Archivio mensile:novembre 2022

Il cerchio fuori dal solco


Cosa è per me un gruppo? Cosa vorrei donare a questo gruppo? Cosa vorrei ricevere da questo gruppo? Come mi sento?

Stare assieme ad altre persone è una risorsa, e una fatica.

Non esiste l’armonia gratuita che scaturisce per definizione dal gruppo ‘giusto’; talvolta essa arriva senza sforzo, talvolta viene richiesto un lavoro difficile che porti a rinunciare alle proprie convinzioni, andando incontro all’altro con la sgradevole sensazione della sconfitta, di aver perso la partita. Ed è forse proprio in queste circostanze che la potenza del gruppo offre le migliori opportunità.

Perché è vero che la nave ogni tanto ha bisogno di rimanere in porto a riposare, ma il suo ambiente naturale è il mare aperto. Perché è nutriente rendersi conto che spesso preferiamo avere ragione, piuttosto che essere in pace e armonia. Perché le cose che accadono fuori accadono anche dentro al cerchio, ma in un contesto controllato, in una sorta di ‘laboratorio’ protetto.

Comprendere l’altro non significa abbandonare le proprie posizioni, solo ammettere che ce ne sono altre. Ce ne sono molte, ce ne sono infinite. Che meraviglia scoprirle!

Le dinamiche di gruppo portano a una continua esplorazione, un continuo arricchimento: a patto che si entri nella dimensione dell’ascolto, a patto che si abbandoni ogni preconcetto, e si accolga senza obiezioni di sorta la visione altrui.

Sospensione del giudizio, viene chiamata. Che non significa rinunciare definitivamente alla propria opinione, ma solo mettere da parte quel bisogno per un poco, quel tanto che basta per fare una capatina, con occhi curiosi di bimbo, nelle stanze altrui.

Chissà che non ci si trovino soprese interessanti! A me basta già quella di realizzare quanto quelle stanze siano diverse dalla mia, e allo stesso tempo, in qualche inspiegabile modo, così simili.

Pillole di counseling – Cos’è il counseling?


Non amo incasellare concetti all’interno di definizioni, come se fossero tanti scatoloni impilati su una scaffale, ciascuno con la propria brava etichetta.

Eppure una innegabile esigenza pratica di comunicazione rende il passaggio imprescindibile: l’ipotetico cliente che voglia approcciarsi a questo mondo ha il sacrosanto bisogno di conoscerlo preventivamente, seppure inizialmente solo a livello cognitivo.

E allora, per contemperare le mie e le altrui esigenze, proverò a usare una metafora per trasmettere a livello intuitivo ciò che per me è l’essenza del counseling, mantenendomi ben lungi da altisonanti definizioni accademiche.

La metafora vede mia figlia come protagonista; ha talvolta difficoltà con la matematica, e capita che in alcuni casi mi chieda un aiuto, in particolare quando non riesce con gli esercizi. Conosce la teoria, padroneggia il procedimento, eppure il risultato non è quello atteso.

In questi casi, invece di mostrarle dove si trova l’errore (sempre ammesso che io sia in grado di individuarlo), trovo particolarmente efficace un diverso approccio.

Le chiedo di illustrarmi ad alta voce tutti i passi che ha fatto, come se dovesse spiegarli a chi non ne sa nulla; talvolta capita che sintetizzi due o più di questi, verbalizzandoli come se fossero uno solo, e allora la invito a spiegare meglio, scendendo maggiormente nel dettaglio.

Ebbene, non mi è mai successo, seguendo questa strada, che non fosse lei stessa ad individuare l’errore. Io non faccio nulla se non limitarmi ad accompagnarla nel processo di esplorazione. L’aspetto curioso è che per fare ciò non mi occorre conoscere alcunché di matematica, al contrario: meno ne so, più sono obbligato a stimolare in lei spiegazioni di dettaglio che la forzano a rendere esplicito ciò che è implicito.

Ti prego di non farti fuorviare dal fatto che il caso citato si riferisca alla risoluzione di un problema, alla ricerca di un errore; l’esempio è per l’appunto scolastico. Nel cliente che si rivolge al counselor non c’è alcunché di sbagliato da trovare, casomai possiamo parlare di difficoltà legate ad una visione limitata della realtà.

In ogni caso, è sorprendente come essere affiancati da qualcuno genuinamente interessato a conoscere il nostro mondo ci aiuti a vederlo con maggior chiarezza, e magari a trovare eventuali correttivi da apportare.

Questa per me è la magia del counseling.

Mi rendo conto: ho banalizzato, c’è molto altro; un bagaglio di strumenti più o meno ricco che permette di aumentare l’efficacia dell’esplorazione, tecniche gestaltiche che consentono di entrare maggiormente in contatto col proprio mondo emotivo… ma lo scopo di questo articolo è darti un’idea intuitiva del counseling, non descriverlo nel dettaglio; andando alla sostanza, riducendo il più possibile ai minimi termini, il counseling per me è proprio questo.

Empaticamente esserci.

Quando il saggio indica la luna…


Un famoso proverbio – forse di origine cinese – recita:

Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito.

L’invito è quello di andare in profondità, non fermandosi alla superficie e all’apparenza dei fenomeni.

A me piace darne qui una chiave lettura diversa, portandola nel campo del counseling e dell’esperienza umana in generale: credo che siamo tutti stolti nel momento in cui ci ostiniamo a guardare fuori invece di guardare dentro di noi.

E’ mia ferma convinzione che ogni persona che incontriamo, ogni esperienza piacevole o dolorosa, ogni difficoltà che ci si para di fronte, siano tutte dita puntate verso di noi, con intento non accusatorio, ma indicativo.

Gli eventi della vita parlano della nostra personalità, ci offrono l’opportunità di conoscerci, di capire chi siamo. Ci invitano a portare l’attenzione su di noi, e noi che facciamo invece? Guardiamo il dito, l’evento esterno!

Grazie alla breve esperienza maturata nel corso dell’ultimo anno, conducendo un cerchio di condivisione nell’ambito della mia attività di counseling, mi sono accorto di quanto sia difficile non cedere alla tentazione di farsi trascinare ‘fuori’ dagli eventi della vita, portando in continuazione l’attenzione su questi, invece che sul nostro mondo interiore, le nostre modalità spesso reattive di rispondere agli stessi.

Posso per esempio continuare a ripetermi che soffro perché l’altro non si comporta come vorrei ma se, per amore di ipotesi, l’Universo stesse cercando di mostrarmi qualcosa attraverso di lui e io mi ostino a non volermi guardare, il fastidioso evento continuerà a ripetersi, magari in forma di volta in volta diversa ma identico nella sostanza, fintanto che non ho imparato.

Cosa si muove dentro di me in risposta al ciò che accada là fuori? Quali pensieri? Quali sensazioni? Quali i miei bisogni insoddisfatti? Riesco a vedere i miei schemi ripetitivi? Riesco a vedere emozioni parassite che provengono da chissà quale passato e si agganciano alla situazione contingente, sfruttandola per emergere?

Sovente pensiamo che il mondo vada cambiato, o che il cambiamento debba partire da noi.

Io mi sto viepiù convincendo che non occorra sforzarsi di cambiare alcunché, ma solo osservare. Nel posto giusto, con coraggio, anche se potrebbe non essere sempre una visione piacevole.

Una volta visto il necessario il cambiamento avverrà spontaneamente, perché lo show ha perso la sua ragion d’essere.