Un buon capo deve essere al servizio dei propri collaboratori, deve guidarli ed indirizzarli, avendo come faro guida l’obiettivo lavorativo che insieme si vuole raggiungere; quando si comporta così, allora cessa di essere un mero capo e diventa un leader. In tutto questo il potere non entra in gioco: essere leader significa prima di tutto avere delle responsabilità.
Troppo spesso invece ci troviamo di fronte a semplici capi nel senso riduttivo del temine, che pensano prima di tutto a soddisfare le proprie esigenze egoiche di supremazia; cedere spazio decisionale ai propri collaboratori è da loro visto come una pericolosa apertura verso la perdita di prerogative, preludio per la venuta meno del ruolo a cui tanto sono attaccati.
Da questo nasce il senso di frustrazione dei collaboratori, che cessano di formulare pensieri propri e si piegano ad esprimere ciò che immaginano che il capo si aspetti da loro (quanti livelli di costruzione mentale di una realtà inesistente in tutto questo!).
L’obiettivo vero cessa di essere quello dichiarato, ma diventa surrettiziamente la soddisfazione delle esigenze del principe. E la frustrazione provoca malessere diffuso in tutto il gruppo di lavoro, al cui interno si vengono a creare conflitti fra pari, guerre fra poveri sobillate dal malato desiderio auto celebrativo del vertice.
Quanto scrivo è piuttosto demagogico, ed immagino sia facile trovarti d’accordo con me, a patto che tu sia dalla parte del collaboratore (ma finiamola con queste ipocrisie: chiamiamolo pure dipendente). Se è così, non ti sentirai minimamente tirato in ballo dal mio dito puntato, ed annuirai deciso col capo.
Col capo?
Curiosa questa ambivalenza terminologica, vero? Beh, non si tratta affatto di ambivalenza; e se in questo discorso ti senti privo di ogni responsabilità, allora stai sbagliando: perché anche tu sei un capo, ed un capo ben più importante di quello di cui ho fin qui parlato solo a scopo metaforico.
Intendiamoci, parlo usando la seconda persona solo per catturare la tua attenzione: in realtà non posso permettermi di esprimere alcunché su di te, le mie sono solo proiezioni; la verità è che sto parlando di me, con me, che ho in passato ricoperto il ruolo di capo egoico sul lavoro e lo sto tuttora ricoprendo nel rapporto interiore.
Ma torniamo a parlare di te; quante volte ti fermi ad ascoltare i segnali provenienti dal tuo corpo? Quante volte ti prendi cura di esso, assumendo decisioni che vadano nella direzione del suo benessere globale e non del mero appagamento del tuo edonismo? Non ti rendi conto che la tua attenzione è concentrata solo sui tuoi pensieri, sulle tue preoccupazioni, sulle tue aspettative, in pratica è cortocircuitata all’interno della mente, e non si rivolge al tuo essere nella sua globalità?
Ogni cellula del tuo corpo possiede una propria intelligenza, e te lo dimostra ogniqualvolta di procuri una ferita, che guarisce miracolosamente anche se tu, ipotetico depositario del sapere supremo, non fornisci alcuna indicazione sul da farsi.
Hai a disposizione una vastità di validi collaboratori: miliardi di cellule dotate di intelligenza, organizzate in organi, strutture, sistemi complessi. Un’enorme ricchezza, un’azienda ben avviata che tu porti al fallimento, prostituendola alle follie della mente.
Non ti rendi conto di essere pure tu in questa situazione? E la posta in gioco qui non è il budget aziendale, ma la tua vita! Non sarà forse il caso che la tua mente, capo egoico per eccellenza, inizi finalmente a delegare e la smetta una volta per tutte di spadroneggiare seminando disagio e malcontento?