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La supercompensazione


Non ci vuole un luminare della scienza per capirlo, è una semplice regola di buon senso: ciò che non si usa non serve e si può eliminare, ciò che si usa serve e va potenziato.

Un banale meccanismo di economia funzionale.

Questo meccanismo è alla base di molti sistemi complessi che conosco, in particolare del corpo umano: su di esso si fondano i principi dell’allenamento.

Durante una intensa attività fisica le risorse dell’organismo vengono consumate, e la sua struttura danneggiata; durante la fase di riposo, che è la più importante in ogni sessione di allenamento, il corpo ripristina le risorse che si sono indebolite ma, attenzione, le riporta ad un livello maggiore di quello iniziale: come a dire, stavolta mi hanno colto impreparato, ma la prossima volta non mi fregano!

Questo processo è chiamato supercompensazione e permette di sviluppare quelle potenzialità che vengono maggiormente richieste: è un triviale processo di adattamento finalizzato alla sopravvivenza.

Ora, se ciò è vero per un muscolo, non vedo perché non dovrebbe esserlo in generale con ogni tipo di risorsa dell’organismo. Allora mi guardo attorno e mi chiedo: quanto ci stiamo allenando?

Per fare qualche piano prendiamo l’ascensore o le scale mobili, per fare qualche chilometro prendiamo l’automobile: il sistema motorio viene usato a minimo regime.

Quando fa caldo accendiamo l’aria condizionata e quando fa freddo il riscaldamento: la capacità di termoregolazione viene usata a minimo regime.

Quando abbiamo un problema tecnico chiediamo subito aiuto a chi ne sa di più: le abilità di problem solving vengono usate a minimo regime.

Quando abbiamo un dolore prendiamo subito un analgesico: la capacità di sopportazione viene usata a minimo regime.

Contrastiamo il buio della notte con le luci della città: la capacità di adattamento ai ritmi stagionali viene usata a minimo regime.

Quando ci ammaliamo prendiamo subito l’antibiotico: il sistema immunitario viene usato a minimo regime.

Ci affidiamo mansueti al tranquillizzante fascino delle compagnie di assicurazione: la capacità di rischiare viene usata a minimo regime.

Teniamo costantemente un occhio alle previsioni meteo, pianifichiamo accuratamente il futuro, in mancanza di meglio ci affidiamo agli oroscopi: la capacità di stare nella frustrazione dell’incertezza viene usata a minimo regime.

Praticamente, quella che chiamiamo società del benessere ha preso una bella pialla e ha smussato ogni angolo, ha abbattuto ogni oscillazione; e poi ci lamentiamo di avere una vita piatta (e non parlo di addominali).

Non ci facciamo più carico di alcuna difficoltà, tutto è demandato all’esterno.

Poi improvvisamente arriva la pandemia, ed è subito panico, paura di morire. Perché stavolta all’esterno non c’è nessuno che sappia come aiutarci: là fuori sono incasinati quanto noi.

Allora sì, che ci vogliono le protezioni, le mascherine, i distanziamenti, le precauzioni: il corpo sociale non è allenato per sopportare lo sforzo da solo, ci vogliono le protesi.

Pensare di affrontare il Covid con le proprie forze in queste condizioni è come chiedere ad un flaccido cinquantenne che sta guardando la partita in TV con una birra in mano di correre una maratona. Ormai è tardi e i buoi sono scappati.

E tu, hai paura di morire? Ma svegliati, non ti rendi conto che sei morto da una vita?

Le fasi del mio allenamento


Quello che scrivo qui di seguito non ha nulla di scientifico, ma si basa unicamente sulle mie sensazioni durante un’uscita in bici o di corsa; prendilo quindi col beneficio di inventario, sottoponilo a verifica attraverso le tue esperienze, come peraltro dovresti fare per tutti gli articoli di questo blog.

Direi che per quanto mi riguarda, è possibile individuare nella prestazione sportiva tre intervalli temporali, separati da due punti di svolta.

Nella prima fase sono ancora freddo e la mia mente suggerisce che forse era meglio fare dell’altro; per il momento non sento ancora fatica, è una fase interlocutoria.

Che termina con il primo punto di rottura, temporalmente non troppo distante dall’inizio: la fatica fa capolino e la mia mente inizia a trovare mille scuse molto plausibili per fare dietro front. Sembra che non ce la possa fare ad andare avanti, più per un fatto di pigrizia mentale che fisico. Durante questa prima fase, l’evento sportivo non ha per me granché di piacevole.

Superato il primo punto iniziale, il motore inizia a girare a pieno ritmo, il cervello rilascia endorfine, e sono contento di non aver desistito: è decisamente piacevole questa pedalata (corsa).

Proseguo per un periodo più o meno lungo in funzione del mio allenamento (ipotizzando che il tempo a disposizione non sia un problema), quindi la stanchezza, quella vera, inizia a farsi sentire.

E qui veniamo al secondo punto di rottura; il corpo inizia a dare segni di cedimento, e la mente urla a gran voce che sono arrivato, stavolta supportata da evidenti prove empiriche. Finora ho fatto quanto il mio fisico mi permetteva dato il livello di allenamento; oltre? Hic sunt leones

Ma ho imparato a conoscermi, e so bene che i meccanismi di difesa del corpo mi fanno percepire il limite prima di dove esso si trovi in realtà. So che, se mi faccio un poco di violenza, posso andare ancora avanti. Più di quanto si possa immaginare.

Se lo faccio, entro nella terza fase, quella al di fuori della mia confort zone. Quella dove la fatica è davvero fatica, ma chissà perché la mente non la percepisce più di tanto, distratta com’è dall’adrenalina e dalle endorfine.

Questa terza fase è quella allenante. Quella in cui il corpo riceve informazioni dall’esterno che dicono che non è attrezzato a dovere, che dovrebbe adeguarsi per poter fare di più.

Quando esco dalla confort zone, pongo le basi per lo sviluppo del mio fisico.

Poi termina la prestazione, e qui è importantissimo il riposo, per permettere al corpo di recuperare, anche grazie ad una adeguata alimentazione. Ha ricevuto segnali di inadeguatezza, sa che potrebbe venirgli chiesto di più di quanto è attualmente attrezzato a fare, e si prepara per far fronte ad un carico di lavoro maggiore in futuro.

Il corpo evolve, migliora.

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Ed ora proviamo a fare un salto mortale: ebbene, credo che quanto ora descritto per lo sviluppo del fisico, sia applicabile ad ogni altra tipologia di sviluppo personale.

Già, perché se voglio migliorare in qualunque campo, devo fare esperienze, mi devo mettere in gioco, devo iniziare a far cose che non avevo mai fatto prima. Anche qui, la voce nella testa suggerisce di lasciar perdere, eppure bisogna sforzarsi di non ascoltarla più di tanto.

Certo, entro margini ragionevoli: cimentarsi in una esperienza di astronauta dopo anni di vita sedentaria non è forse consigliabile, ma uscire un poco, gradatamente, dalla confort zone, sì.

Esplorare il perimetro di quelli che sono ritenuti i tuoi limiti, ed ogni tanto provare a passarne qualcuno, così, per gioco, per il gusto di vedere che succede.

Per scoprire con stupore che si può fare… che oltre non c’era il baratro, ma meravigliosi territori inesplorati… perfettamente alla mia portata.

La cosa grandiosa di tutto ciò è che, dopo questa esperienza, mi accorgo che la confort zone si è allargata, ed i nuovi limiti sono un pochino più in là… pronti per essere nuovamente superati!

Non pensi valga la pena di provare?