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Il lutto e l’obbligo di essere infelici


Mio padre è morto quando avevo tredici anni; di quell’evento è rimasto scolpito nella mia memoria un episodio che voglio ora condividere con te.

Un assolato pomeriggio di settembre, a pochi giorni dalla data dell’improvviso decesso, io cercavo di tirarmi fuori dal dolore che mi attanagliava da ogni parte, circondato da persone in preda alla disperazione che, per dimostrarsi partecipi al dramma, non facevano che ricordarmi di essere triste. Non avevo bisogno del loro aiuto, in ogni caso.

Quel giorno la casa era piena di gente che accorreva a sostenere mia madre, che piangeva in continuazione, ed io ero in cortile con un amico che provavo a distrarmi; decidemmo di dedicarci al gioco che allora eravamo soliti fare: uno dei due intonava un motivo, e l’altro doveva dire qual era il titolo della canzone.

Fu il mio turno di intonare qualche nota, e proprio in quel mentre passava vicino a noi una vecchia comare che veniva in visita al capezzale, la quale, sentendomi, ebbe la saggezza di sussurrare con parole dal contenuto tonante: “silenzio, non si canta, è morta una persona”.

Mi sentii redarguito, mi sentii una brutta persona: cantavo e ostentavo allegria a pochi giorni dal decesso di mio padre.

Io avrei voluto che andassero tutti via, non avevo bisogno della loro presenza, del loro cordoglio: avrei solo voluto tornare alla vita di tutti i giorni, ed era proprio ciò che avevo maldestramente tentato di fare in quel pomeriggio.

Avevo bisogno di allontanare la tristezza, non di alimentarla.

Da allora mi è rimasta dentro l’assurdità di certi atteggiamenti, ed in questo giorno di lutto per il crollo del ponte a Genova non posso che riportare alla mente quel ricordo, che testimonia quanto sia stupidamente dannosa la nostra morale.

Già, perché da oggi e per due giorni non ci saranno feste, eventi, manifestazioni: in alcuni casi per ragioni di ordine pratico, ma nella stragrande maggioranza degli altri per solidarietà al dolore delle vittime; come dire: visto che voi siete infelici, aggiungiamo alla vostra infelicità pure la nostra, perché la vostra pare poca, e nel caso decidiate di tirarvi fuori dal vostro stato di disperazione cercando uno svago, beh abbandonate pure l’idea: sarebbe immorale, in questi giorni è d’obbligo la tristezza. In questi giorni essere felici è pubblicamente deprecato.

Per non parlare poi di quelli che approfittano ipocritamente dell’occasione per sfogare la loro frustrazione facendo polemica, cercando colpevoli, riempiendosi la bocca di altisonanti parole come ‘tragedia annunciata’.

Mi chiedo come si possa continuare a ragionare in questo modo, come si possa continuare ad abbandonarsi in modo più o meno velato all’autocommiserazione e al piagnucolante stato di dolore.

Per quel poco che vale l’esperienza di un ragazzino tredicenne non ancora prigioniero dei precetti dettati dal retto comportamento del mondo adulto, posso affermare questo: le persone in difficoltà hanno bisogno di energia positiva, e non che si riversi su di loro la negatività che è in noi.

Tutto questo ti pare cinico? No, il cinismo è indifferenza verso il dolore degli altri, ed io non sono indifferente: credo solo che ci siano modi più sani di mostrarci solidali; a chi cade da cavallo va offerta una mano per risalire, accasciarsi lamentosi accanto a lui non giova a nessuno, perché non fa che aggiungere dolore al dolore: e quest’ultimo atteggiamento non è cinismo, ma sadismo o masochismo mascherati.