Riflessioni criptiche di un programmatore – Fuori dal solco yin e yang


Uscire dal solco è per me avvicinarsi alla verità, ossia aumentare la consapevolezza.

Una strada è quella di abbandonare giudizi, preconcetti, interpretazioni.

Fare il vuoto, aumentare l’entropia.

L’entropia è la misura, al negativo, della quantità di informazione: maggiore l’entropia, minore l’informazione.

Un’idea è una sorta di avvallamento nella superficie mnesica, un solco; se abbandono l’idea senza sostituirla con un’altra il solco si appiana e l’informazione si riduce, l’entropia aumenta.

E’ come cancellare dei segni da un foglio fino a tornare alla superficie bianca, in cui l’entropia è massima e l’informazione nulla, è quella che definirei la via yin all’illuminazione.

Ma a ben vedere esiste una seconda via altrettanto valida, che definirei yang, e consiste nell’aggiungere informazione.

Via via che si maturano nuove idee la superficie mnesica si arricchisce di solchi, il foglio si riempie di tratti fino ad arrivare a una superficie uniformemente scavata, a un foglio senza più spazi bianchi.

Il massimo dell’informazione equivale a nessuna informazione. L’infinito collassa nello zero. Il cerchio si chiude.

Non importa che strada scegli, l’entropia, per un ben noto fenomeno fisico, è destinata ad aumentare, e alla fine la verità avrà il sopravvento.

E’ solo questione di tempo. The best is yet to come!

Ringrazio Corrado Malanga per i suoi preziosi spunti sull’entropia.

Pillole di counseling – Empatia


Una delle risorse più utili (direi indispensabili) per un counselor è sicuramente l’empatia, ossia la capacità di sintonizzarsi e comprendere gli stati emotivi e cognitivi del cliente.

Detto rozzamente e in parole povere, la capacità di mettersi nei panni altrui.

Secondo il famoso psicoterapeuta americano Carl Rogers, una delle mie principali figure di riferimento, l’empatia è uno dei tre pilastri su cui regge la relazione di aiuto, assieme all’autenticità e all’accettazione incondizionata (a questi ha poi affiancato, in un successivo stadio del suo percorso professionale, un quarto pilastro, la fiducia).

Le seguenti parole di Rogers rendono in modo efficace la sua concezione di empatia:

Posso entrare completamente nel mondo dei sentimenti e dei
significati personali di un altro, in modo da percepirli così
completamente da perdere ogni desiderio di valutarlo e di
giudicarlo? Posso entrarci in modo così sensibile da potermi
muovere liberamente, senza calpestare dei significati per lui
preziosi? Posso scrutarlo in modo così fine da poter afferrare
non solo i significati dell’esperienza per lui ovvi, ma anche
quelli che sono solo impliciti, che egli vede solo oscuramente o
confusamente? Posso estendere senza limiti questa
comprensione?

Personalmente ho spesso pensato che essere empatici nella vita quotidiana fosse una gran fregatura perché, soprattutto in caso di divergenza di interessi, si manifesta la tendenza a giustificare l’altro, a comprendere le sue ragioni fino, forse, a rinunciare alle proprie, o comunque a metterle in secondo piano. Insomma, vivevo l’empatia come una debolezza.

Mi sono spesso osservato nel tentativo di porre un freno la mia empatia, caricando la controparte di connotazioni negative talvolta posticce, perché quanto più riuscivo a disegnarlo ‘cattivo’ tanto più mi sentivo titolato a difendere le mie posizioni, anche a suo discapito.

Non appena iniziato il percorso che mi avrebbe portato a diventare counselor ho compreso la distorsione della mia visione, ed è stato uno degli aspetti che più mi hanno affascinato di un mondo fino ad allora per me sconosciuto.

Semplicemente mi mancava un pezzo.

Empatia significa sentire e percepire il mondo dell’altro come se fosse il nostro; le paroline chiave rimangono quasi in secondo piano in questa frase, e sono: ‘come se’.

Perché se entro nel mondo dell’altro perdendo di vista il mio allora non c’è più empatia, ma simpatia o confluenza. Io non esisto più, io sono diventato l’altro.

E’ invece di fondamentale importanza comprendere che prima di dare empatia all’altro occorre dare empatia a sé stessi, identificando i propri bisogni e sentimenti; poi metterli da parte provvisoriamente, entrare nel mondo altrui e rimanere sempre pronti, in ogni istante, a uscirne.

E’ semplice, ma non è affatto facile: il rischio di rimanere intrappolato è elevato, e per questo nella professione è di fondamentale importanza la supervisione, ossia il ricorso ad altri professionisti che aiutino il counselor a riappropriarsi della centratura perduta.

Al di là del mondo del couseling, il concetto rimane valido anche nel quotidiano: mettersi nei panni dell’altro non significa fare sempre e comunque il suo interesse, ma comprendere i suoi bisogni avendo ben chiaro quali sono i propri, che sono altrettanto degni di tutela.

E a questo proposito cito un poco provocatoriamente un altro dei miei riferimenti, Friedrich Perls, riportando la sua famosa ‘preghiera della Gestalt’.

“Io sono io. Tu sei tu.
Io non sono al mondo per soddisfare le tue aspettative.
Tu non sei al mondo per soddisfare le mie aspettative.
Io faccio la mia cosa. Tu fai la tua cosa.
Se ci incontreremo sarà bellissimo;
altrimenti non ci sarà stato niente da fare

Il cerchio fuori dal solco


Cosa è per me un gruppo? Cosa vorrei donare a questo gruppo? Cosa vorrei ricevere da questo gruppo? Come mi sento?

Stare assieme ad altre persone è una risorsa, e una fatica.

Non esiste l’armonia gratuita che scaturisce per definizione dal gruppo ‘giusto’; talvolta essa arriva senza sforzo, talvolta viene richiesto un lavoro difficile che porti a rinunciare alle proprie convinzioni, andando incontro all’altro con la sgradevole sensazione della sconfitta, di aver perso la partita. Ed è forse proprio in queste circostanze che la potenza del gruppo offre le migliori opportunità.

Perché è vero che la nave ogni tanto ha bisogno di rimanere in porto a riposare, ma il suo ambiente naturale è il mare aperto. Perché è nutriente rendersi conto che spesso preferiamo avere ragione, piuttosto che essere in pace e armonia. Perché le cose che accadono fuori accadono anche dentro al cerchio, ma in un contesto controllato, in una sorta di ‘laboratorio’ protetto.

Comprendere l’altro non significa abbandonare le proprie posizioni, solo ammettere che ce ne sono altre. Ce ne sono molte, ce ne sono infinite. Che meraviglia scoprirle!

Le dinamiche di gruppo portano a una continua esplorazione, un continuo arricchimento: a patto che si entri nella dimensione dell’ascolto, a patto che si abbandoni ogni preconcetto, e si accolga senza obiezioni di sorta la visione altrui.

Sospensione del giudizio, viene chiamata. Che non significa rinunciare definitivamente alla propria opinione, ma solo mettere da parte quel bisogno per un poco, quel tanto che basta per fare una capatina, con occhi curiosi di bimbo, nelle stanze altrui.

Chissà che non ci si trovino soprese interessanti! A me basta già quella di realizzare quanto quelle stanze siano diverse dalla mia, e allo stesso tempo, in qualche inspiegabile modo, così simili.

Pillole di counseling – Cos’è il counseling?


Non amo incasellare concetti all’interno di definizioni, come se fossero tanti scatoloni impilati su una scaffale, ciascuno con la propria brava etichetta.

Eppure una innegabile esigenza pratica di comunicazione rende il passaggio imprescindibile: l’ipotetico cliente che voglia approcciarsi a questo mondo ha il sacrosanto bisogno di conoscerlo preventivamente, seppure inizialmente solo a livello cognitivo.

E allora, per contemperare le mie e le altrui esigenze, proverò a usare una metafora per trasmettere a livello intuitivo ciò che per me è l’essenza del counseling, mantenendomi ben lungi da altisonanti definizioni accademiche.

La metafora vede mia figlia come protagonista; ha talvolta difficoltà con la matematica, e capita che in alcuni casi mi chieda un aiuto, in particolare quando non riesce con gli esercizi. Conosce la teoria, padroneggia il procedimento, eppure il risultato non è quello atteso.

In questi casi, invece di mostrarle dove si trova l’errore (sempre ammesso che io sia in grado di individuarlo), trovo particolarmente efficace un diverso approccio.

Le chiedo di illustrarmi ad alta voce tutti i passi che ha fatto, come se dovesse spiegarli a chi non ne sa nulla; talvolta capita che sintetizzi due o più di questi, verbalizzandoli come se fossero uno solo, e allora la invito a spiegare meglio, scendendo maggiormente nel dettaglio.

Ebbene, non mi è mai successo, seguendo questa strada, che non fosse lei stessa ad individuare l’errore. Io non faccio nulla se non limitarmi ad accompagnarla nel processo di esplorazione. L’aspetto curioso è che per fare ciò non mi occorre conoscere alcunché di matematica, al contrario: meno ne so, più sono obbligato a stimolare in lei spiegazioni di dettaglio che la forzano a rendere esplicito ciò che è implicito.

Ti prego di non farti fuorviare dal fatto che il caso citato si riferisca alla risoluzione di un problema, alla ricerca di un errore; l’esempio è per l’appunto scolastico. Nel cliente che si rivolge al counselor non c’è alcunché di sbagliato da trovare, casomai possiamo parlare di difficoltà legate ad una visione limitata della realtà.

In ogni caso, è sorprendente come essere affiancati da qualcuno genuinamente interessato a conoscere il nostro mondo ci aiuti a vederlo con maggior chiarezza, e magari a trovare eventuali correttivi da apportare.

Questa per me è la magia del counseling.

Mi rendo conto: ho banalizzato, c’è molto altro; un bagaglio di strumenti più o meno ricco che permette di aumentare l’efficacia dell’esplorazione, tecniche gestaltiche che consentono di entrare maggiormente in contatto col proprio mondo emotivo… ma lo scopo di questo articolo è darti un’idea intuitiva del counseling, non descriverlo nel dettaglio; andando alla sostanza, riducendo il più possibile ai minimi termini, il counseling per me è proprio questo.

Empaticamente esserci.

Quando il saggio indica la luna…


Un famoso proverbio – forse di origine cinese – recita:

Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito.

L’invito è quello di andare in profondità, non fermandosi alla superficie e all’apparenza dei fenomeni.

A me piace darne qui una chiave lettura diversa, portandola nel campo del counseling e dell’esperienza umana in generale: credo che siamo tutti stolti nel momento in cui ci ostiniamo a guardare fuori invece di guardare dentro di noi.

E’ mia ferma convinzione che ogni persona che incontriamo, ogni esperienza piacevole o dolorosa, ogni difficoltà che ci si para di fronte, siano tutte dita puntate verso di noi, con intento non accusatorio, ma indicativo.

Gli eventi della vita parlano della nostra personalità, ci offrono l’opportunità di conoscerci, di capire chi siamo. Ci invitano a portare l’attenzione su di noi, e noi che facciamo invece? Guardiamo il dito, l’evento esterno!

Grazie alla breve esperienza maturata nel corso dell’ultimo anno, conducendo un cerchio di condivisione nell’ambito della mia attività di counseling, mi sono accorto di quanto sia difficile non cedere alla tentazione di farsi trascinare ‘fuori’ dagli eventi della vita, portando in continuazione l’attenzione su questi, invece che sul nostro mondo interiore, le nostre modalità spesso reattive di rispondere agli stessi.

Posso per esempio continuare a ripetermi che soffro perché l’altro non si comporta come vorrei ma se, per amore di ipotesi, l’Universo stesse cercando di mostrarmi qualcosa attraverso di lui e io mi ostino a non volermi guardare, il fastidioso evento continuerà a ripetersi, magari in forma di volta in volta diversa ma identico nella sostanza, fintanto che non ho imparato.

Cosa si muove dentro di me in risposta al ciò che accada là fuori? Quali pensieri? Quali sensazioni? Quali i miei bisogni insoddisfatti? Riesco a vedere i miei schemi ripetitivi? Riesco a vedere emozioni parassite che provengono da chissà quale passato e si agganciano alla situazione contingente, sfruttandola per emergere?

Sovente pensiamo che il mondo vada cambiato, o che il cambiamento debba partire da noi.

Io mi sto viepiù convincendo che non occorra sforzarsi di cambiare alcunché, ma solo osservare. Nel posto giusto, con coraggio, anche se potrebbe non essere sempre una visione piacevole.

Una volta visto il necessario il cambiamento avverrà spontaneamente, perché lo show ha perso la sua ragion d’essere.

perfezione o Perfezione?


Dedico questo articolo a te, amante della perfezione, che cerchi di nascondere o più radicalmente combattere ogni tuo difetto, e di riflesso lo dedico primariamente a me, che proietto all’esterno le mie dinamiche interiori, riprendendo concetti già espressi in un articolo precedente per declinarli sotto nuova luce.

La mia idea di perfezione è ben rappresentata da un campo appena arato (a proposito di uscire dal solco), mentre l’imperfezione è lo stesso campo invaso da erbacce infestanti.

Dopo aver visionato un illuminante video sulla permacoltura, ho compreso che quelle che pensavo fossero erbe dannose in realtà altro non sono che la sana reazione del terreno volta a ripristinare gli equilibri perduti.

Arare un terreno, scavando via lo strato erboso superficiale, è un po’ come togliere uno strato di pelle ad un essere vivente. Che succede quando si produce un’escoriazione? L’intelligenza dell’organismo si attiva per ripristinare la protezione perduta, al fine di evitare pericolose infezioni.

La funzione delle cosiddette erbe infestanti è proprio quella: creare uno stato protettivo che permetta ai microorganismi del terreno (al corpo di Gaia) di sopravvivere. Quella che io pensavo fosse un’imperfezione faceva invece parte di una Perfezione di ordine superiore, il primo passo per portare a un’evoluzione progressiva che vede il bosco come punto di arrivo: nessuna erba infestante, il terreno ricoperto da uno spesso strado di humus, alberi rigogliosi che proteggono il suolo così come un villoso strato di pelle abbronzata protegge dalle scottature. Ti è mai capitato, camminando nel bosco, di sentirti come una pulce sul corpo di un cane gigantesco?

Questo ragionamento mi porta diretto alle mie, di imperfezioni: sono forse il tentativo della mia intelligenza organismica di ripristinare equilibri perduti? Qual è il loro significato profondo, l’Ordine superiore sotteso ad un apparente disordine? Combattere i miei difetti (o più propriamente gli aspetti di me che reputo tali) non finirà con l’esacerbare la situazione?

Se parto dal presupposto che sono la versione migliore di me, date le circostanze ambientali a cui mi sono dovuto adeguare, il concetto di difetto si snatura completamente.

La domanda diventa dunque: qual è il bisogno profondo a cui ciò che chiamo imperfezione sta rispondendo alla perfezione?

Attenzione, energia… counseling


Voglio ora sottoporti una mia congettura rigorosamente ascientifica, in voluta controtendenza perché mai come in questo periodo lo slogan ‘io credo nella scienza’ è diventato virale, frase palesemente contraddittoria visto che il metodo scientifico presuppone di non credere ad alcunché e sottoporre tutto a verifica sperimentale.

Io un tempo facevo parte di questi talebani idolatri, oggi invece credo nella fantasia: e la mia fantasia mi ha portato alla riflessione che ora ti sottopongo.

Partiamo da un crudele esperimento, ordinato da Federico II di Svevia nel medio evo, volto a determinare quale fosse il linguaggio naturale dell’essere umano. A tal fine venne isolato un gruppo di neonati da privare di ogni forma di interazione umana, al di fuori di ciò che era giudicato il minimo indispensabile per la loro sopravvivenza fisica. Le mie incontrollate associazioni mnemoniche mi portano al lockdown, ma questa è un’altra storia.

Ebbene, il tragico esito di questo esperimento fu la morte di tutti i neonati!

Questo significa che oltre al sostentamento puramente materiale (cibo, acqua, aria) l’essere umano si nutre anche di altro, che mi piace individuare nell’attenzione umana.

Ho peraltro letto un interessante articolo nel quale si afferma che il nutrimento che traiamo dai cibi è costituito sia dai singoli elementi chimici che costituiscono l’alimento, sia dall’energia di legame che va a determinarne la forma, ossia da quella struttura in-forma-tiva che, a parità di costituenti, fa sì che una mela sia diversa da una pietra. Se vogliamo brutalizzare, possiamo riferirci ad essa come ai fotoni rimasti intrappolati nella mela, e all’informazione che ne codifica l’essenza.

Alla luce della mia congettura fantasiosa, a questi due costituenti se ne va ad aggiungere un terzo che, con riferimento all’esempio della mela, potremmo definire romanticamente come l’amore del contadino, e che più prosaicamente altro non è che l’attenzione da lui impiegata nella coltivazione del frutteto.

Per questo sono convinto che un cibo cucinato con amore (leggasi con attenzione) sia migliore di un cibo industriale; per questo le verdure del mio orto sono più saporite (per me) di quelle comprate dal fruttivendolo, che a loro volta sono migliori di quelle del supermercato.

Per questo un’attività svolta in uno stato di presenza, ossia ponendo attenzione al compito specifico ed evitando che la mente divaghi, risulta di qualità superiore.

E tristemente aggiungo: per questo le moderne forme di tecnologia, come lo smarfon da cui probabilmente stai leggendo questo articolo, tentano di catturare la nostra attenzione quanto più possibile, col risultato di distogliere una preziosa forma di energia che potremmo invece dedicare a scopi ben più proficui.

E allora?!? Perché stai ancora leggendo!?! E va beh dai, ti perdono, e poi ho quasi finito!

Concludo osservando: per questo l’attività di counseling, grazie al suo ascolto attivo, è così nutriente per l’individuo, perché l’attenzione che viene dedicata è una forma preziosissima di energia, un’energia che è sempre più difficile da trovare nella moderna società delle avanzate tecnologie.

I parassiti


Ho sempre creduto che la funzione delle leggi e dei regolamenti fosse quella di garantire la pacifica convivenza fra gli individui.

Recentemente di fronte allo stupore di un avvocato, meravigliato di come due controparti fossero arrivate ad un comune accordo usando il buon senso, e di fronte al suo tentativo di alterare l’equilibrio raggiunto spostandolo verso qualcosa di maggiormente aderente alla norma, ho maturato la seguente riflessione.

Che senso avrebbe l’esistenza di una legge, o di un avvocato, o di un giudice che la applica, o di un legislatore che la produce, se tutti andassero d’accordo e usassero il buon senso?

Nessuno.

Esiste un enorme apparato che si nutre del fatto che litighiamo e siamo incapaci di usare il buon senso; questi burocrati non hanno alcun interesse al raggiungimento della pacifica convivenza, perché significherebbe il loro annientamento.

Anche a livello macro, i capi di stato (o chi per loro) non hanno la minima intenzione di far cessare le guerre, perché proprio dalla loro esistenza traggono sostentamento.

Sappi dunque, la prossima volta che proverai sentimenti negativi o fattivamente cercherai di intentare una causa contro qualcuno per fargli vedere chi sei, che in quel momento starai alimentando dei parassiti che si nutrono della tua energia.

Se andassimo tutti d’accordo e sapessimo usare il buon senso, non ci sarebbe bisogno di uno stato, né di un apparato di burocrati che campano sui nostri litigi e la nostra incapacità di stare al mondo.

Ebbene, vuoi ancora dimostrare chi sei, o preferisci dedicare le tue energie a goderti la vita?

Sentieri


A Vale & Nico.

Sentieri stretti e tortuosi che risalgono nervosi un aspro crinale.

Sentieri larghi e pianeggianti che si immergono sinuosi nell’ombra di una faggeta.

Sentieri marcati, sentieri sfumati.

Sentieri che si incrociano, sentieri che corrono paralleli per brevi o lunghi tratti.

Sentieri che si fondono rinunciando alla propria individualità.

Che sorprendente, accecante meraviglia l’arcobaleno dei sentieri delle nostre vite.

Sarebbe facile, troppo facile cedere alla tentazione della mente e augurarvi che i vostri sentieri possano procedere affiancati, seppur distinti, per sempre.

Ma so bene che il futuro è illusione, e allora preferisco vedervi nell’eterno presente di due segnavia di diversa forma e colore, che si ritrovano all’improvviso nella stessa boscosa radura, lui su una roccia, granitico e fermo, lei sul tronco di un albero, costantemente in bilico fra cielo e terra, e nella nebbia fumante di sole che sublima la brina sussurrano, calmi: “dai, arriviamoci assieme alla cima”.

Fuori o dentro?


Dopo che ho pubblicato l’articolo sulla mia intenzione di non presentarmi alle prossime elezioni ho ricevuto una serie di commenti piuttosto interessanti, che hanno stimolato in me ulteriori riflessioni che desidero ora condividere.

Uno di questi rimandi sottolineava l’esistenza di un articolo della legge elettorale che prevede di manifestare apertamente il proprio dissenso, e conseguente rifiuto di esprimere una preferenza, facendolo mettere a verbale; in questo modo si rende palese il malcontento, facendolo emergere e formalizzandolo.

Lo spunto è interessante, ma resta un fatto: pure questo è uno strumento messo a disposizione dal sistema; nel momento in cui rifiuto quest’ultimo, lo faccio in toto ivi comprese le opzioni a mio (presunto) vantaggio.

Ma la vera questione è un’altra, credo che si stia guardando dalla parte sbagliata; il punto non è tanto domandarsi cosa accadrà là fuori, ma quali saranno gli effetti, diciamo a livello spirituale, sulla mia interiorità; io non vado a votare perché questo riflette un mio stato d’animo, non perché ho velleità di cambiare il mondo: già adesso non mi sento parte del sistema, e quindi perché mai dovrei muovermi all’interno dei suoi schemi?

Estremizzando, se fossi sufficientemente evoluto potrebbe non importarmi poi tanto che le regole cambino, perché già adesso so di non farne più parte.

La domanda dunque non riguarda tanto gli effetti sul mondo là fuori, ma diventa: cosa accadrà al mio essere nel momento in cui metterò in atto un comportamento coerente con ciò che sento?

Ebbene, sono convinto che ogni mia cellula registrerà questo atteggiamento e ne uscirò notevolmente migliorato, a partire dall’autostima e la fiducia in me.

Che il mondo là fuori vada pure per la sua strada, io mi basto da solo.