomeni di questo tipo: riunioni fiume in cui si parla di tutto e di niente, si esce spesso dal filone principale, si alza la voce, terminando poi con un salomonico accordo fra i partecipanti, salvo poi, da un dialogo estemporaneo alla macchinetta del caffè, ribaltare le conclusioni a cui si era giunti pochi minuti prima… e riconvocare una riunione chiarificatrice…

La diversità delle nostre mappe mentali non va però visto come un problema, anzi secondo me è una ricchezza, ma non va ignorata: pensiamoci… e teniamo sempre bene in mente che la parola è uno strumento, non va idolatrata come fine a sé stessa; non caricare di assolutismo la tua definizione di un concetto, se ti vuoi concedere il lusso di interagire col mondo.

Le parole hanno poi un altro effetto temibile: rappresentano degli insiemi, individuano delle categorie, ti collocano da una parte o dall’altra del confine: e gli effetti perniciosi di un uso in mala fede di questo meccanismo vanno ben oltre la mancata comunicazione, ma di questo parlerò in un articolo successivo…