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Pillole di counseling – Empatia


Una delle risorse più utili (direi indispensabili) per un counselor è sicuramente l’empatia, ossia la capacità di sintonizzarsi e comprendere gli stati emotivi e cognitivi del cliente.

Detto rozzamente e in parole povere, la capacità di mettersi nei panni altrui.

Secondo il famoso psicoterapeuta americano Carl Rogers, una delle mie principali figure di riferimento, l’empatia è uno dei tre pilastri su cui regge la relazione di aiuto, assieme all’autenticità e all’accettazione incondizionata (a questi ha poi affiancato, in un successivo stadio del suo percorso professionale, un quarto pilastro, la fiducia).

Le seguenti parole di Rogers rendono in modo efficace la sua concezione di empatia:

Posso entrare completamente nel mondo dei sentimenti e dei
significati personali di un altro, in modo da percepirli così
completamente da perdere ogni desiderio di valutarlo e di
giudicarlo? Posso entrarci in modo così sensibile da potermi
muovere liberamente, senza calpestare dei significati per lui
preziosi? Posso scrutarlo in modo così fine da poter afferrare
non solo i significati dell’esperienza per lui ovvi, ma anche
quelli che sono solo impliciti, che egli vede solo oscuramente o
confusamente? Posso estendere senza limiti questa
comprensione?

Personalmente ho spesso pensato che essere empatici nella vita quotidiana fosse una gran fregatura perché, soprattutto in caso di divergenza di interessi, si manifesta la tendenza a giustificare l’altro, a comprendere le sue ragioni fino, forse, a rinunciare alle proprie, o comunque a metterle in secondo piano. Insomma, vivevo l’empatia come una debolezza.

Mi sono spesso osservato nel tentativo di porre un freno la mia empatia, caricando la controparte di connotazioni negative talvolta posticce, perché quanto più riuscivo a disegnarlo ‘cattivo’ tanto più mi sentivo titolato a difendere le mie posizioni, anche a suo discapito.

Non appena iniziato il percorso che mi avrebbe portato a diventare counselor ho compreso la distorsione della mia visione, ed è stato uno degli aspetti che più mi hanno affascinato di un mondo fino ad allora per me sconosciuto.

Semplicemente mi mancava un pezzo.

Empatia significa sentire e percepire il mondo dell’altro come se fosse il nostro; le paroline chiave rimangono quasi in secondo piano in questa frase, e sono: ‘come se’.

Perché se entro nel mondo dell’altro perdendo di vista il mio allora non c’è più empatia, ma simpatia o confluenza. Io non esisto più, io sono diventato l’altro.

E’ invece di fondamentale importanza comprendere che prima di dare empatia all’altro occorre dare empatia a sé stessi, identificando i propri bisogni e sentimenti; poi metterli da parte provvisoriamente, entrare nel mondo altrui e rimanere sempre pronti, in ogni istante, a uscirne.

E’ semplice, ma non è affatto facile: il rischio di rimanere intrappolato è elevato, e per questo nella professione è di fondamentale importanza la supervisione, ossia il ricorso ad altri professionisti che aiutino il counselor a riappropriarsi della centratura perduta.

Al di là del mondo del couseling, il concetto rimane valido anche nel quotidiano: mettersi nei panni dell’altro non significa fare sempre e comunque il suo interesse, ma comprendere i suoi bisogni avendo ben chiaro quali sono i propri, che sono altrettanto degni di tutela.

E a questo proposito cito un poco provocatoriamente un altro dei miei riferimenti, Friedrich Perls, riportando la sua famosa ‘preghiera della Gestalt’.

“Io sono io. Tu sei tu.
Io non sono al mondo per soddisfare le tue aspettative.
Tu non sei al mondo per soddisfare le mie aspettative.
Io faccio la mia cosa. Tu fai la tua cosa.
Se ci incontreremo sarà bellissimo;
altrimenti non ci sarà stato niente da fare

L’aumento di stipendio


Quest’anno hai lavorato bene, sei stato produttivo: il tuo superiore ti ha convocato per comunicarti che ti verrà dato un aumento di stipendio.

Gioisci, non vedi l’ora di tornare a casa per dirlo a tua moglie: finalmente potrete permettervi quella casa in collina che avete sempre sognato. Oggi per te è un gran giorno, ti prepari a festeggiare e non sospetti nemmeno lontanamente di essere stato imbrogliato!

Ti ho appena gettato addosso una secchiata d’acqua gelata? Mi spiace, ma così stanno le cose. Riflettiamo assieme.

aumento

Quest’anno hai lavorato bene, giusto? Quindi il tuo tempo vale di più, perché in un’ora hai dimostrato di fare più cose, o di farle meglio. In ogni caso, ha un maggior prezzo, e lo testimonia il fatto che vieni appunto pagato di più.

Ma c’era un’altra strada per premiarti: mantenere inalterato lo stipendio totale e farti lavorare di meno, in proporzione.

Questa seconda alternativa è notevolmente migliore per te, perché incrementa il tempo a tua disposizione che, forse non lo hai ancora metabolizzato appieno, è limitato. Potrai poi decidere se impiegarlo nel tuo hobby preferito oppure nuovamente nel lavoro, perché in fondo quello che fai in ufficio ti piace (ricadendo nel caso precedente ma, differenza fondamentale, come risultato di una tua libera scelta).

Questo sarebbe il vero premio per aver lavorato bene, ma la soluzione è così scomoda che si cerca di tenerla nascosta il più possibile, e ci si riesce così bene che quello che sto adesso scrivendo ti sembrerà a dir poco delirante (questo è il posto giusto per farlo d’altra parte).

L’aumento di stipendio ha sostanzialmente aggiunto una nuova sbarra alla cella in cui sei prigioniero. Già, perché con quei soldi in più che ti ritroverai sul conto si attiverà quello che in economia si chiama effetto reddito: aumenteranno i tuoi consumi. E andrai a fare il mutuo per comprare la casa in collina, di fatto rendendo indispensabili quei cinque euro aggiuntivi: non potrai più farne a meno, e siccome ti sentirai in obbligo per il riconoscimento ricevuto, che percepirai come un invito a fare ancora meglio in futuro, lavorerai ancora di più. La prigione mentale in cui ti ritrovi sarà più forte, le barriere all’uscita saranno aumentate: avrai più da perdere di prima, quindi sarai meno libero.

Così funziona il sistema che ci tiene incatenati: sfrutta i nostri bisogni, la maggior parte dei quali fittizi e irreali, per tenerci inchiodati, saldi al nostro posto. Compito del marketing è quello di creare nuovi bisogni, convincerti che al giorno d’oggi una macchina per affilare il burro è indispensabile. Milioni di burattini che vanno a lavorare per pagare le rate del SUV che serve loro per andare a lavorare.

manipulation

Poi forse un giorno aprirai gli occhi, forse quando sarà troppo tardi ed il tuo tempo sarà agli sgoccioli, e allora ti renderai conto che non eri tu a volere la casa in collina, ma era lei a volere te. Che non sei stato tu ad acquistarla, ma lei che si è impossessata di te. Che la vera ricchezza non si raggiunge aumentando la capacità di acquisto, ma eliminando i falsi bisogni. Ma a quel punto la campana suonerà, e tu non avrai più tempo per porre rimedio.

Non aspettare quel momento, fallo ora!