Osservo la mia meta, lassù in alto, avvolta dalle nuvole. Mi accingo ad affrontare la dura salita sperando che non piova, le condizioni meteo in vetta non sembrano essere delle migliori. Però almeno fa fresco.
Dopo circa un’ora e mezza di cammino una leggera nebbiolina inizia ad avvolgermi; manca poco ormai. La nebbia diventa sempre più fitta, mi abbraccia nel suo manto umido quasi a volermi proteggere.
Una riflessione si fa strada fra i miei pensieri: questa che ora chiamo nebbia è quella che là in basso, alla partenza, chiamavo nuvola.
Cos’è dunque? Nebbia o nuvola?
Non importa.
Lei è sempre stata qui, indifferente ad ogni tentativo di catalogazione, ben consapevole che i mutevoli punti di vista altrui potranno forse cambiarle nome, ma non riusciranno mai a imbrigliarne l’essenza, a impedirle di manifestarsi per ciò che è.
Sono sdraiato sul prato, occhi rivolti al cielo in cerca di stelle cadenti.
Focalizzo lo sguardo in un punto, poi lo sposto in un altro, poi un altro ancora, cercando di cogliere l’attimo e il luogo in cui passerà la scia luminosa. Questa modalità è per me frustrante e ansiogena: vuoi vedere che mentre mi concentro di qui, la furbetta mi frega e passa di là? Gli occhi si muovono frenetici assecondando il mio bisogno di famelica ricerca.
Poi decido di rilassarmi, e di cambiare modalità: non focalizzo più lo sguardo, ma cerco di accogliere la volta celeste nella sua totalità usando la visione periferica; non osservo alcun punto del cielo, ma contemplo il cielo, che mi appare ora meno dettagliato, ma sicuramente più unitario: ho una percezione olistica di quella scura cupola punteggiata di luce.
E improvvisamente eccola, sulla destra! A quel punto sì, che focalizzo lo sguardo là dove serve, e mi godo quell’istante di effimera bellezza. Un picco di momentanea attenzione che torna subito ad appiattirsi nella contemplazione del tutto, senza aspettative, senza ingordigia.
E mi rendo conto che vivere si può ricondurre proprio a questo pulsare.
Se rimango troppo concentrato su un piano, un progetto, una persona, un’aspettativa, perdo la visione d’insieme; e magari una scia luminosa mi passa accanto, mentre ho lo sguardo rivolto altrove.
Non voglio più che la mia vita sia affannosa ricerca, ma contemplazione del tutto in placida attesa, punteggiata da una miriade di fugaci attimi di stupore che mi chiamano temporaneamente all’azione, per poi lasciarmi nuovamente andare al mistero dell’inconoscibile, dell’incontrollabile, dell’imprevedibile.
Battito del cuore, respiro cosmico. Energia che emerge dal vuoto. Che meraviglia!
In questo periodo mi sento diverso, e solo. Molto più del solito, o forse lo sopporto molto meno, chissà.
Sento di essere rifiutato dal branco, reo di rimanere fedele al mio sentire più profondo. E ho paura, molta paura di non sopravvivere, da solo nella tormenta.
Un giorno vado a fare una corsa nel bosco; sulla via del ritorno, mentre passo per il piccolo paese di Goretta, una voce squillante mi richiama da dietro.
“Buongiorno!” dice la signora con le borse della spesa.
“Buongiorno” rispondo io.
“Le piace molto Goretta, la vedo passare spesso!”
“Sì, mi piace tutto questo monte” ribatto io indicando la costa di Lavaggio.
“Se, quando passa, avesse bisogno di acqua, chieda pure, io abito qualche casa più sopra!”
“Grazie! Gentilissima”, concludo io, saluto e riprendo la mia corsa pensando fra me e me: ha spontaneamente offerto acqua a un perfetto sconosciuto.
Qualche giorno dopo è la volta di un giro in bici, direzione Piancassina, all’estremità più selvaggia della Valbrevenna.
Giunto a destinazione, perlustro incuriosito le strade del piccolo paesino; una donna chiede se ho bisogno, e rispondo che sto solo visitando il centro abitato.
Iniziamo a parlare del più e del meno, di sentieri, di luoghi, di conoscenze in comune che scopriamo di avere; ben presto arriva il marito, che si aggiunge alla conversazione, finché non vengo invitato in tavernetta a prendere un caffè; un caffè offerto a un perfetto sconosciuto. Il mio giro in bici avrà un ritardo imprevisto di un’ora.
Sono segnali che non posso ignorare, segnali che aprono il cuore, e che dicono che sì, viviamo in un mondo dominato dalla paura, dalle ferree e intransigenti regole di un branco un po’ atipico che impone separazione e lontananza, per il bene comune; ma dietro questo strato di freddo calcolo esiste ancora la brace dell’umanità, esiste ancora la voglia di connessione.
Non sono nato per stare in branco, questo è chiaro; ma neanche i lupi solitari sono mai davvero del tutto isolati nella tormenta.