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Esseri umani o robot?


Mi capita spesso di sentire associare uomo ed emotività: quando ci si lascia andare alla rabbia, alla paura, alle pulsioni si tende a giustificare l’accaduto dicendo che siamo esseri umani, non degli aridi robot.

Secondo questo punto di vista una macchina non ha emozioni, non perde mai il controllo.

Ma sei proprio sicuro che abbandonarsi alle emozioni sia indice di umanità? Non è invece un chiaro indice di roboticità? Gestire freddamente una situazione potrebbe sembrare di primo acchito poco umano ma, se ci rifletti, è invece la reattività meccanica ad esserlo.

Una macchina segue le ferree regole che legano input e output, e per quanto complesse esse siano, sono sempre deterministiche e prevedibili.

E quanto di più prevedibile puoi trovare del nervoso automobilista del lunedì mattina che lancia improperi contro i due ciclisti che marciano affiancati impegnando l’intera corsia? Non si tratta in questo caso di una reazione meccanica che lega ciecamente l’input all’output? Dove si trova l’essere umano qui?

Ciò che distingue l’uomo dalla macchina non sono le emozioni, perché esse non sono che segnali chimici che inducono dei comportamenti nel primo così come i segnali elettrici possono indurli nella seconda, ma la consapevolezza.

La consapevolezza genera controllo, comportamenti più funzionali, meno automatici. Comportamenti che è facile attribuire a freddi robot da chi vive nel mondo reattivo dell’inumana inconsapevolezza.

L’incompletezza Gödeliana, che göduria!


Nell’articolo precedente ho esposto alcune limitazioni della logica, strumento principe utilizzato dalla mente occidentale per effettuare ogni tipo di valutazione; voglio adesso giocare il carico da dieci.

Non intendo tediarti con pesanti disquisizioni matematiche, impresa che peraltro non sarei in grado di portare avanti in modo rigoroso, quindi rimarrò sul piano metaforico: supponiamo che tu sia invitato ad una festa organizzata da un amico, il quale ti ha informato che saranno presenti sei uomini e quattro donne, tu e lui compresi.

Da questa informazione iniziale puoi dedurne altre:

  • in totale sarete in dieci
  • i maschi saranno meno delle femmine
  • non è vero che le femmine saranno più dei maschi
  • non sarà possibile effettuare balli di coppia senza lasciar fuori qualche maschio
  • ecc.

Ovviamente le deduzioni hanno valore fintanto che la proposizione iniziale rimane vera: assumendo che il tuo amico sia affidabile, ti senti di poter mettere tranquillamente la mano sul fuoco circa la validità delle tue deduzioni: è un po’ come se tutte quelle informazioni fossero già implicitamente presenti nella prima.

Ebbene, tutta la matematica ragiona così: esistono poche informazioni iniziali, assunte per vere data la loro ovvietà (ma già qui si potrebbe discutere), e a partire da queste si costruisce l’enorme impianto teorico che poi ci viene freddamente propinato sui banchi di scuola.

Si parte dunque da un limitato insieme di enunciati (“saranno presenti sei uomini e quattro donne”), su questi si applicano delle regole per derivarne altri (“i maschi saranno meno delle femmine”), e poi si usano gli strumenti della logica per capire se sono veri o falsi.

Detto in altri termini, a partire da un insieme di affermazioni iniziali (e una serie di regole combinatorie) puoi derivarne un insieme più grande; tutte saranno valide dal punto di vista lessicale, ma solo alcune saranno vere (ad esempio, “le femmine saranno più dei maschi” è valida dal punto di vista lessicale, ma non vera in base all’assunto di partenza).

I matematici fino ai primi del novecento avevano un obiettivo ambizioso e, visto col senno di poi, presuntuoso: fissare un numero di affermazioni iniziali ritenute vere senza bisogno di dimostrazione perché ovvie (assiomi) e su queste costruire tutto l’impianto teorico della matematica; il capofila di questa missione era il tedesco David Hilbert.

Ma ecco improvvisa la doccia fredda, come un fulmine a ciel sereno; nel 1929 un altro matematico (l’austriaco Kurt Gödel, il mio mito) se ne esce fuori col suo teorema di incompletezza che sancisce in modo definitivo: non è proprio il caso di sbattersi ulteriormente nell’impresa, perché è logicamente impossibile!

Curioso vero? I limiti della logica dimostrati usando la logica stessa.

Insomma, Gödel dimostra che non è possibile, nemmeno in linea di principio, stabilire un elenco di affermazioni iniziali dalle quali poi si possano dedurre la verità o falsità di tutte le altre: esisterà sempre un’affermazione che sappiamo essere vera ma senza poterlo dimostrare!

Come facciamo allora a sapere che è vera? Perché usiamo informazioni aggiuntive che non appartengono all’elenco di partenza, e quindi “vediamo” cose che il sistema di affermazioni e deduzioni non “vede”; noi osserviamo la questione “dal di fuori”: ecco i vantaggi dell’essere distaccati.

Beh, dirai, ma allora è semplice: basta aggiungere questa affermazione mancante all’elenco, ed ecco che tutto va a posto…

Eh no, controbatte l’amico Kurt: è sempre possibile trovare un’altra affermazione, sintatticamente valida, di cui non si riesce a dimostrare la verità restando entro i limiti del sistema di assiomi, ma che noi sappiamo essere vera.

Non so se mi hai seguito fino in fondo, ma la portata di tutto questo è eccezionale!

Intanto dimostra che la nostra intelligenza va oltre la logica, perché riesce a vedere realtà non raggiungibili da una fredda sequenza di deduzioni; in secondo luogo ci tranquillizza su catastrofici scenari futuri nei quali i computer prendono il sopravvento: finché si baseranno su ferree procedure booleane rimarranno dei meri, stupidi servitori.

Ma soprattutto evidenzia che l’essere umano è dotato di un dono, la creatività, che va oltre ogni logica (per l’appunto!).

Ciò che più mi fa riflettere su tutto questo è il modo in cui Gödel è riuscito a dimostrare il suo teorema; non ho le conoscenze né le capacità per spiegartelo in modo rigoroso, ma ha a che fare con l’autoreferenzialità: è riuscito a trovare, usando le regole del sistema, un’affermazione che parla di sé stessa (alla guisa della famosa citazione di Parmenide “questa frase è falsa”).

Questa situazione circolare ha mandato in tilt il sistema dimostrandone la debolezza, un po’ come un programma per computer che entra in loop bloccandosi; eppure, per arrivare a dimostrare questo, noi esseri umani siamo in qualche modo in grado di aggirare queste limitazioni… e mi piace pensare che è proprio in questa sorta di capacità di essere autoreferenziali che risiede la nostra potenza!

L’auto coscienza, l’auto osservazione, la consapevolezza di sé è lo strumento per mandare in tilt gli auto… matismi (!) e prendere finalmente il controllo della nostra vita, affrancandoci dalla schiavitù dei programmi mentali che ci hanno installato nel tempo attraverso l’educazione.

Temi forse che questo ti possa condurre alla pazzia? Il rischio è concreto, finché rimani aggrappato alle certezze della logica…

Analogico o digitale? Ovvero: olismo o riduzionismo?


Questo articolo vorrebbe declinare in parole un pensiero che ho nella testa, ma il contenuto stesso di quanto desidero trasmetterti mette in discussione la possibilità che io riesca a farlo… insomma mi trovo di fronte ad un paradosso, ad ogni modo ci provo.

Qualche giorno fa ho assistito ad una conferenza al festival della scienza nella quale si raccontava degli strumenti matematici, e dei rispettivi scopritori, di cui Einstein si è avvalso per dimostrare la sua teoria della relatività; al termine, al consueto giro di domande da parte del pubblico, una mi è sorta spontanea: perché mai il linguaggio matematico si presta così bene a descrivere i fenomeni fisici? In altri termini: perché la natura comunica con noi attraverso il linguaggio della matematica?

Le risposte dei relatori mi hanno convinto della affidabilità di questo strumento, ma non hanno dato ragione del perché, né mi aspettavo che fosse possibile farlo: in effetti la domanda sconfina molto nel campo delle speculazioni filosofiche più che della scienza.

Argomento archiviato; senonché stamattina, parlando di tutt’altro con mia moglie, è venuta fuori questa considerazione: secondo i recenti studi di fisica quantistica, che hanno poi riscoperto in forma nuova tradizioni e conoscenze millenarie, il mondo sarebbe un sistema unitario, olistico, di cui noi facciamo parte; la nostra sofferenza discenderebbe quindi unicamente dal fatto che noi ci sentiamo separati da esso, e non parte integrante.

nubi sole

 

Secondo questa visione percepiamo il mondo come noi da un lato, gli altri dall’altro; il tutto viene scomposto in parti, ma è solo un’operazione di comodo, la realtà è ben diversa.

E perché mai abbiamo bisogno di questa suddivisione? In altri termini: perché abbiamo l’esigenza di introdurre una separazione dove non esiste al fine di lasciar emergere la comprensione nel nostro campo di consapevolezza?

Detto diversamente: la realtà è analogica, un tutto unico, e noi dobbiamo vederla come digitale per poterla comprendere; lo stesso linguaggio verbale che usiamo per descriverla viene definito digitale, proprio perché scompone in pacchetti la realtà creando degli scomparti (di comodo, artificiali) e appiccicandovi sopra delle etichette (‘libro’, ‘sedia’, ‘fame’, e così via), a differenza di un disegno che invece descrive la realtà per analogia.

Insomma, la realtà è un fenomeno continuo che noi approssimiamo con un modello discreto.

Sembrerebbe che per poter interpretare il mondo, e comunicarlo ad altri, una parte del nostro cervello (l’emisfero sinistro) abbia bisogno di questa operazione di digitalizzazione, un po’ come un’immagine viene scomposta ed impacchettata in sequenze di bit e byte per poter essere trasferita attraverso l’etere da un cellulare all’altro.

Improvvisamente, con mia grande sorpresa ho notato come questa osservazione fosse di fatto la stessa, anche se vista da un’altra angolazione, che feci giorni addietro alla conferenza: la matematica non è altro che un processo di digitalizzazione della realtà di cui ci serviamo per poterla interpretare e, per qualche strana ragione, noi non saremmo in grado di comprendere il mondo senza questa preliminare operazione di ‘scomposizione in fattori’.

O meglio: è la nostra mente razionale, quella che ci fornisce la consapevolezza di esistere, ad averne bisogno; il nostro senso del sé necessita di approssimare la realtà analogica con un modello digitale, artificioso, al fine di interagire con esso. Ma è solo un artificio, in ultima analisi un’illusione!

Questa considerazione mi affascina non poco, e mi chiedo se possa esistere una strada per arrivare a comprendere senza usare questa finzione: sento in cuor mio che la risposta è affermativa, e che la strada in questione porta ad una sorta di illuminazione liberatoria e catartica, ma so che nel momento in cui la trovassi, per sua stessa natura, mi troverei nell’impossibilità di descriverla utilizzando gli strumenti digitali di questo blog: ti invito perciò a trovare la tua personalissima via per capire come è fatta la realtà che ti circonda, al di là della matrix.

Pensiero analitico e scacchi


I computer moderni hanno raggiunto livelli di sofisticazione tali da poterci quasi illudere di surclassare il cervello umano; in alcuni articoli precedenti ho trattato, se pur di sfuggita, l’argomento dell’intelligenza, ed in particolare di come esistano diversi livelli di elaborazione del pensiero.

Voglio ora prendere spunto dai programmi di computer che giocano a scacchi per presentarti un divertente caso in cui il pensiero analitico, così come lo intendiamo comunemente, si rivela insufficiente. Se tu dovessi creare un programma del genere, che strada seguiresti? Come troveresti una regola automatica per stabilire la prossima mossa?

Ora ti dico quale sarebbe il mio approccio.

Primo: trovare un criterio per assegnare un punteggio all’attuale disposizione dei pezzi, uno per il bianco e uno per il nero; complicato in pratica forse, ma facile in linea di principio: un giocatore di scacchi di livello medio non avrebbe grosse difficoltà.

Secondo: simulare una prima mossa, e ricalcolare i punteggi; confrontandoli con i precedenti, possiamo avere un’idea della bontà di quella mossa, ad un livello di profondità uno.

Terzo: poiché un tale grado di analisi è un po’ pochino, ci addentriamo ulteriormente nei meandri delle possibilità, simulando una contromossa dell’avversario; anche qui calcoliamo i nuovi punteggi. Possiamo scendere a piacere nei livelli di profondità, applicando ricorsivamente il criterio di valutazione esposto, arrivando ad esempio a calcolare un migliaio, o un milione, di mosse; ovviamente, dopo ogni bivio si creano altri bivi, venendosi a delineare una sorta di albero delle mosse possibili. I limiti di questo approccio sono rappresentati solo dalle capacità di calcolo dell’elaboratore, che agli standard attuali possiamo ritenere molto elevate: i computer sono velocissimi ad eseguire questo tipo di operazioni, enormemente più veloci del cervello umano.

Quarto: ripetiamo questo processo per tutte le mosse possibili, attribuendo ad ognuna un punteggio; quindi, eseguiamo quella dal punteggio più elevato.

Ecco fatto, il nuovo programma è pronto a sfidare i migliori campioni del mondo. Abbiamo appena usato al meglio le nostre capacità di pensiero analitico, prestandole al computer ed istruendolo per usare queste semplici regole.

Ora ti mostro un caso simulato che è stato in passato presentato a Deep Thought, l’allora migliore programma di scacchi. La mossa spetta al bianco.

stilldiagram

Ad un occhio umano risulta subito evidente la schiacciante superiorità del nero, il quale, tuttavia, è bloccato dai propri stessi pezzi. Sai cosa ha fatto il computer in quella situazione? Ha mangiato la torre col pedone, liberando la via ai pezzi dell’avversario!

Evidentemente, per quanto in profondo si sia addentrato nell’analisi delle possibilità, non è stato in grado di capire che l’unica scappatoia era quella di lasciare i pedoni dove stavano, e muovere ripetutamente il re fino ad ottenere la patta. Ma questo implica comprensione della situazione, mentre avere un elenco di regole da applicare ciecamente non significa comprendere.

Ed il programma che abbiamo appena creato? Anche applicando all’infinito la sua bella procedura, non arriverà mai ad individuare la giusta mossa.

Ti è mai capitato di non riuscire a districarti in un problema, di ritrovarti sempre al punto di partenza con le stesse soluzioni evidentemente non adeguate? Probabilmente sei finito nella trappola del pensiero analitico, che ti vincola in binari predefiniti precludendoti lo scatto di comprensione.

E’ proprio in queste situazioni che si rivela più che mai utile uscire dal solco, ricordandoci che siamo esseri umani.

Riferimenti bibliografici:

Roger Penrose – Ombre della mente. Alla ricerca della coscienza

L’intelligenza dei computer


I computer sono stupidi.

A dispetto di quanto vuol farci credere la cinematografia nella quale ci si affida spesso al responso del cervello elettronico, i computer non sanno fare più di ciò per cui sono stati istruiti. Paragonati ad un essere umano, sono in grado di farlo molto velocemente: è questo che regala loro un’aura di pseudo intelligenza.

I computer funzionano grazie a programmi, codificati da esseri umani. A volte esistono programmi che creano altri programmi, in una catena che può anche essere anche lunga, ma risalendola a ritroso si arriva sempre ad un’origine di natura umana.

Riducendolo ai minimi termini, un programma per computer può essere ricondotto alla seguente sequenza:

Se si verifica questo
  allora fai questo
altrimenti se si verifica quest'altro
  allora fai quest'altro
...
altrimenti se ti hanno detto di terminare
  allora termina
altrimenti ripeti dall'inizio

Ovviamente la sequenza di se… allora… è mostruosamente lunga, ma questo non aggiunge complessità al modello.

Risulta subito evidente un fatto: se si verifica un evento non previsto, il programma non sa che fare; non riuscendo a gestire la situazione si bloccherà, andrà in errore, o semplicemente ignorerà il fatto.

Il programma viaggia lungo solchi rigidi ed immutabili.

Il cervello umano è diverso, in particolare quello dei bambini. Il cervello umano crea nuove regole in base all’esperienza ed agli errori. In pratica è un programma che si auto adatta, pur se non strutturato nella maniera rigida schematizzata sopra. Il cervello umano può permettersi di ignorare tutte le istruzioni, per inventarsene una nuova sul momento. Il cervello umano ha il grosso vantaggio di poter sbagliare.

Che gli succede col passare del tempo? Col passare del tempo tende a comportarsi come il programma. Mano a mano che cresce l’esperienza, che gli accadimenti quotidiani possono essere ricondotti a modelli già visti, entra in gioco l’automatismo, molto efficiente perché permette di dare una risposta quasi immediata allo stimolo esterno.

Il cervello diventa infallibile nell’ambito di un certo dominio applicativo: fornisce risposte immediate ed invariabilmente corrette. Ma stereotipate ed in ultima analisi stupide.

capricci_e_computer

Le risposte di un anziano sono molto meno originali di quelle di un giovane, e spesso le idee di quest’ultimo sono giudicate errate dal primo perché da lui non catalogabili nella sequenza di istruzioni del proprio programma.

L’anziano ha molte più probabilità del giovane di “andare in blocco”, perché col tempo dimentica di avere la possibilità di auto aggiornarsi, immerso com’è nella presunzione alimentata dai propri successi.

In parole povere, invecchiando si tende a diventare stupidi. Ma non a causa di deficit mentali, demenze senili o affini, ma della propria presunzione e pigrizia che offrono rifugio nel confortevole calore delle abitudini.

Occorre un grosso sforzo di volontà per non cadere nella trappola, ma è l’unico modo per non invecchiare sul serio.