Cosa fai quando devi cambiare l’arredamento di una stanza? Stipi i nuovi mobili accanto ai vecchi, nella speranza che il nuovo spinga via il vecchio, oppure prima liberi il locale per creare spazio?
Non so tu, ma io trovo assai meno faticoso fare prima il vuoto per poi riempirlo, anche se quando la stanza è sgombra rimango con uno sgradevole senso di disagio: l’eco dei miei passi al suo interno mi porta in un mondo surreale che non conosco, la percezione delle effettive dimensioni di quel luogo mi provoca stupore e disorientamento.
Nel complesso non la trovo una sensazione gradevole, è pregna di smarrimento e talvolta di angoscia, e tuttavia è necessaria affinché si possano igienizzare quei muri rimasti nascosti da tempo e che finalmente potranno accogliere i mobili appena comprati.
Come fuori, così dentro: non possiamo trasformare alcunché della nostra vita se non abbiamo spazi liberi a disposizione, e accade spesso che la mente sia invasa a tal punto da preconcetti e convinzioni da impedire ogni possibile forma di adattamento ai cambiamenti dell’ambiente circostante.
La vita è un flusso e noi siamo i condotti che la canalizzano: come per le nostre arterie, il passaggio deve rimanere libero, pena la paralisi.
Per questo occorre fare spazio, mettere da parte la mente con tutti i suoi solchi, e lasciare andare.
Per ogni tipo di viaggio meglio avere un bagaglio leggero
Ero triste, in preda alla depressione più nera. Sai quando ti senti arrivato al capolinea, e non vedi sbocchi? Fine della pista, tutto è già stato visto, nulla per cui valga più la pena di combattere.
La neve scendeva lieve dietro i vetri appannati; ormai neppure più quell’evento, un tempo così dirompente nella vita di un allora giovane ragazzino, riusciva a dare gioia a chi ormai da molto aveva rinchiuso il fanciullino dietro a spessi muri di convenzioni sociali.
Sgomberai il tavolo dalle stoviglie della colazione, e buttai le briciole fuori dalla finestra.
Il gesto non passò inosservato ad un pettirosso affamato, che coraggiosamente si posò sul davanzale per pascersi degli abbondanti avanzi del primo pasto della mia giornata.
E fu allora che accadde.
Emise un canto soave, così dolce che sembrava provenire da un’altra dimensione, ovattato nel candore del manto nevoso eppure così pervasivo. Fu come risvegliarsi d’improvviso da un profondo torpore, e trovare tutto il senso e la bellezza della vita in un piccolo angolo di mondo.
Volò via dopo pochi minuti, il tempo sufficiente per farmi iniziare la giornata all’insegna di una rinnovata energia.
Tornò a farmi visita anche il mattino successivo, e quello dopo. E così per giorni. Imparai a lasciare volutamente delle briciole sul davanzale, un po’ in segno di ricompensa, un po’ per rafforzare quel legame che aveva saputo infondermi tanta serenità.
Arrivò la primavera col suo carico di colori, ed io avevo ritrovato definitivamente la gioia di vivere; senza un vero motivo, almeno a valutare da un punto di vista razionale.
Un giorno di aprile la consueta visita mattutina tardò ad arrivare; lì per lì non diedi peso alla cosa, ma lentamente un velo di preoccupazione iniziò a frapporsi fra i miei pensieri e il mondo; sentivo la mancanza di quel canto che sapeva così abilmente allontanare le nubi dal mio cuore.
Poi ecco presentarsi il ritardatario, e con lui ritornare la gioia; ma il tarlo aveva iniziato a lavorare dentro di me: e se quei ritardi fossero destinati a diventare più frequenti? Se la turbolenza degli stimoli primaverili avesse portato lontano gli interessi del mio amico?
Col passare dei giorni, il tarlo mi rendeva sempre più possessivo: non potevo permettere che il nostro legame si sciogliesse. Ne andava della mia felicità.
Altri ritardi nei giorni successivi corroborarono le mie paure: di lì a poco avrei perso la fonte della mia serenità. Fu così che presi la decisione.
Una piccola trappola sul davanzale; costruita con perizia, per non fare del male alla creatura amata. E, se tutto fosse andato per il meglio, il legame fra noi sarebbe diventato finalmente indissolubile, con indiscutibili vantaggi da ambo le parti. Perché avrei trattato quella piccola creatura con tutto l’amore di cui ero capace, gli avrei dato una casa e cibo sicuri, lo avrei tenuto al riparo dai pericoli del mondo.
E così accadde. La trappola funzionò, e la convivenza ebbe inizio.
Ma le cose non proseguirono come atteso. Il canto, che tanto aveva saputo allietare le mie giornate pur se ascoltato per pochi minuti, smise di inondare lo spazio attorno a me.
Il mio male era tornato, e si era impossessato anche del mio amico. La tristezza aveva imprigionato il suo spirito, così come io avevo fatto col suo corpo. Avevo assorbito, come un vampiro, ogni sua energia vitale. E fu solo allora che capii l’origine del mio male.
L’attaccamento, il voler ancorare la felicità ad una qualche fonte esterna; il voler rinchiudere in cassaforte le gioie, per paura di perderle; capii che così non poteva funzionare. Capii che, se volevo esser felice, dovevo sviluppare quella sensibilità che permette di vedere il bello in ogni cosa, di fare di ogni attimo un momento di festa. Dovevo sviluppare la capacità di lasciare andare.
Capii che la ricetta era semplice, ma che per metterla in pratica avrei avuto molta strada da compiere, tutta in salita.
Aprii la gabbia al piccolo prigioniero, che mi ringraziò per un’ultima volta col suo dolce cinguettio e volò via per sempre.