Le relazioni, di qualunque natura esse siano, possono completarci, ma a mio avviso non nel modo in cui siamo stati abituati a pensare; ogni persona che incontriamo è uno specchio che mette in evidenza una parte di noi stessi: se ci irrita, significa che abbiamo nodi irrisolti che rifiutiamo di vedere, se ci fa stare bene significa che attiva la parte di noi con la quale ci sentiamo maggiormente a nostro agio; non si tratta di illazioni metafisiche o New Age, né delle ultimissime scoperte della neuroscienza, ma di puro buon senso, e per dimostrartelo ti invito a riflettere sulla seguente considerazione.
Un amico afferma che un certo cibo da lui assaggiato è nauseante perché troppo dolce, e tu comprendi in qualche modo ciò che prova in relazione ad esso; come è avvenuta questa comprensione?
Da qualche parte nel tuo database informativo devono per forza esistere i concetti associati alle etichette ‘dolce’ e ‘nausea’, insieme ai molti altri necessari a decodificare le parole dell’amico; in realtà tu non stai affatto provando la sua esperienza, non puoi avere la minima idea di come si sente, dal momento che non sei lui; puoi solo attingere alle informazioni relative al tuo passato e ‘ricordare’ la sensazione di ‘troppo dolce’ e di ‘nausea’; insomma, stai proiettando sull’esperienza dell’amico una simulazione della tua: difficilmente saranno identiche, ma tanto basta per convincerti di aver capito cosa intende dire.
Il punto cruciale è che per capire la nausea del tuo amico devi averne fatto esperienza tu per primo, altrimenti avresti la stessa comprensione di un cieco a cui vengono descritte le meraviglie di un quadro.
Adesso cambiamo contesto: dici di non sopportare il tuo vicino perché è un presuntuoso pieno di sé; ma un momento: tu del vicino vedi solo il comportamento esteriore, quello è il solo dato oggettivo a tua disposizione; come fai a sapere che è dettato da quella che chiami presunzione?
Come per il senso del dolce e della nausea, devi averlo esperito in prima persona, altrimenti non potresti comprendere né, tanto meno, essere emotivamente coinvolto in ciò che fa quella persona. Detto più chiaramente: dev’esserci stato almeno un episodio, in passato, in cui hai osservato qualcuno comportarsi così, o magari l’hai fatto tu stesso, e hai maturato l’associazione fra quell’atteggiamento e l’etichetta ‘presunzione’, ad esempio perché è stata usata da un osservatore esterno, supponiamo un genitore o un insegnante, che a sua volta stava inconsapevolmente proiettando sugli altri il proprio mondo interiore.
Quindi, se puoi attribuire a qualcuno l’etichetta di presuntuoso vuol dire che esiste una parte di te che ne ha fatto esperienza, con tanto di strascichi emotivi parassiti che ora tornano a farti visita dal passato: il vicino non c’entra nulla, è solo uno specchio che attiva i solchi mentali della tua mappa mnesica.
Le persone con le quali ci relazioniamo ci completano dunque nel senso che ci danno l’opportunità di conoscere noi stessi, i nostri meccanismi reattivi ma anche le nostre potenzialità; una volta che la conoscenza è stata acquisita e accettata, la relazione ha esaurito la sua funzione; dal punto di vista psicologico dunque la nostra dipendenza dall’altro è puramente illusoria, e viene meno nel momento in cui comprendiamo che ciò che stiamo attingendo dall’esterno è in realtà già dentro noi.
Sul piano pratico non c’è dubbio che la collaborazione fra individui resti fondamentale, così come il completamento che nasce dall’unione dei due sessi non sarebbe raggiungibile diversamente, ma per quanto riguarda la sufficienza psicologica possiamo ben dire di essere ermafroditi, solo che allo stadio immaturo ancora non lo sappiamo; possiamo scoprirlo attraverso le relazioni.
Questo è particolarmente vero per quanto riguarda le relazioni affettive; un’immatura concezione dell’amore porta ad avvicinarlo molto allo stato di bisogno: «senza di te non posso vivere!», «quanto mi manchi!», «non riesco a stare senza te!», caricando l’altro di una responsabilità che non può e non gli compete gestire.
Capita di rimanere travolti dal dolore quando il partner ci lascia, perché viviamo l’illusione di quanto ‘ci faceva stare bene’; in realtà non faceva alcunché, se non darci l’occasione di fare esperienza delle piacevoli sensazioni che il nostro organismo sa provare: non era lui/lei a farci stare bene, eravamo noi ad esserne capaci! Uno spostamento di responsabilità, e di leve di comando, mica da poco. Ora che se ne è andato, posso affliggermi e piangere su me stesso, oppure prendere atto che sono, in potenza, in grado di provare quello stato di benessere: se opto per la seconda scelta, non sarà difficile ricreare le condizioni per ritrovarlo (accettazione), se oppongo resistenza a ciò che è, continuerò a maledire il giorno in cui l’ho incontrato/a, invece di benedirlo.
Nessuno può farsi carico della felicità altrui, l’individuo maturo sa prendersi le sue responsabilità, e fra queste vi è anche quella di decidere della propria felicità; usare capri espiatori per manlevarsi dalle proprie mancanze è comodo e liberatorio, ma non risolve il problema.
Per usare una similitudine, la relazione immatura è come la lettera A, nella quale due segmenti obliqui legati dal trattino orizzontale si appoggiano uno sull’altro, reggendosi vicendevolmente; la relazione matura è ben rappresentata invece dalla lettera H, in cui i due segmenti verticali sono in grado di rimanere in piedi singolarmente, a prescindere dall’esistenza dell’altro e di un legame.
La persona matura che decide di relazionarsi non lo fa per bisogno psicologico, visto che da quel punto di vista è autosufficiente, ma per sovrabbondanza di risorse: lo fa per donare qualcosa, e non per avere qualcosa in cambio; una relazione profonda è un lusso e non nasce da uno stato di indigenza; se accade, i problemi non tarderanno a manifestarsi, e il peso della aspettative a diventare insopportabile.
Altra cosa, come già detto, è la collaborazione e lo scambio sul piano pratico, ma anche in questo caso, se lo stato di bisogno porta a una situazione di dipendenza la relazione diventa patologica: caso emblematico è il rapporto di lavoro subordinato, nel quale si arriva ad usare l’altrettanto ripugnante termine ‘lavoratore dipendente’; in una società sana non esiste alcun vincolo di subordinazione o di dipendenza, ma solo un libero scambio: io ti offro la mia mano d’opera, tu mi paghi; se qualcosa non funziona, ciascuno può rivolgersi altrove e amici come prima.
L’ego, nei rapporti amorosi come in quelli lavorativi, tende invece a blindare la relazione, aggiungendo vincoli a garanzia del mantenimento del rapporto, e facilitando così il suo deterioramento, perché trasferisce il collante (o l’attenzione su di esso) dal mondo della sostanza a quello della forma.