Mi capita sovente di leggere articoli o seguire video di coaching o crescita personale; qualcosa accomuna gran parte di questi: al loro termine mi sento profondamente inadeguato.
Il tono del messaggio è di solito il seguente: se vuoi raggiungere degli obiettivi, devi essere disposto a metterti in gioco; smettila di dare la colpa al mondo per i tuoi insuccessi ed inizia a lavorare su ciò che puoi fare tu per migliorare. Quanto ti stai allenando veramente? Vuoi davvero essere felice, o in fondo hai paura di ciò che potresti raggiungere? Non nasconderti dietro a dei ‘non ce la faccio’, hai molte più risorse di ciò che credi. Rimboccati le maniche, non sprecare il tuo tempo.
Tutte sacrosante verità. Ansiogene, sacrosante verità.
Il problema è che dopo averle sentite mi deprimo, perché leggo in esse un retro messaggio: guarda che così come sei non vai mica tanto bene! Anche se il loro intento è buono, finiscono inevitabilmente col farmi sentire in difetto. Il che è ovviamente vero, ed è tautologicamente legato al fatto che non sono come vorrei essere, ma questo già lo so da me, grazie… altrimenti impiegherei il mio tempo diversamente e non mi porrei il problema di evolvere.
Ma vediamo la questione da un altro punto di vista; per me crescere è un po’ come fare l’esploratore.
L’esploratore parte sempre da un campo base: è il rifugio dove sa di poter tornare in caso di bisogno. Qui si prepara, si mette in forze, quindi si spinge fuori per poi farvi ritorno al termine dell’impresa. Mette assieme le informazioni racimolate durante l’attività esplorativa e valuta se spostare il campo un po’ più in là, per ampliare gli orizzonti del mondo conosciuto. Non si sognerebbe mai di avventurarsi fuori, esposto alle intemperie e ai pericoli dell’ignoto, se non sapesse di poter fare affidamento su un posto sicuro in cui rifugiarsi.
L’evoluzione personale è l’impresa di un pioniere che necessita di una base sicura di partenza: e questa base sicura non può prescindere dall’accettazione di sé. Se ci sentiamo inadeguati, come possiamo trovare le forze per addentrarci nel mondo sconosciuto del cambiamento? Se percepiamo il nostro campo base come una tenda stracciata, piena di spifferi, nella quale entra la pioggia, come possiamo pensare di intraprendere un’efficace e determinata esplorazione dell’ambiente circostante?
Ecco dunque che entra in scena il paradosso del cambiamento: per poter cambiare, occorre preliminarmente accettarsi; accogliere con benevolenza gli aspetti di sé giudicati sbagliati, perché (anche) quello siamo noi, nel qui ed ora.
Accettare di essere ciò che non vorremmo più essere, che meravigliosa e magica contraddizione!
Già, magica: perché nel momento in cui entriamo nella quiete della resa (e non già della rassegnazione, bada bene), ecco che si liberano le energie per trascendere ciò che siamo, ed il cambiamento avviene spontaneamente, senza sforzi: come il bambino che, sicuro della presenza del genitore a pochi passi, si avventura nel mondo con gioia, senza paura.
Adesso sei cresciuto, quel genitore sei tu. Accogli con benevolenza il bambino che è in te, vedrai come ti stupirà. Ed allora evolvere non sarà più un problema, né un bisogno, ma un normale fluire dell’esistenza.