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Il sociale e l’antisociale


“Ma perché fai così?”

“Così come?”

“Non ti rendi conto che di questo passo rimarrai solo? Per stare in mezzo agli altri un minimo di educazione è necessaria.”

“Ma perché, che ho fatto?”

“A volte è tutto OK, ma altre volte, come ad esempio oggi, neanche saluti, sei scorbutico… qualche ‘grazie’ in più o un sorriso ogni tanto aiuterebbero a farti ben volere dagli altri, non credi?”

“Mi stai dicendo che dovrei dire ‘grazie’ per farmi accettare dagli altri?”

“Beh, è un modo per integrarsi.”

“Non trovi che sia piuttosto ipocrita tutto questo?”

“Sono semplici regole sociali, non ci vedo nessuna ipocrisia.”

“D’accordo, supponiamo che sia come dici; ma che valore posso dare alla benevolenza di qualcuno che mi valuta non già in base a quello che sono veramente, ma per la parte che interpreto? Così non diventa forse tutto una recita?”

“Non ti seguo.”

“Io voglio essere accettato per ciò che sono, non per ciò che fingo di essere; se tu apprezzi la mia compagnia solo quando mi adeguo a certe tue aspettative, io non potrò mai essere libero di essere me stesso, quando sto con te. Fingere in continuazione per paura di rimanere soli è un modo di arrivare allo stesso risultato a prezzo di una maggiore fatica: sei solo comunque, perché nessuno ti conosce veramente e nessuno è disposto a confrontarsi coi tuoi veri difetti (che poi potrebbero rivelarsi anche dei pregi, ma non avrai mai la possibilità di scoprirlo), e in più hai fatto i salti mortali per cercare di capire cosa vogliono gli altri da te, e per farglielo avere. Che senso ha tutto questo?”

“Quindi dovrei essere io ad adeguarmi alle tue bizzarrie, a farmi andare bene i tuoi comportamenti che mi danno fastidio? Non sarei forse io, in quel caso, a recitare?”

“Dipende dal tipo di comportamento a cui ti riferisci; se questo ha effetti concreti anche su di te, ad esempio perché voglio tenere la finestra aperta e tu hai freddo, allora hai tutte le ragioni di lamentarti. Ma se gli effetti ricadono esclusivamente su di me, e tu ne sei influenzato solo per via di tue costruzioni mentali, allora no, non hai proprio nessun diritto di volerlo! Il fatto che tu abbia l’esigenza di sentirti dire ‘grazie’ è un’aspettativa sul mio comportamento fine a sé stessa, che non ti aggiunge o toglie nulla.”

“Ammettiamo che tu abbia ragione, che sia una recita; non credi di avere comunque convenienza ad interpretarla? Magari resterai solo ugualmente, come dici tu, ma almeno quando avrai bisogno di aiuto troverai persone ben disposte nei tuoi confronti.”

“Magari sì, magari ne vale la pena; basta essere però consapevoli che lo stiamo facendo per opportunismo, e non perché siamo intrinsecamente ‘brave persone’. Va bene essere ipocriti con gli altri, ma arrivare ad esserlo pure con se stessi no, non lo posso accettare!”

“La chiami addirittura ipocrisia! Mi sembra eccessivo. Quindi saresti disposto a rinunciare alla mia amicizia in nome di un sofisma del genere?”

“Se la tua amicizia nei miei confronti è subordinata a certi schemi che dovrei rispettare, allora tu non vuoi essere amico mio, ma di una persona idealizzata che esiste solo nella tua mente, alla quale dovrei adeguarmi per essere accettato da te; ma io non voglio essere quella persona lì, io voglio essere me stesso.

Quindi, se ti va di essere mio amico, devi accettarmi per come sono realmente, e rinunciare ai modelli mentali che dicono come dovrei essere in un mondo ideale. E, già che ci sei, abbandonali tutti, quegli stupidi modelli mentali, anche quelli che non riguardano persone; perché queste ultime magari vi si adeguano, per compiacerti, ma gli eventi della vita non lo faranno di certo!”

Il costume di Superman


Riporto di seguito una frase tratta dal film Kill Bill volume 2 di Quentin Tarantino.

Come sai, io sono un grande appassionato di fumetti, soprattutto di quelli sui supereroi. Trovo che tutta la filosofia che circonda i supereroi sia affascinante. Prendi il mio supereroe preferito: Superman. Non un grandissimo fumetto, la sua grafica è mediocre. Ma la filosofia, la filosofia non è soltanto eccelsa, è unica! […] Dunque, l’elemento fondamentale della filosofia dei supereroi è che abbiamo un supereroe e il suo alter-ego: Batman è di fatto Bruce Wayne, l’Uomo Ragno è di fatto Peter Parker. Quando quel personaggio si sveglia al mattino è Peter Parker, deve mettersi un costume per diventare l’Uomo Ragno. Ed è questa caratteristica che fa di Superman l’unico nel suo genere: Superman non diventa Superman, Superman è nato Superman; quando Superman si sveglia al mattino è Superman, il suo alter-ego è Clark Kent. Quella tuta con la grande “S” rossa è la coperta che lo avvolgeva da bambino quando i Kent lo trovarono, sono quelli i suoi vestiti; quello che indossa come Kent, gli occhiali, l’abito da lavoro, quello è il suo costume, è il costume che Superman indossa per mimetizzarsi tra noi. Clark Kent è il modo in cui Superman ci vede. E quali sono le caratteristiche di Clark Kent? È debole, non crede in se stesso ed è un vigliacco. Clark Kent rappresenta la critica di Superman alla razza umana. (Bill)

Questa teoria sulla filosofia dei supereroi mi ha fatto riflettere: in fondo è vero, l’essere umano è debole, non crede in sé stesso ed è vigliacco.

Ma questa è l’interpretazione fuori dal solco che voglio offrirti: ciascuno di noi nasce Superman, coi propri poteri che lo rendono speciale ed unico.

Mano a mano che diventiamo adulti però ci assale una voglia di omologazione, di sentirci uguali agli altri, forse per paura di non essere accettati dal branco, perché alla fine l’uomo è un animale sociale.

La società (partendo dai genitori, passando per la scuola e risalendo fino ai mass media e, perché no, alle istituzioni) ci abitua inoltre ad essere tutti uguali, a pensare allo stesso modo, a comprare gli stessi prodotti e vedere gli stessi spettacoli.

Se non lo fai sei uno sfigato: sei out.

superman

Sotto questa spinta tutti quanti finiscono col sembrare più o meno simili. Ognuno si sente ovviamente diverso, ma temendo di essere emarginato si sforza di apparire come gli altri, che fanno altrettanto a sua insaputa.

Alla fine tutti questi supereroi si ritrovano travestiti da Clark Kent, inibendo le loro potenzialità in nome di un appiattimento generalizzato che però li fa sentire parte del tutto. Una sorta di livellamento verso il basso.

Bisogna invece trovare il coraggio di esaltare l’individualità, mettendo in mostra le proprie peculiarità che devono essere viste come punti di forza, non di debolezza.

Sentiamoci uguali agli altri nella nostra diversità, se proprio vogliamo soddisfare questa esigenza di appartenenza al gruppo: spogliamoci degli abiti che ci siamo cuciti addosso e facciamogli vedere chi siamo, a Lex Luthor!

La distruzione di Silvio


L’altro giorno ho visitato una mostra sulle opere di Leonardo Da Vinci e di fronte a tanta genialità non ho potuto fare a meno di misurare la distanza fra la sua e la mia persona; questo, invece di infondermi ottimismo sulle immense potenzialità dell’essere umano, ha generato in me tutta una serie di emozioni negative fondamentalmente derivanti dalla mia stupida presunzione, che ho poi analizzato più in dettaglio per capirne la natura; ho deciso di condividere la supposta diagnosi con te, con due scopi: da un lato diffondere la conoscenza di certi meccanismi della mente umana (potrà tornare utile per uscire dal solco), dall’altro puntare i riflettori su una delle mie (tante) personalità che lavorano nell’ombra a mio discapito, nella speranza che metterla alla berlina possa in qualche modo sottrarle energia vitale.

Partiamo dunque dall’esistenza di un io, di cui ero già a conoscenza ma che in quest’occasione si è delineato più nitidamente, che voglio assolutamente far fuori perché mi sta causando parecchi problemi. Te lo presento, tanto per tenere le distanze userò un nome di fantasia, lo chiamerò Silvio. Silvio è cresciuto in me grazie all’educazione, alla scuola, alle esperienze di vita. Mi piace pensare che quando sono nato Silvio non c’era: non è lapalissiano, intendo dire che non fa parte della mia essenza, è venuto dopo.

Silvio è un bambino che va molto bene a scuola, è uno di quei primi della classe che stanno antipatici a tutti ma che fa comodo avere per amici nel momento del bisogno. Quando non hai capito qualcosa sui compiti chiedi a lui, lui ti risolve il problema e si sente fiero. In classe è una star, fuori è nessuno. Lui ne è consapevole, infatti nel suo ambiente ostenta sicurezza, quasi è sbruffone, fuori invece si fa piccolo piccolo, non è mai protagonista, sta sempre sullo sfondo e spesso si sente una macchia che ne altera l’omogeneità. Una delle sue fantasie preferite, quando è fuori dalla scuola che aspetta il pulmino e osserva gli altri bambini giocare, è che arrivi un robot nemico da Vega e attacchi la terra, e lui si trasformi nel supereroe alla guida del robot buono e lo sconfigga fra lo stupore di tutti (per la cronaca ed i meno giovani: si tratta ovviamente di Goldrake).

La madre esalta queste sue doti di bravo studente con chiunque, lo porta in palmo di mano, quando Silvio ha cinque anni lei dimostra ad un conoscente, che domandava come mai Silvio non andasse all’asilo, che non ne ha bisogno, “perché, vede, sa già l’alfabeto”! E come prova Silvio lo recita tutto orgoglioso, invertendo la enne con la emme perché così gli è stato insegnato. Al di fuori di ciò che non è scuola (territorio che la madre non riesce a frequentare in quanto poco scolarizzata), Silvio viene invece protetto e aiutato, perché “è piccolo, non è capace”.

Silvio sviluppa poco a poco una dissociazione fra mondo della scuola (il mondo platonico delle forme dove tutto è perfetto, e per ogni problema c’è soluzione, che Silvio peraltro sa di non avere difficoltà a trovare) e mondo reale (imperfetto, spiacevole, pieno di domande a risposta multipla che a Silvio non piacciono).

In questo contesto, Silvio sogna di dimostrare un giorno a questo mondo che adesso lo ignora che lui è il migliore. E lo fa sviluppando il suo muscolo più pronunciato, quindi studia, legge, si accultura. All’università va alla grande, la sua vita sociale è al top, è un leader, un punto di riferimento!

Quando arriva l’età delle domande sul senso della vita si innamora della fisica, legge libri divulgativi sulla teoria della relatività, la teoria quantistica. Preferisce la matematica alle discipline umanistiche, perché in quel mondo astratto e perfetto fatto di dimostrazioni rigorose si sente al sicuro. Poi scopre l’informatica. Un algoritmo è la sublimazione della perfezione: nulla può uscire dai binari impostati, tutto funziona come un orologio svizzero, non sono ammesse eccezioni, è bello vedere la pulizia di un flusso di operazioni che si susseguono esattamente come hai pianificato! E’ bello avere un interlocutore che esegue alla lettera e senza discutere tutte le istruzioni che gli fornisci!

Per Silvio non sono ammesse soluzioni sub ottimali; le sue azioni devono risolvere il problema in modo perfetto: non gli interessa avvicinarsi all’obiettivo, magari procedendo per approssimazioni successive; o lo centra subito o niente. Avvicinarsi soltanto rappresenta già una sconfitta. Silvio ha anche un’immagine da difendere: nel suo campo deve primeggiare; altrove non vale la pena di sbattersi, non gli interessa. E’ un territorio impuro, lui non si abbassa.

Quindi prima di intraprendere un’azione occorre pensarci bene, perché non si può fallire. E in effetti Silvio riesce quasi sempre nelle poche cose che fa.

Detto questo, va da sé che i punti di riferimento di Silvio non possono che essere figure d’eccellenza, quali appunto Leonardo; ma il suo benchmark preferito è sicuramente Einstein. Qualsiasi opera un uomo possa compiere è poca cosa di fronte a quello che questi uomini hanno fatto, e rappresenta un obiettivo non centrato. Qualsiasi impresa diversa da queste (e nel concreto per Silvio tutte ovviamente lo sono) non vale la pena. Ogni attività di Silvio quindi viene portata avanti senza quella convinzione e quell’energia che sarebbe necessaria, perché tanto è poca cosa… una goccia nel mare, simile a tante altre.

Ecco, in soldoni questo è Silvio: questo è il personaggio a cui ho deciso di dare battaglia, la dichiarazione di guerra formale è rappresentata da questo articolo.

Ti assicuro che è molto forte e subdolo, perché si infila senza farsi notare in ogni cosa che faccio e talvolta mi sprona (‘Dai, fai vedere chi sei! Dimostra a tutti come sei bravo’) talaltra mi frena (‘Per quanto ti impegni, non farai mai qualcosa che sia davvero grande! Riposati che non ne vale la pena’), sbattendomi da un lato all’altro dello spazio delle possibilità. Il suo principale aspetto negativo è che mette davanti a tutto la necessità di dimostrare i propri primati, impedendomi di affrancarmi dal bisogno del benevolo giudizio altrui.

Se sei genitore, fai il possibile per evitare che dentro ai tuoi figli crescano simili personaggi, altrimenti li costringerai a combattere da adulti dure battaglie (ammesso che si rendano conto della necessità di farlo, beninteso).

Per quanto mi riguarda, comunque, il nemico è individuato, adesso è ben visibile, pronto per essere colpito.

Dimostrerò a tutti quanto sono bravo a farlo fuori.

Le debolezze del sesso forte


Ciao, oggi ti voglio raccontare quanto è accaduto ieri durante un’escursione in mountain bike con gli amici; si tratta di un fatto banale di per sé ma che offre buoni spunti di riflessione: se sei una donna potresti leggere divertita ciò che scrivo; se sei un uomo, avrai l’occasione per individuare alcuni punti deboli della categoria, sui quali a mio avviso c’è parecchio da lavorare; anche per te comunque è il caso di leggere con un sorriso quanto segue.

I fatti si sono svolti più o meno così.

Una domenica mattina un gruppo di 14 ardimentosi bikers si arrampica lungo i verdi pendii della Val d’Ayas; uno del gruppo fa da guida, gli altri non conoscono il posto e seguono; uniche informazioni a disposizione quelle fornite dal primo la settimana antecedente la partenza sulla pagina degli appuntamenti del loro sito Internet, una sintetica descrizione del percorso che riporto fedelmente qui di seguito.

“Partenza ORE 9 nei pressi di Busson, quota 1300 m, prima parte salita asfaltata, poi ripida sterrata ma tutta ciclabile fino all’ampio rifugio Arp, a quota 2440 m, dove si mangia; si salirà poi ancora un brevissimo tratto fino alla splendida conca dei laghi Palasinaz a quota 2480. Per chi volesse gustare ancora meglio il panorama, da li breve e facoltativa salita a spinta fino al colle Brenguez, quota 2692, da cui e’ possibile ammirare altri 2 meravigliosi ed imperdibili laghi alpini e ridiscendere giù con breve tratto bello tecnico.”

La prima parte dell’escursione avviene senza intoppi e raggiungono per pranzo il rifugio Arp, dove gustano una deliziosa polenta e si prendono il dovuto riposo. Dopo aver pranzato, un po’ appesantiti si apprestano ad affrontare la seconda parte dell’escursione; inizia a piovigginare, qualche tuono si sente in lontananza.

Raggiungono con crescente fatica (complice la polenta e la minore ciclabilità del sentiero) la conca dei laghi Palasinaz, e qui sono di fronte ad una scelta: proseguire a spinta aggiungendo un tratto facoltativo (e faticoso), oppure ridiscendere a valle; a questo punto la guida prova a coinvolgerli con argomentazioni degne di un Bossi d’annata: ‘Adesso chi ce l’ha duro prosegue a spinta fino a quella conca lassù, gli altri possono aspettare qui il nostro ritorno’.

Se tocchi un uomo nell’orgoglio con argomentazioni di questo genere, stai pur sicuro che lo condurrai dove vuoi. Qualcuno ha ovviamente provato a mantenere il gruppo compatto ed evitare a tutti la sfacchinata con argomentazioni legate all’appesantimento post prandiale, al temporale in avvicinamento, eccetera eccetera; ma sono state sufficienti poche adesioni pro risalita, ed ecco che tutti eccetto uno (lascio a te immaginare chi) hanno iniziato a spingere il proprio mezzo lungo lo scosceso sentiero; la strategia che a suo tempo aveva contribuito a garantire a Bossi una marea di voti ha funzionato anche stavolta.

Verrebbe comunque da concludere che tutti eccetto uno siano degnamente dotati, ma ecco che la fatica della risalita inizia a far perdere pazienza e controllo: inizia il mugugno, le lamentele, le battute ironiche, tutto ovviamente all’indirizzo della guida reo di aver costretto il gruppo in quell’assurda sfacchinata. Qualcuno gli fa anche notare che quando si conduce un gruppo si è responsabili (quantomeno moralmente) di ciò che può accadere.

bikers

Alla fatica di quella lunga mezz’ora da sherpa si aggiunge dunque il fastidio di un clima negativo pregno di lamenti e talvolta insulti. Ovviamente, quando si raggiunge la vetta l’ironia dilaga: ‘bello il posto, ne valeva proprio la pena’, ‘perché non saliamo anche su quel crinale lassù?’ e così via.

Per fortuna la discesa che segue subito dopo appaga la sete di emozioni e placa gli animi, per cui tutto rientra nei binari di una allegra gita fra amici; resta il ricordo di quella piccola parentesi negativa caratterizzata da momenti di frizione.

coraggio

La mia riflessione in proposito è questa: ma non era chiaro da principio ciò a cui si andava incontro? Non era chiaro il fatto che quel tratto in più era facoltativo? A partire dalla descrizione scritta del percorso, in cui si spiega bene la quota da raggiungere ed il fatto che si deve spingere, arrivando alla presa visione, sul campo, del punto da raggiungere e del tragitto da percorrere, un essere umano in età adulta non è in grado di decidere per sé ciò che è meglio fare? Perché rimettersi alle decisioni di altri o peggio dar loro la colpa per decisioni che non si è avuto il coraggio di prendere? Questo vuol dunque dire ‘avere gli attributi’?

A mio avviso non avere il coraggio di sottrarsi pubblicamente a pseudo prove è certo una debolezza (superiore a quella di non riuscire ad affrontare la prova stessa, non ho dubbi), ma sbandierare il proprio disappunto puntando il dito indice quando tutto questo ci conduce in cattive acque è decisamente imperdonabile, nella migliore delle ipotesi poco dignitoso.

Nella fattispecie, la paura di sfigurare quando si tratta di ‘mostrare i muscoli’ è un fenomeno prevalentemente maschile, ma poggia su basi di portata più generale, ossia la difesa dell’ego personale dall’attacco dei giudizi altrui. Ti invito considerare quanto sia liberatorio svincolarsi da simili legacci, e mi accingo a concludere. Non prima di aver sgomberato il campo da equivoci, però.

Magari potresti essere portato a pensare che sia io l’unico che non ha temuto di rimanere ad attendere a valle… beh, no, non è così, io sono salito fino in cima, e senza batter ciglio.

Pensavi forse che non avessi le palle per farlo?

La carriera di Fantozzi


In questo articolo voglio esternare il mio disaccordo su una certa concezione del mondo del lavoro, ahimé ormai consolidata e ben vista dai più; per la quasi totalità delle persone, quello che vado ora a sollevare è un non problema, un’assurdità, quasi un delirio. Pazienza, lo faccio lo stesso.

Voglio parlare di crescita sul posto di lavoro.

Immagino che queste parole avranno richiamato in te il concetto di carriera. Suvvia, è piuttosto normale: entri in azienda, lavori bene, con impegno, ottieni dei buoni risultati: insomma meriti un premio. Se sono passati tre-quattro anni e non sei cresciuto di livello, inizi a porti delle domande, magari inizi a guardarti attorno, perché mica puoi arrivare ad una certa età ed essere rimasto al palo. D’altra parte, l’azienda usa come specchio per allodole l’incentivo della promozione per ottenere risultati dai propri dipendenti. Giusto.

carriera

Se ti prendi la briga di consultare un contratto nazionale dei lavoratori, vedrai che viene effettuata una stratificazione delle mansioni in livelli: in basso c’è il ragionier Fantozzi, appena appena in grado di intendere e di volere, in alto c’è il Mega Direttore Gran Lup. Mann., depositario della verità aziendale e oltre. Non ci sono altre dimensioni lungo le quali spostarsi, solo questa. Salire o scendere. Migliorare o peggiorare. Lo stipendio si muove più o meno di conseguenza.

Quindi se sono bravo a pulire piastrelle, e lavoro in un posto dove c’è meritocrazia, dopo qualche anno mi ritroverò a coordinare un gruppo di pulitori di piastrelle. Ma io sono bravo a pulirle, mica a farle pulire ad altri. Magari potrei dar loro dei consigli su come fare, questo si.

Comunque non ho scampo: se voglio crescere in azienda, devo per forza andare in quella direzione. Quindi, siccome ho lavorato bene, mi ritrovo a ricoprire un ruolo che non mi si confa, magari a lavorare di più, ad essere più stressato, meno motivato, a dedicare meno tempo ed energie mentali alle rimanenti cose della vita. Proprio un bel salto di qualità! Comincio a chiedermi se valeva la pena di sbattersi tanto per ottenere tutto questo.

Le regole comunque sono ferree: metti caso perdessi o volessi abbandonare il lavoro, non mi è permesso di ricominciare da capo, siccome ho quasi cinquant’anni non ho accesso all’apprendistato; vorrei tanto diventare cuoco, sarebbe per me un’iniezione di entusiasmo, un ritorno alla gioventù, ma con l’esperienza di pulitore di piastrelle che mi ritrovo questa è proprio un’assurdità! Lascia spazio ai giovani, mi dicono, lascia entrare anche loro in questo tunnel a senso unico.

Allora provo a manifestare il mio malumore con conoscenti, amici e parenti. Ovviamente mi prendono per un alieno, per usare un eufemismo. Mi dicono che sputo nel piatto dove mangio, che non ho idea di quanti altri vorrebbero essere al mio posto. Certo che sono proprio strano, buttare al vento simili occasioni.

Io però non ci sto, non riesco a smettere di sognare una realtà diversa; immagino un mondo in cui, quando sai di aver lavorato bene, puoi sentirti libero di andare dal tuo responsabile a chiedere una riduzione dell’orario di lavoro, non un aumento di stipendio. Un mondo nel quale puoi vantarti con gli amici di non pulire più piastrelle perché sei stato promosso alla posizione di lucidatore di scaffali, ruolo che hai sempre sognato. Un mondo in cui alla carriera verticale (che non voglio demonizzare, beninteso, è perfettamente legittima) si affianca una carriera orizzontale.  Un mondo in cui uguaglianza significhi applicare regole identiche per tutti quelli che si trovano nelle stesse condizioni, non per tutti indiscriminatamente.

Insomma, non sarebbe più meritocratico un insieme di meccanismi che dispensino premi mirati sul singolo invece che su un’astrazione ideale uguale per tutti? Ma attenzione, non è un problema di condotta aziendale quello che io qui sollevo, perché il fenomeno ha portata più generale; il problema è culturale: è la società tutta, insomma siamo noi che ci basiamo su paradigmi mentali troppo rigidi, non rispettando l’essenza dell’individuo, dando per scontata una sola possibile scala di valori.

Anche in questo dovremmo uscire dal solco, la qualità delle nostre vite migliorerebbe sensibilmente, e non ci sarebbero forse più le tragedie da lunedì mattina.

Lo spauracchio della prova costume


Credo di non dire nulla di stravagante quando affermo che la mancanza di comportamento etico da parte dell’italiano medio è uno dei principali problemi della società in cui viviamo; lo riscontriamo in particolare in chi sta alla guida del Paese, ma la classe politica non è che il riflesso dell’elettorato che l’ha prodotta, anche se nel tempo ha imparato a distaccarsene e a vivere di vita propria.

Il ‘furbo’ (e le virgolette sono d’obbligo perché per me di vera furbizia non si tratta) è sempre presente ai vari livelli, e non esiste meccanismo che impedisca di fare una legge senza che si trovi l’inganno; come si può uscire da questa impasse? Mettiamo poliziotti ad ogni angolo! Controlliamo di più! Eleviamo multe, ampliamo la caccia agli evasori, combattiamo il lavoro nero con sanzioni severe! Guerra a chi inquina!

Praticamente occorrerebbe un esercito di controllori, purché provenienti da altri Paesi, altrimenti come ci possiamo fidare di loro?

Facciamo un esempio pratico, parliamo dei meccanismi per combattere i nullafacenti negli uffici. Introdurre tornelli o sistemi di timbratura è un sistema medievale, tipico di una società arretrata, basato sul presupposto che la presenza fisica in ufficio corrisponda a lavoro (e l’assenza a non lavoro): se mai vogliamo fare dei controlli, facciamoli su ciò che è stato prodotto (quanto e come…); ovvio che questo non si può applicare a tutti i tipi di lavoro, però ci vantiamo tanto di essere nell’era del WEB 2.0 e poi dobbiamo percorrere chilometri per accedere ad un computer e produrre contenuti digitali… Perché questa ritrosia verso il telelavoro? Perché non ci si fida: si pensa che il fiato sul collo sproni il lavoratore (e in una buona parte è anche vero, ed il comportamento dei molti furbi ha contribuito a rafforzare l’idea), ma questo crea i presupposti per un ambiente stressante, disseminato di fucili puntati.

La leva per un comportamento etico (qualsiasi cosa questo voglia dire) non deve provenire da fuori, ma da dentro ogni individuo: solo così possiamo evitarci un esercito di cani da guardia. Dobbiamo imparare sviluppare quel controllore che è dentro ognuno di noi, con la convinzione che questo sia vantaggioso per noi stessi, e che fare i furbi alla lunga sia controproducente. Se ci comportassimo tutti onestamente sul posto di lavoro, i dirigenti aziendali non guarderebbero con sospetto il telelavoro. Se il ragazzino si dimostra meritevole della tua fiducia, lo lasci libero di uscire da solo.

Questo si può ottenere solo investendo nell’educazione, non c’è altra strada; quando il solco dell’opportunismo è scavato nelle nostre menti è difficile rimuoverlo; ed il deterrente secondo me più efficace ed economico è uno: la disapprovazione sociale.

Non so se hai presente l’ansia di molte persone quando si avvicina l’estate: alcuni iniziano una dieta a tempo per diminuire i rotoli addominali, altri fanno lampade abbronzanti, perché non vorrai mica arrivare in spiaggia a fine maggio bianco come una formaggetta di capra? Mi sono chiesto: cosa origina quest’ansia? Ci sono vigili in spiaggia? No, c’è la spada di Damocle del giudizio altrui (conoscenti e non)!

Ci piaccia o no, siamo animali sociali, ed essere integrati in un gruppo ci fa stare bene (anni di evoluzione hanno probabilmente sancito il vantaggio di una collaborazione rispetto all’isolamento). Se comportamenti dannosi come l’evasione fiscale, l’inquinamento, la nullafacenza sul posto di lavoro fossero messi alla berlina dalla società, a poco a poco diverrebbero fenomeni residuali. Invece sono esaltati: l’evasore è un furbo, che non si fa fregare dallo Stato; l’amico si vanta perché ha trovato un buon posto dove si lavora poco e nessuno ti controlla. Capito? Si vanta, la considera cosa da ostentare! Abbiamo truppe di deputati e senatori indagati per i più svariati misfatti, ma non mostrano la benché minima vergogna di tutto ciò, anzi ne fanno campagna elettorale autoproclamandosi vittime. Vuoi fare successo? Violenta la tua collega, fai in modo che ti licenzino per questo e passa qualche mese in prigione, magari prima assicurati la protezione di un avvocato di grido. Occhio però, la cosa non deve passare inosservata, premurati che tutti ne parlino. Tranquillo, vedilo come un investimento: fra un anno sarai ospite di numerose trasmissioni televisive e verrai ricoperto di soldi. Magari, mentre sei in galera, approfittane per scrivere un libro dichiarandoti vittima delle circostanze… fa sempre effetto.

Pensa invece ad un mondo in cui il teenager che getta la cartaccia per terra viene considerato uno sfigato dai coetanei; un mondo in cui per essere considerato ‘ad un certo livello’ non devi indossare le Hogan ma recarti al lavoro coi mezzi pubblici; un mondo in cui, se trovi un portafogli per terra e lo restituisci, sei invitato a tutti i talk show della prima serata; un mondo in cui se timbri il cartellino ed esci a fare la spesa, alla pausa caffè ti ritrovi da solo.

Utopia? Per ora sì, ma come tutte le cose, forse è solo una questione di massa critica…