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Perché?


La mente razionale è in perenne ricerca di spiegazioni. Trovare le cause di ciò che succede tranquillizza, dà la sensazione di avere il controllo della situazione, come se questa conoscenza fosse strettamente collegata alle leve di comando.

In realtà si tratta di una conoscenza a posteriori, che nella migliore delle ipotesi spiega ciò che è accaduto ma non dice alcunché di ciò che accadrà: non è infatti per nulla scontato che gli eventi si ripeteranno nella stessa maniera in futuro.

Eppure noi ci crogioliamo in questa sicurezza illusoria. Ma la ricerca dei perché è un’abitudine parecchio insidiosa che dovrebbe farci sentire tutt’altro che al sicuro.

Il pericolo maggiore sta nel fatto che la ricerca dei perché ci lega al passato: crea delle regole, spesso implicite, che vincolano inesorabilmente, nell’immaginario, gli esiti futuri delle nostre azioni, o il nostro modo di essere rispetto a ciò che è stato.

Lasciami banalizzare con un esempio: se ho preso il mal di gola perché sono uscito in bici sotto la pioggia, e nella mia mente si consolida questa associazione fra causa ed effetto, in futuro eviterò di ripetere l’esperienza.

Ma l’uscita, che secondo la mia idea ha causato il male, è solo una delle possibili concause, mica l’unica: forse quel giorno avevo il sistema immunitario fragile, forse ho incrociato qualcuno che aveva appena starnutito nell’aria tutti i suoi bacilli, forse ho tenuto i capelli bagnati dopo la doccia… forse… forse…

Se prendo l’abitudine di aspettarmi che succeda l’evento B ogni volta che compio l’azione A, rischio di non fare mai A, o di farlo ripetutamente, a seconda che B sia o meno spiacevole. O peggio: se l’evento A, che si è verificato nella mia infanzia, è il perché di certi miei modi di essere, non arriverò mai a pensare di poter cambiare; se ad esempio sono timido perché da bambino ho avuto poche occasioni di interagire con gli altri, mi rassegnerò a rimanerlo per sempre.

Come già affrontato in un altro articolo, piuttosto che andare alla sterile ricerca di cause passate è molto meglio guardare ai possibili scopi futuri. I perché sono la causa prima della nostra burocrazia mentale: ognuno di questi elimina incertezza, ma scava un solco all’interno del quale si rischia di rimanere impantanati.

Le insidie della comfort zone.

Causa o scopo?


Mio figlio chiede a mia moglie: “perché ci sono quelle nocciole sbucciate nel piatto?” risposta: “perché devo preparare una torta da portare ai nonni”.

Una risposta alternativa, sarcastica e per nulla divertente che subito mi è venuta in mente è stata: “perché le ho sbucciate e le ho posate lì”, e questo mi ha fatto riflettere sulla diversa natura delle due affermazioni.

E’ evidente come la seconda sia una non risposta, perché è lapalissiana e non soddisfa la curiosità iniziale; ma se estendiamo questo ragionamento ad altri contesti, ci rendiamo  subito conto che la banalità viene meno, e questo tipo di risposte ‘inutili’ sembrano le uniche plausibili.

Mi spiego meglio: la risposta di mia moglie è centrata sullo scopo che le nocciole nel piatto soddisfano, mentre la mia è centrata sulla causa che le ha messe lì. La prima guarda al futuro, la seconda al passato.

Ebbene, quando chiedi al tuo medico di base perché hai certi malesseri fastidiosi, che risposta ti aspetti? Ovvio, una risposta del tipo: “perché è successa la tal cosa che ha provocato questo e quest’altro”. Cause, non scopi.

In questo caso sembrerebbe addirittura assurdo ragionare diversamente, e se la risposta del dottore fosse stata: “perché hai un rifiuto per il tuo lavoro e domani non vuoi andare in ufficio”, ti avrebbe lasciato con un vago senso di insoddisfazione e sarebbe apparsa senz’altro poco credibile, poco scientifica: a te interessano le origini dei malesseri, non le loro implicazioni.

E se invece anche in questo caso il perché giusto da ricercare fosse del primo tipo? Se la domanda corretta fosse: “a cosa mi serve questa malattia”? Se ragionare sugli scopi invece che sulle cause, sulle destinazioni invece che sulle provenienze, sul futuro invece che sul passato, fosse l’approccio più efficace?