Questo articolo è per te, che ti rassegni allo status quo anche se vorresti tanto che cambiasse.
Forse penserai: come posso io, piccolo piccolo, influenzare un mondo tanto più grande di me?
Ebbene, probabilmente hai ragione. Probabilmente quel tuo piccolo gesto non farà la differenza.
Là fuori.
Già, perché permettimi di farti osservare un fatto: stai guardando nel posto sbagliato.
E’ vero, il tuo gesto non cambierà le cose là fuori, ma ciò che importa è il cambiamento che avverrà in te. E proprio perché sei piccolo piccolo, sarà un cambiamento enorme.
Mettilo in atto anche se ti sembra inutile e ti provoca tante resistenze, vai contro ogni razionalità e, cazzo, fallo a dispetto di tutto!
E poi ascolta come ti senti, ascolta le tue emozioni. Hai paura? Provi qualche altro genere di fastidio?
La fuori il cambiamento potrà essere impercettibile, ma dentro di te, se sei rimasto consapevole durante il processo, si saranno verificate trasformazioni gigantesche!
Così grandi che, una volta che le avrai interiorizzate e ne avrai preso coscienza, non ti importerà più nulla che il mondo là fuori cambi.
Lo so, me ne rendo conto: sono solito perdermi in infinite masturbazioni cerebrali. La buona notizia è che godo un sacco, e in piena autonomia.
Con questa freddura mi piace introdurre un tema che mi è caro: andare oltre i propri limiti.
Quante volte mi è capitato di ritrovarmi al punto di partenza, dopo innumerevoli sforzi per cambiare qualcosa che non mi piace! Che frustrazione, sentirmi in un circolo vizioso dal quale non riesco a uscire, imbrigliato nell’incantesimo dell’eterno ritorno.
Poi, nel mio percorso formativo, mi imbatto nel paradosso del cambiamento: accettarsi come punto di partenza per cambiare. Capisco così che i limiti non vanno superati, quello è solo un puerile atteggiamento della mente: i limiti vanno trascesi.
Trascendere significa ampliare il proprio spettro di analisi, aggiungere una dimensione, sopraelevarsi sul labirinto.
Già, perché se ragiono solo in due dimensioni, effettivamente sono in un circolo chiuso da cui non posso uscire; il problema però non sta nel circolo, ma nello spazio angusto in cui mi sono arbitrariamente costretto.
Che succede se aggiungo una terza dimensione? Ecco che quel circolo, grazie alla sua stabilità che tanto mi turbava, diventa un affidabile mattone con cui posso costruire qualcosa, nello spazio più ampio nel quale mi rendo ora conto di trovarmi.
Passaggio da 2D a 3D
O magari capisco che non è affatto un circolo, ma una ‘molla’ che si innalza verso l’alto, lungo la terza dimensione, solo che non me ne accorgevo a causa della mia visuale limitata, perché una molla vista dall’alto si riduce a un cerchio. Scopro allora che non torno mai al punto di partenza, sto invece crescendo lungo una direzione che non avevo considerato.
La molla appiattita
Trascendere significa aggiungere una dimensione al problema, vederlo in una prospettiva più ampia, chiedendosi: “come posso sfruttare questa situazione che non posso cambiare?” oppure: “che insegnamento posso trarre da questa situazione? Cosa dice di me?” oppure ancora: “che vantaggio secondario garantisce questa situazione? Quale secondo fine persegue il mio inconscio mantenendomi inchiodato nello status quo?
Arrivo così a comprendere che non c’è limite al numero di dimensioni che posso aggiungere, e che il processo di crescita mi porta a sentirmi sempre e comunque stretto entro i limiti in cui mi trovo.
Ma questa non è che l’ennesima masturbazione cerebrale: torniamo così al punto di partenza.
Su un’ottava più elevata.
Conto quanto Kunta Kinte E in quanto Kunta Kinte canto Sulla mia schiena è stato tatuato un numero La mia catena è come un filo del telefono La mia condanna è che se mi fermo mi uccidono La mia fortuna è che sto camminando in circolo Sono primo io e sono l’ultimo È un fatto tipico Del gioco ciclico del ritmo mantrico
Quel muro andrebbe abbattuto; separa due stanze troppo piccole, inutilizzabili; rimuovendolo, invece, si ricaverebbe una camera da letto molto spaziosa.
Occorre però spostare tutti i mobili, da qualche parte bisogna pur metterli. L’idea della polvere che normalmente accompagna l’operato dei muratori assetati di distruzione, poi, mi terrorizza. E poi ci sarà da ridipingere le pareti. Odio dipingere le pareti! Senza contare che, lavori a parte, il cambio di destinazione di quelle due stanze mi costringerebbe a cascata a ridisegnare il layout dell’intera casa.
Insomma, che situazione complicata: lo status quo non mi soddisfa, immagino che a lavori ultimati starei molto meglio, ma la prospettiva di attraversare la fase destabilizzante della ristrutturazione mi blocca in una situazione di stallo.
Vorrei cambiare, ma non posso. Cosa mi frena in definitiva?Da dove nasce la mia paura del cambiamento? Posso individuare un motivo più fondamentale sotteso alle mie dinamiche più o meno inconsce?
Per quanto mi riguarda, direi di sì. Non sono le paure di soffrire, di faticare o di sbagliare a frenarmi, ma qualcosa di più fondamentale: in quanto essere biologico sono un sistema omeostatico, un sistema che tende al raggiungimento dell’equilibrio e al suo mantenimento. Per questo mi è così difficile cambiare: per farlo bisogna abbandonare la situazione di equilibrio (che si potrebbe altrimenti definire zona di comfort), attraversare una fastidiosissima e per nulla desiderata fase di sbilanciamento, per poi raggiungerne un’altra.
Non so se c’è, ma mi convinco che c’è, ci dev’essere per forza… chissà come sarà poi? Migliore o peggiore di quello attuale? E non mi rendo conto che in fondo non importa nulla, perché quello che alla fine più interessa alla mia macchina biologica non è stare bene, ma stare in equilibrio senza troppi sforzi. Non accetterei mai il nirvana a condizione di stare perennemente su una corda tesa e dieci metri da terra.
Perché come forse saprai l’equilibrio può essere stabile, instabile o indifferente: nelle specie di primo tipo lo stato del sistema tende a ritornare al punto di partenza, e può essere necessario applicare una forza molto grande per discostarsene definitivamente.
E siccome, ahimé, sono una persona assai equilibrata, mi trovo in svariate situazioni di vita in questa condizione. E conosco tante, troppe persone come me, che rimangono in situazioni scomode, talvolta foriere di sofferenza, ma dotate a loro modo di un marcato equilibrio e pertanto difficili da abbandonare.
Estremizzando provocatoriamente (ma non troppo), anche lo stato di chi subisce quotidianamente violenza (fisica o psicologica che sia), a ben analizzarlo, può rappresentare una condizione di equilibrio stabile, che si può raggiungere anche solo per reiterazione, una ripetizione che scava quel solco profondo, che chiamiamo abitudine, dal quale difficilmente la pallina riesce ad allontanarsi.
Mi capita sovente di leggere articoli o seguire video di coaching o crescita personale; qualcosa accomuna gran parte di questi: al loro termine mi sento profondamente inadeguato.
Il tono del messaggio è di solito il seguente: se vuoi raggiungere degli obiettivi, devi essere disposto a metterti in gioco; smettila di dare la colpa al mondo per i tuoi insuccessi ed inizia a lavorare su ciò che puoi fare tu per migliorare. Quanto ti stai allenando veramente? Vuoi davvero essere felice, o in fondo hai paura di ciò che potresti raggiungere? Non nasconderti dietro a dei ‘non ce la faccio’, hai molte più risorse di ciò che credi. Rimboccati le maniche, non sprecare il tuo tempo.
Tutte sacrosante verità. Ansiogene, sacrosante verità.
Il problema è che dopo averle sentite mi deprimo, perché leggo in esse un retro messaggio: guarda che così come sei non vai mica tanto bene! Anche se il loro intento è buono, finiscono inevitabilmente col farmi sentire in difetto. Il che è ovviamente vero, ed è tautologicamente legato al fatto che non sono come vorrei essere, ma questo già lo so da me, grazie… altrimenti impiegherei il mio tempo diversamente e non mi porrei il problema di evolvere.
Ma vediamo la questione da un altro punto di vista; per me crescere è un po’ come fare l’esploratore.
L’esploratore parte sempre da un campo base: è il rifugio dove sa di poter tornare in caso di bisogno. Qui si prepara, si mette in forze, quindi si spinge fuori per poi farvi ritorno al termine dell’impresa. Mette assieme le informazioni racimolate durante l’attività esplorativa e valuta se spostare il campo un po’ più in là, per ampliare gli orizzonti del mondo conosciuto. Non si sognerebbe mai di avventurarsi fuori, esposto alle intemperie e ai pericoli dell’ignoto, se non sapesse di poter fare affidamento su un posto sicuro in cui rifugiarsi.
L’evoluzione personale è l’impresa di un pioniere che necessita di una base sicura di partenza: e questa base sicura non può prescindere dall’accettazione di sé. Se ci sentiamo inadeguati, come possiamo trovare le forze per addentrarci nel mondo sconosciuto del cambiamento? Se percepiamo il nostro campo base come una tenda stracciata, piena di spifferi, nella quale entra la pioggia, come possiamo pensare di intraprendere un’efficace e determinata esplorazione dell’ambiente circostante?
Ecco dunque che entra in scena il paradosso del cambiamento: per poter cambiare, occorre preliminarmente accettarsi; accogliere con benevolenza gli aspetti di sé giudicati sbagliati, perché (anche) quello siamo noi, nel qui ed ora.
Accettare di essere ciò che non vorremmo più essere, che meravigliosa e magica contraddizione!
Già, magica: perché nel momento in cui entriamo nella quiete della resa (e non già della rassegnazione, bada bene), ecco che si liberano le energie per trascendere ciò che siamo, ed il cambiamento avviene spontaneamente, senza sforzi: come il bambino che, sicuro della presenza del genitore a pochi passi, si avventura nel mondo con gioia, senza paura.
Adesso sei cresciuto, quel genitore sei tu. Accogli con benevolenza il bambino che è in te, vedrai come ti stupirà. Ed allora evolvere non sarà più un problema, né un bisogno, ma un normale fluire dell’esistenza.
Ebbene sì, ho cambiato idea. Questo è un articolo, spero il primo di una lunga serie, in cui mi ricredo su quanto espresso in precedenza nel presente blog. Che si tratti di evoluzione o involuzione poco importa, comunque sia è un cambiamento e ciò mi basta.
L’articolo da cui voglio prendere le distanza è quello in cui dichiaro guerra a Silvio; da allora sono passati poco più di quattro anni, ma posso affermare con una punta di soddisfazione che la mia visione della vita è cambiata profondamente.
A quel tempo reputavo indispensabile eliminare una parte di me che costituiva un impedimento alla mia evoluzione, alla possibilità di essere me stesso. La chiamai Silvio, con un ben preciso intento di distacco; esternai il mio odio verso quel personaggio figurato, e gli dichiarai apertamente guerra.
Quello che allora non avevo però chiaro era che qualsiasi forma di guerra, pur se solo figurata, non porta da alcuna parte: combattere il nemico significa l’annientamento di entrambi; perché i nemici non vanno eliminati, vanno trascesi. E, trascendendoli, si può arrivare a comprendere che in fondo non sono davvero dei nemici e, forse forse, li si può persino trasformare in alleati.
Chi è dunque veramente Silvio?
Lo immaginavo un individuo egocentrico, narcisista, insicuro, subdolo, che agisce dietro le quinte con l’intento di mettermi i bastoni fra le ruote. Lettura molto dura ed aggressiva… tale da sembrare una creazione della mente di quel Silvio da cui tanto volevo prendere le distanze.
Invece Silvio non è nulla di tutto questo; è solo un bambino che ha bisogno di attenzioni. Coi bambini la linea dura non porta a nulla: se lui piange e tu gli urli di smetterla, quello piange ancor più forte. Occorre invece un approccio materno, comprensivo.
E’ vero, ogni tanto fa i capricci: vuole sentirsi dire che è bravo, vuole mettersi in mostra; vuole sentirsi accettato, compreso. E cosa ho fatto invece io? Mi sono messo a sgridarlo, ad additarne l’inadeguatezza, rimarcandola. Linea dura! Dichiarazione di guerra! Ma ti pare sensato?
Non so se hai mai visto il film ‘Il sesto senso’, nel quale il bambino protagonista viene continuamente spaventato dalla visione agghiacciante di persone morte: ebbene, questi fantasmi cercano solo di essere ascoltati, aiutati; e finché lui, terrorizzato, li rifugge, loro continuano a presentarsi. Alla fine però capisce che stanno solo chiedendo aiuto, e decide di ascoltarli; solo allora riesce a liberarsene.
La trovo una metafora squisita: Silvio è solo un fantasma, il fantasma del bambino che non ha ricevuto le attenzioni di cui aveva bisogno; e adesso le vuole da me, vuole che lo accetti, lo abbracci e gli dica: vai bene così come sei, stai tranquillo.
Solo allora, appagato, si dissolverà.
Ti ritrovi in questa situazione? Anche tu pensi di avere aspetti che non sopporti, che vorresti a tutti i costi cambiare, e che cerchi di nascondere e soffocare il più possibile? Ebbene, finché non li accetterai, questi continueranno a riaffiorare e a perseguitarti. Abbraccia il bambino imperfetto che è in te, e crescerete insieme.