Così recitava un famoso spot della Pirelli di molti anni fa, un tormentone pubblicitario rimasto nella storia.
Avere il controllo della situazione ci tranquillizza, e tutti ne andiamo alla ricerca. Ma cosa significa esattamente? E fino a che punto è possibile averlo?
Nella lingua inglese il verbo controllare possiede almeno due traduzioni dai significati molto diversi:
to control, che significa comandare, regolare, dominare, governare, manovrare;
to check, che significa verificare, spuntare, monitorare.
Esistono poi molte altre traduzioni dai significati più specifici, tutti riconducibili a queste due categorie più generali.
Partiamo dalla prima: credi veramente che sia possibile avere il dominio sul mondo che ti circonda? A mio avviso questa è la più grande illusione e fonte di frustrazione dell’essere umano, ben evidente a chi è genitore.
Molti vorrebbero avere una vita con certe caratteristiche, e da un lato si piangono addosso perché la realtà è alquanto diversa, dall’altro si affannano in un perenne inseguimento di qualcosa che sfugge di mano.
La verità è che tu non hai il dominio sulla freccia, una volta che è scoccata: puoi metterci tutto l’impegno, la concentrazione, la perizia, la forza di volontà… ma una volta che apri le dita, devi accettare il fatto che miliardi di altri fattori andranno ad influenzare la direzione del dardo, e da quel momento avrai perso il tuo potere. E la vita è un susseguirsi di frecce scagliate, migliaia di azioni che compi quotidianamente il cui esito non dipende esclusivamente da te.
Beh, obietterai tu, d’accordo, ma almeno fino a che sto tendendo l’arco posso ben dire di avere il controllo, almeno questo mi rimane.
Ne sei proprio sicuro? Sei davvero sicuro di avere il dominio sul bersaglio che hai (o pensi di avere) deciso di colpire? Oppure anche questo va al di là dei tuoi margini di manovra? Fino a che punto puoi modificare il tuo battito cardiaco, il tuo respiro, il tuo sistema immunitario, il tuo sistema endocrino? Fino a che punto puoi tenere a bada le tue emozioni, che dei primi sono manifestazione? Fino a che punto puoi manovrare le tue reazioni istintive quando un pericolo ti minaccia, o più semplicemente quando un automobilista di taglia la strada, o qualcuno ti insulta? Fino a che punto gli obiettivi che ti affanni ad inseguire sono stati davvero decisi da te?
Se lasci da parte per un momento le manie di grandezza e ti osservi nei comportamenti quotidiani con la sufficiente dose di umiltà ed onestà intellettuale, dovrai convenire con me che neppure su questo hai il controllo: ti comporti per la maggior parte del tempo come un automa in balia degli eventi, esterni o interni a te.
Cosa rimane, dunque? Rimane per l’appunto quella che ha condotto a questa presa di coscienza: l’osservazione. Rimane l’altra accezione del verbo controllare, la costante verifica di ciò che sta accadendo, quella che in economia aziendale prende il nome di controllo di gestione: una attenta ed imparziale analisi degli scostamenti su ciò che è e ciò che doveva essere, una comprensione a posteriori di ciò che è accaduto.
To check.
Sembra poco, ma è la base per l’auto consapevolezza. Ed è solo con questa che puoi comprendere come funzioni, i tuoi automatismi, i tuoi vincoli interiori.
Mi dirai: tante grazie, ma una volta che ne ho preso atto, a che mi serve? Che me ne faccio, se poi tutto accade in maniera meccanica?
Beh, non aspettare una risposta che non ti posso dare… prova sulla tua pelle. Per quanto mi riguarda, posso dirti che l’auto consapevolezza (le poche volte che riesco a raggiungerla) modifica alla base le leve che muovono i miei automatismi, ed in questo senso mi dà maggior padronanza della situazione, seppur indirettamente; è un po’ come hackerare il sistema, per dirla in gergo informatico: io rimango un automa che risponde meccanicamente, ma cambiando alla fonte i dati in ingresso anche l’output prodotto è diverso.
Ma chi sono io per dire che funziona così anche per te? Mica ho il controllo… prova, e fammi sapere.
A dispetto di quanto vuol farci credere la cinematografia nella quale ci si affida spesso al responso del cervello elettronico, i computer non sanno fare più di ciò per cui sono stati istruiti. Paragonati ad un essere umano, sono in grado di farlo molto velocemente: è questo che regala loro un’aura di pseudo intelligenza.
I computer funzionano grazie a programmi, codificati da esseri umani. A volte esistono programmi che creano altri programmi, in una catena che può anche essere anche lunga, ma risalendola a ritroso si arriva sempre ad un’origine di natura umana.
Riducendolo ai minimi termini, un programma per computer può essere ricondotto alla seguente sequenza:
Se si verifica questo
allora fai questo
altrimenti se si verifica quest'altro
allora fai quest'altro
...
altrimenti se ti hanno detto di terminare
allora termina
altrimenti ripeti dall'inizio
Ovviamente la sequenza di se… allora… è mostruosamente lunga, ma questo non aggiunge complessità al modello.
Risulta subito evidente un fatto: se si verifica un evento non previsto, il programma non sa che fare; non riuscendo a gestire la situazione si bloccherà, andrà in errore, o semplicemente ignorerà il fatto.
Il programma viaggia lungo solchi rigidi ed immutabili.
Il cervello umano è diverso, in particolare quello dei bambini. Il cervello umano creanuove regole in base all’esperienza ed agli errori. In pratica è un programma che si auto adatta, pur se non strutturato nella maniera rigida schematizzata sopra. Il cervello umano può permettersi di ignorare tutte le istruzioni, per inventarsene una nuova sul momento. Il cervello umano ha il grosso vantaggio di poter sbagliare.
Che gli succede col passare del tempo? Col passare del tempo tende a comportarsi come il programma. Mano a mano che cresce l’esperienza, che gli accadimenti quotidiani possono essere ricondotti a modelli già visti, entra in gioco l’automatismo, molto efficiente perché permette di dare una risposta quasi immediata allo stimolo esterno.
Il cervello diventa infallibile nell’ambito di un certo dominio applicativo: fornisce risposte immediate ed invariabilmente corrette. Ma stereotipate ed in ultima analisi stupide.
Le risposte di un anziano sono molto meno originali di quelle di un giovane, e spesso le idee di quest’ultimo sono giudicate errate dal primo perché da lui non catalogabili nella sequenza di istruzioni del proprio programma.
L’anziano ha molte più probabilità del giovane di “andare in blocco”, perché col tempo dimentica di avere la possibilità di auto aggiornarsi, immerso com’è nella presunzione alimentata dai propri successi.
In parole povere, invecchiando si tende a diventare stupidi. Ma non a causa di deficit mentali, demenze senili o affini, ma della propria presunzione e pigrizia che offrono rifugio nel confortevole calore delle abitudini.
Occorre un grosso sforzo di volontà per non cadere nella trappola, ma è l’unico modo per non invecchiare sul serio.
Voglio adesso raccontarti di una mia esperienza recente, testimonianza di alcuni tentativi di uscita dal solco.
Per ragioni che non è il caso di approfondire in questo articolo, ho scelto di rinunciare per una quindicina di giorni a tutta una serie di input provenienti da televisione, internet e affini, a meno che non fosse necessario per lavoro o studio.
Per la televisione è stato facile, in casa non ne abbiamo. Per il computer, siccome faccio il programmatore, la rinuncia è stata per lo più rivolta a social network, streaming audio video e similari. Ho incluso della lista anche la radio, di cui normalmente faccio ampio uso durante gli spostamenti in macchina, ed è stata questa l’esperienza più significativa di cui ti voglio rendere partecipe.
Ascoltare la radio per me è un’abitudine molto radicata, e nei primi giorni di ramadan è accaduto sovente che, a livello inconscio e completamente meccanico, appena allacciata la cintura la mia mano andasse a premere il tasto di accensione, salvo poi ricordarsi del fioretto e ritrarsi. Pure durante il viaggio, immerso in altri pensieri, spesso avvertivo una sensazione di mancanza, sentivo un vuoto che andava colmato, e nuovamente mi portavo meccanicamente verso il tasto di accensione.
Come strategia per sopravvivere a questa insopportabile astinenza ho deciso allora di sostituire gli input sonori con altri tipi di input, in particolare osservando meglio il mondo che mi circondava lungo il tragitto casa-lavoro. Mi concentravo di più sui particolari (cercando ovviamente di non uscire di strada, spesso è stato necessario rallentare), oraosservavo meglio quel pino dalla forma strana, perché la galaverna della stagione precedente gli aveva spezzato la punta, quel giardino così ben curato, il ponte a due arcate della ferrovia a scartamento ridotto che, chissà come mai, neanche sapevo esistesse, appena appena si intravvedeva fra gli alberi spogli.
Insomma, per quei quindici giorni mi sono trovato costretto a vivere maggiormente il momento presente, ma soprattutto a violare dei meccanismi automatici a cui ero assuefatto costringendo il mio cervello in qualche modo ad intervenire per gestire una situazione nuova.
Di fatto mi sono reso conto che era possibile prelevare informazioni da una parte della mia vita che, considerata superficialmente, non aveva più nulla da offrirmi visto che si ripeteva più o meno sempre uguale da tredici anni. Capito che significa? Per tredici anni due ore della mia vita praticamente non sono state vissute, in quanto completamente scollegate dalla contingenza presente. Due ore per tredici anni sono circa 460 ore (se consideriamo solo gli spostamenti per il lavoro), una ventina di giorni solari! Considerata da un punto di vista statistico mi conviene smettere con questo vizio ed iniziare a fumare.
Terminato il programmato periodo di rinuncia, mi sono finalmente concesso di riaccendere la radio e, con mia sorpresa… mi sono accorto che mi dava fastidio! Le impressioni che ricevevo dal mondo esterno si erano rivelate molto più nutrienti di quelli che arrivavano via etere.
Diciamocelo, non che questa rinuncia rappresenti chissà quale conquista: fra l’altro non voglio affatto schierarmi contro l’uso della radio, sia ben chiaro: qui l’indice è puntato contro le abitudini. Il punto è che questo esperimento ha dimostrato a me stesso di quanto siano spesso falsi i nostri bisogni, e di quante menzogne possiamo raccontarci pur di non sacrificare la quotidianità.